Za darmo

La principessa romanzo

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XV

Il principe di Gorreso il giorno stesso in cui il Venosa pativa tali trepidanze, d’umor allegro più del solito, con un vero riso di gioia nell’anima, era uscito: avea fatto una lunga passeggiata, poichè la temperatura era dolcissima: e quindi, per riposarsi, se n’era andato al suo Circolo, il più aristocratico Circolo di Napoli.

Lasciati nelle mani d’un servitore il suo cappello, il suo bastone, per una porticina laterale entrò nella biblioteca, ch’era deserta, e si buttò giù in una comoda poltrona. Una fra le porte della biblioteca era aperta e metteva nella sala di lettura. Però il principe non potea esser veduto dalla sala, poichè era coperto dal dorso dell’ampia poltrona.

A poco a poco, benchè avesse preso in mano le poesie del Savioli, allora molto lette, si addormentò; ma fu svegliato da un bisbiglio di voci, a lui molto vicino.

I suoi occhi si posarono sull’orologio della biblioteca, che aveva dinanzi, e si accorse che avea dormito un tre quarti d’ora.

Prima che facesse qualsiasi movimento, udì in quel bisbiglìo di voci, che già gli avea percosso l’orecchio, pronunziare il suo nome.

Involontariamente, per una curiosità più forte di lui, si mise in ascolto: e aguzzò l’orecchio per riconoscere le voci.

– Non credo, ripeto, che Gorreso ne sappia nulla, – diceva il vecchio duca della Pandura, un bellimbusto mezzo rimbambito, al principe di Latania, giuocatore, spensierato, di fama molto prodigata, ma ricevuto, accolto per tutto, grazie al suo nome: eroe di scandalose avventure: e che dovea finire con un suicidio, dopo tante stranezze, di cui i suoi più intimi, e anche qualche conoscente, avean subìto di pagare per anni le spese.

– State sicuro, – rispondeva il principe di Latania, – che il Gorreso sa tutto: e finge non sapere.... Ma gli torna molto utile....

– E di che ha egli bisogno?

– Di quello di cui ha bisogno un ambizioso.

– Ambizioso Gorreso? – ripigliava il duca.

Entrò un terzo nella sala di lettura.

Il principe pian piano si alzò: uscì dalla biblioteca per la porticina laterale; e, di lì a pochi istanti, entrò anch’egli nella sala di lettura dal corridoio.

Subito il duca della Pandura lo salutò con molta espansione. Il principe di Latania si alzò, gli andò incontro, gli strinse tutte e due le mani, gli sorrise, lo chiamò con tutti i vezzeggiativi.

– Come sono sinceri i veri amici! – pensava il principe Gorreso.

S’intrattenne un po’ a parlare con essi: scherzò, si mostrò allegro: trasse il discorso destramente sui poveri mariti.

– Sempre ingannati, – osservava il principe, – sempre vittime della loro credulità.... Ma come possono saper mai il vero, se tutti si adoperano a tenerlo ad essi celato!

Si accorse che il principe Latania toccava col gomito il duca della Pandura, come per richiamare la sua attenzione su la grottesca semplicità di un uomo, che parlava in tal modo, mentre era egli stesso nella pietosa condizione a cui alludeva.

Il Gorreso seppe dissimulare, sebbene lo stimolasse un vivo desiderio di saltar al collo di quell’impronto e fargli pagar cara la sua imprudenza.

Ma non era quello il luogo, nè gli parea giunto il momento opportuno.

I suoi due amici se ne andarono insieme, dopo breve tratto; egli rimase solo: e pensava, guardando verso l’uscio sempre aperto della biblioteca: – In quella stanza potrò nascondermi quando voglio.... È sempre la meno frequentata del Circolo.... Ed ecco un punto da cui potrò, a poco a poco, udire ciò che i miei amici pensano di me, dopo una sì lunga assenza.

Vi tornò parecchie volte, in ore diverse, stette seduto, con un libro in mano, mezze giornate nella gran poltrona.... udì molti discorsi: ma non più nulla che a lui si riferisse. E quasi quasi era sul punto di rinunziare al suo disegno.

Dopo il suo ritorno, il principe osservava strettamente sua moglie. Gli sembrava che ella fosse inquietissima, molto agitata. Gli appariva sempre nuova, sempre ammaliantemente misteriosa. In lui stava per raccendersi l’antica passione.

Sovente Enrica lo vedea comparire nelle sue stanze, le si avvicinava, la carezzava: avevano passate insieme molte serate dopo pranzo: c’erano state fra loro scene appassionatissime.

Un giorno il principe, anche per provare Enrica, le suggerì di passare con lui qualche tempo a Mondrone, nella solitudine della campagna. Nessuno turberebbe i loro amori: potrebbero esser tanto felici!

Enrica accettò con entusiasmo: e ciò finì con l’aquetare, lì per lì, i sospetti del principe.

Una sera erano a Mondrone.... Il principe si trovava nella camera di Enrica. Aveano fatto un pranzo succulento, il principe aveva bevuto più dell’usato. S’erano dati a leggere poesie d’amore: aveano corso insieme tre pagine d’un romanzo, in cui si descriveva a vivi colori la felicità di due innamorati.... Erano eccitatissimi.

Enrica stava in mezzo alla stanza, quasi dinanzi al caminetto: e avea gettata una dopo l’altra le sue vesti, per cingersi un largo accappatoio.

Le rimaneva in dosso il suo busto di raso scarlatto, che dava un’insolita vivacità di tono al bianco delle sue braccia, al nascere delle sue spalle e del suo seno, e un guarnelletto di batista, con trine finissime, facea spiccare il suo fianco, e si fermava a un punto in cui lasciava scoperte le gambe robuste, coperte da una maglia di seta scarlatta, ben tirata.

Il principe voleva avvicinarsele.

– No, no, – ella rispondeva, provocandolo, attizzandolo, sfuggendogli, mentre gli rivolgeva il suo sorriso di sirena. Era splendida, irresistibile.

Egli la supplicava.

– Parliamo d’affari! – ella disse a un tratto.

– D’affari? – replicò il principe meravigliato.

– Sì, sì; io sono, caro amico, in penosi imbarazzi.... Ho fatto far nuovi lavori qui nella tenuta di Mondrone: ho anticipato somme.... mi sono rovinata. I miei creditori non mi lasciano pace.... E ho speso molto anche per prepararvi una sorpresa.

– E qual sorpresa? – sfuggì detto al principe.

– Una grandissima sorpresa....

– Ma, dunque?

– Mi occorre una somma.... e tu devi prestarmela.

– Volentieri!… – disse il principe, che era generosissimo.

Enrica fu lieta di quella sì subita profferta; e si pentì di non aver fatto prima simile domanda al marito. Ormai le sue dissipazioni la trascinavano alla rovina e non avea più ritegni di sorta.

– Sai quello ch’io voglia da te?

– Ma io ti do carta bianca, – disse il principe.

– Non sono certa però che domani tu sarai della stessa opinione, – esclamò la principessa con un vero sorriso da cortigiana.

– M’insulti, dubitando della mia parola: io non sono come te....

– Oh, oh: questo è peggio che un insulto! – e la principessa metteva un foglio di carta bianca su un tavolino sotto l’occhio del principe.

E gl’indicava il calamaio, una penna, con certi gesti quasi infantili: ma di fanciullo pervertito, e di una profonda corruzione.

Il principe firmò. Toccava a lei scriver la somma che voleva. Lì per lì, il principe credette, o quasi, si trattasse d’un giuoco e non vi pensò più, nel suo inebriamento. Ma, con fittissimi e variati espedienti, le scene si rinnovarono due, tre volte, anche quando furon tornati nel loro palazzo di Napoli.

Ella gli dimostrava un gran fervore: lo ingolfava in raffinate sensualità: a poco a poco, lo incatenava di nuovo a sè.

Un giorno, mentre tornavano da una colazione, cui li avea invitati l’ambasciatore inglese, il principe era rimasto nelle stanze di Enrica: non se ne andava: ed essa avea capito il perchè del suo indugiarsi.

Il principe la strinse fra le sue braccia.

– Non sono tranquilla oggi! – ella disse bruscamente.

E ricominciò, a poco a poco, una delle sue solite scene. Egli si ritrasse spaventato. Ciò si ripeteva troppo di sovente.

– Ma, – esclamò, allontanandosi da lei, – che modo è questo?…

E, dopo breve silenzio: – Tu mi vendi i tuoi sorrisi?

Enrica fu colpita. Capì ch’essa, accecata dalla mania del denaro, dalla urgenza di far fronte a certe necessità che la incalzavano, e che non potea confessare, era andata tropp’oltre.

Che l’avea sospinta alle nuove, pazze spese? Sempre la sua vanità, la sua sfrenata ambizione; e il desiderio, a cui non poteva resistere, di far sorvegliare il re, d’aver prove ch’egli trescava con una nuova privilegiata. Facea pur spiare Diana, e la volea far cadere in un orribile tranello. Si era formata una specie di polizia, composta di uomini e di donne. Le recavano molte notizie, e tutte inconcludenti. Ella le interpretava a suo modo, ne cavava le conseguenze, che soddisfacevano al suo odio per Diana, alla sua gelosia, e sempre più s’irritava, sempre più s’ingolfava, per stordirsi, in un modo di vita che dovea tornarle esiziale. Cristina era anch’essa ora fra le persone che Enrica credeva sue ausiliarie.

Il principe fu presto consapevole che nella sua casa accadeva qualche cosa d’insolito. A giorni voleva interrogar la moglie, minacciarla, indagare ciò che gli appariva molto misterioso: incontrava spesso per le scale del palazzo, nelle stanze, uomini, donne, che non sapea chi fossero; ma la sua spensieratezza, il suo umore allegro finivan sempre per dominarlo; egli era nato per la vita facile, briosa.

Come abbiam detto altre volte, era uomo terribile e potea esser capace di tutto in certi istanti di collera: ma la sua vera natura, la sua natura superficiale, che è quella che vince in tutti, poichè è fatta d’abitudini, lo portava alla eleganza, a un certo forbito libertinaggio, alla raffinatezza, alla sensualità.

Avea ricominciato le sue visite alla duchessa. Nella pace di quella casa trovava il riposo dell’animo, di cui aveva bisogno: e non pensava più che tanto al bailamme di casa sua. Lasciava spesso la principessa sola per intere giornate, e nelle serate: ella non se ne lamentava: talvolta neppure se ne accorgeva.

 

Una sera, entrando al suo Circolo, gli fu consegnata da un cameriere una lettera anonima.

Gli fu detto che l’avea recapitata una donna, assai ben vestita, assai bella, quantunque di età piuttosto matura, e che era stata altre volte a domandare di lui.

Il principe trovò subito un amico, e si dette a parlare con esso, riponendo in tasca la lettera. Tornato a casa la notte, ritrovò quella lettera: sedette su una poltrona, e aprì la busta.

La lettera non era firmata. Voleva stracciarla, come era suo costume in simili occasioni: ma il nome di Enrica attirò i suoi sguardi, e la lesse, quasi contro la sua volontà.

In quella lettera vi era una nerissima denunzia.

Vi si diceva che la principessa era la favorita del Re; e ch’egli, il principe, era un marito compiacente, di cui tutta Napoli si burlava: ma non tutti si contentavano di schernirlo: v’era chi lo dispregiava, chi lo accusava di viltà: poichè si diceva ch’egli s’avvantaggiasse del suo disonore. Si sapeva che l’ambasciata a lui conferita, e con palese ingiustizia verso di altri, era un pretesto per allontanarlo da Napoli. Provvedesse al suo nome, se davvero non aveva rinunziato ad ogni dignità. La persona che scriveva, lo avea sentito designare col nome di “marito infame”: pesava già su lui una riputazione d’ignominia. Gli amici, che gli si porgevano tanto cortesi in sembiante, nel loro segreto lo condannavano. Nelle conversazioni si sparlava di lui, si proferivano sul conto suo le cose più nefande, sebbene i discorsi a lui contrarii cessassero al suo apparire.

Vi erano poi alcune allusioni alla famiglia del principe, alla sua infanzia: allusioni di cose intime e ignote a tutti, salvo a persone che avessero per anni frequentato la casa sua. Il principe dovette persuadersi che la lettera non era scritta da persona comune.

Lo dimostravano eziandio lo stile netto in cui era scritta, la fina calligrafia, la carta finissima e olente un profumo aristocratico.

Chi gli avea scritto, e qual’era la donna che avea spinto la temerarietà sino a lasciare ella stessa la lettera alla porta del Circolo?… Ma Napoli è sì grande! essa non temeva forse di essere riconosciuta: o molto probabilmente la donna che avea scritto la lettera non era quella stessa che l’avea recapitata.

Con la lettera in mano, il principe fantasticava.

Metteva certe espressioni contenute in quel foglio insieme con le altre da lui udite la mattina in cui gli era riuscito cogliere a volo certi tratti di un dialogo fra il duca della Pandura e il principe di Latania.

Ora capiva bene certe allusioni. – Ma un uomo come lui dovea lasciarsi torcere a sì tristi pensieri da una vilissima lettera anonima? Se fosse stata scritta da qualche nemica della principessa? Da qualche donna astiosa, invidiosa, e che ella avesse irritato?

Strappò la lettera: ma una grande inquietudine, maggiore di quelle da lui provate sin allora, gli era entrata nel cuore.

La mattina uscì per tempo: sperava la serenità del cielo, il moto gli avrebbero restituita la calma.

Per tre giorni fu cupo, pensieroso.

Passava molte ore nella biblioteca del Circolo, e, appena entrato, socchiudeva tutte le finestre per rimanere, più che gli fosse concesso, all’oscuro, affinchè altri non venisse a disturbarlo e non lo vedesse.

Il terzo giorno, circa il tocco, sentì entrar nella sala di lettura, accanto alla biblioteca, il principe Latania e un altro signore. Erano soli: il principe parlava a voce piuttosto alta.

– Non avete riconosciuto, – diceva il prìncipe, – quella dama velata, che camminava sì ratta a fianco del palazzo reale?

– Sì.... sì.... era la principessa di Gorreso: e perchè cotesto piglio d’ironia?

– Siete un briccone: ne sapete più di me.... e vorreste ch’io sciogliessi lo scilinguagnolo!

– Dite, dite quel che sapete: mi piacciono gli scandali aristocratici.... e qui ce ne dev’essere uno: lo capisco dalla vostra aria maligna....

– Non sapete che la principessa è l’amante del Re?

– Bella notizia.... benchè tornato da poco, l’ho subito ricevuta.... E non c’è altro?

– C’è che essa cerca ora di compromettere il Sovrano con la condotta più imprudente.... Si crederebbe che abbia smarrito la ragione.... Sapete che faceva così a piedi?.... Spiava se il re usciva: o se entrava nel palazzo qualcuna delle dame, che teme possano disputarle la sua influenza.

– Ma il Gorreso non è tornato?…

Il principe, seduto nella biblioteca, e che tutto appoggiato su uno de’ bracciuoli della poltrona ascoltava con molta ansietà, riconobbe la voce del marchese d’Antella: uno de’ suoi amici migliori, che non avea riveduto da qualche tempo.

– Oh, il Gorreso è tornato, ma non ha occhi per vedere…, nè orecchi per udire!… Se non è un marito.... immune da certe peripezie, è un ambizioso soddisfatto.... e l’ambizione è in lui più potente che l’affetto per la moglie.... Egli sposò la principessa.... per interesse. Sapete che il duca di Mondrone gli lasciò buona parte del suo patrimonio.... Dovea aver egli posto tal condizione.... Vendè allora il suo nome: oggi vende il suo onore....

– Ma che dite? – domandò don Silvio Antella.

Il principe, nella biblioteca, avea bisogno di tutte le sue forze per dominarsi; ma volea sostenere quello strazio, che lo ambasciava, sino all’estremo: non c’era per lui altro mezzo di saper intera la verità, di appurare schiettamente, compiutamente ciò che si dicea su di lui. Niuno di que’ codardi avrebbe osato palesare al suo cospetto ciò che si ripeteano, a ogni istante, fra loro. Con lui tutti pigliavano il sembiante più dolce, magari più amichevole.

– Che dico? – riprese il Latania. – Parlate con tutti i nostri amici, vi diranno lo stesso.... il principe è designato fra noi, nella nostra società, col titolo di “marito infame”.... Per ora niuno osa affrontare apertamente la sua collera con un grave insulto.... Ma, dacchè è tornato, non ha trovato qui nel Circolo chi volesse giuocare una partita con lui....

– A questo punto è già reietto?

– Egli non se ne accorge....

“Marito infame!” si ripetea il principe: erano le stesse parole ch’avea trovato nella lettera.

Si ricordava poi esser vero ch’avea qualche volta richiesto i suoi amici di giuocare con lui, ed essi, con ben addotti pretesti, se n’erano schivati.

– Sicchè, l’ambasciata?… – disse il d’Antella.

– Un pretesto per tenerlo lontano dalla moglie.... Ora che il Re ne ha abbastanza, egli è tornato.... forse per riconciliarli.... forse per impetrar non gli sia tolto, anzi aumentato il favore di cui ha goduto sin ad oggi.... offrirà magari di portar via con sè la moglie.... affinchè non ecciti imbarazzi, scandali.... Chi sa.... il Re non l’abbia richiamato a tale scopo!

– Povero Gorreso.... non è mai stato uno stinco di santo, ma non mi pareva dovesse diventare uno scellerato.... Lo deve aver condotto a questo punto la soverchia ambizione....

– È proprio un uomo infamato! – continuava con la sua più ostentata prosopopea il Latania; egli, che non avrebbe davvero avuto alcun diritto di censurare.

Sopravvenne un nuovo personaggio: il conte di Primolo.

– Avete un gran colloquio? – disse a’ due suoi amici, – già ov’è Latania è facile indovinare l’argomento della conversazione: sempre a carico di qualcuno.

Il conte, uomo savio, attempato, di reputazione illibata, godeva molte simpatie.

– Si discorreva, – rispose il Latania, – del Gorreso....

– Un vero sciagurato, – interruppe il conte.... – Gorreso, mio amico, quasi mio fratello, chi avrebbe detto, anni or sono, potesse scender sì basso.... Mi rammento che si mormorava di lui fin da quando contrasse il matrimonio.... Quella ragazza, già da allora, dopo l’assassimo del conte di Squirace, dopo le sue ardite deposizioni, sembrava a molti una assai strana creatura....

– Ma è il Gorreso che l’ha rovinata, che l’ha peggiorata: è lui che se n’è servito come uno strumento per favorire la sua ambizione, – replicò il Latania.

– E anch’io comincio a esserne persuaso, – instava il duca della Pandura.

Il principe Gorreso avea ormai udito abbastanza.

Nacque nella sua testa una vera confusione; a poco a poco, tanta era la commozione da lui provata, rimase privo de’ sensi.

Gli ci volle molto tempo a riaversi: non chiamò nessuno a soccorrerlo: non potè quindi prender nulla che lo ristorasse: e non si alzò dalla poltrona fin verso sera.

Si sentiva febbricitante; scese le scale vacillando: salì in una carrozzella e si fece condurre fino a casa.

Per le scale incontrò la principessa, di cui aveva veduto dinanzi alla porta il coupé.

La principessa scendeva in fretta, ed era tutta sorridente.

– Vado a pranzo – gli disse – dalla duchessa della Pandura.

Costei era la cognata del duca, che avea confabulato, poche ore innanzi, nella sala del Circolo, col Latania.

La duchessa era una donna gaia, spensierata, elegantissima, ma di quelle donne che ricorrevano spesso al gioielliere De Carlo.

Nella sua casa si avviluppavano molti intrighi.

Il principe non disse verbo ad Enrica, poichè il suo male lo accasciava: solo rispose al suo saluto con un amaro sorriso.

Ma Enrica era stordita: sapea i piaceri che l’attendevano: era sicura di parecchie ore di svago, di eccitazione, di trionfo in mezzo a facili e simpatici cortigiani: non gli badò.

In casa della duchessa, Enrica incontrò quella sera anche il Weill-Myot.

Il banchiere americano, da qualche tempo, la guardava con aria di compassione. Ella ne soffriva, un tale sprezzo la umiliava.

Era il solo uomo che si sottraesse al dominio di lei, che le si mostrasse sì freddo, sì altero, dopo averla desiderata.

La provocava in ogni modo, voleva ridurla a un atto disperato: voleva gioire della sua spietata, atroce vendetta.

Giorni innanzi, egli avea recato un altro colpo tremendo alle condizioni finanziarie della principessa.

Le speculazioni in cui l’aveva allettata per mezzo del suo giovane commesso, andate a male, essa dovea pagare di nuovo grosse somme e vi s’era regolarmente obbligata. Tutta la tenuta di Mondrone ormai non le apparteneva più.

Il principe trovò sul tavolino della sua camera varie lettere.

Una era scritta con lo stesso carattere della lettera anonima, in cui gli erano state palesate tante crude verità.

Ormai egli sapeva che la persona la quale gli scrivea tali lettere potea peccare di crudeltà, ma era sincera e bene informata.

Aprì la busta ansioso; e mentre il sudor freddo rendea madide le sue tempie.

Che gli diceva tal lettera?

Gli diceva che sua moglie era arrivata all’estremo della dissipazione: avea rovinato il suo patrimonio: e ridurrebbe ora lui alla miseria.... E da molti si credeva che egli divorasse il patrimonio di lei....

– Mi mancava anche questa, – pensò il principe. – Che ella si sia ridotta alla miseria? Ma come?… Non sarà....

Volle andare innanzi, sebbene quella lettera gli sembrasse oramai scritta in caratteri di fuoco e quasi gli bruciasse gli occhi. E lesse, tornò a leggere, poichè non gli parea vero, tali parole:

“Vostra moglie non ha neppure più gioielli.... Ha barattato i suoi veri brillanti con brillanti falsi: ha perfino venduto i brillanti antichi, già appartenenti a vostra madre!”

– Miserabile! ma sarà egli vero? – riprese il principe.

E corse alla camera di Enrica.

Rovistò fra i suoi gioielli.... Gli parve vi fossero tutti. Erano falsi? Questo egli non sapeva, nè potea giudicare.

Prese i due gioielli, tra gli antichi, ch’aveano appartenuto a sua madre, e li portò nella sua camera.

Il principe ebbe un’idea.

La mattina si era incontrato nel celebre israelita russo, Samuele Goldschmidt, negoziante di brillanti, e ch’egli avea conosciuto a Pietroburgo. Il Goldschmidt apparteneva a una di quelle antiche famiglie israelite tedesche, dimoranti in Russia da secoli: e che serbano forse più intatte le grandi tradizioni de’ loro padri.

Samuele viveva come un principe: avea un palazzo a Vienna, uno a Pietroburgo: avea comprato a Posilipo una graziosissima villa. Aveva una bella moglie, due figliuole bellissime. E toccava appena i quarantacinque anni.

Il principe gli avea reso a Pietroburgo un segnalato servizio: e Samuele gli era molto devoto.

Pensò di scrivergli subito: la principessa non sarebbe tornata se non molto innanzi nella notte: egli, in quello stato, non potea muoversi: Samuele sarebbe certo venuto da lui.

Dopo due ore, in fatti, Samuele arrivava dinanzi alla porta del palazzo: scendeva dal suo coupé e domandava del principe.

– Desidero da voi un piccolo favore, – gli disse subito il principe, scambiati con lui i primi convenevoli. – Si tratta di un affare un po’ delicato.... Voglio mostrarvi alcuni miei gioielli, e voi mi direte.... schiettamente.... – il principe proferì con peculiare accento questa parola, – ciò che ne pensate....

 

– A’ vostri ordini, – riprese Samuele, – sono felice di poter far cosa grata a V. E.?

– Ecco i gioielli....

E il principe tolse da un cassetto, ove li avea riposti, varii astucci.

Il negoziante russo guardò i diamanti e impallidì.... Prese una lente, che portava sempre con sè, raccostò all’occhio destro, e guardò di nuovo. Poi riposò sul tavolino i gioielli e la lente. Ma non parlava.

– E dunque? – chiese il principe.

– V. E. tien molto a questi gioielli? – domandò Samuele.

– Moltissimo.... alcuni di questi diamanti sono antichi e appartennero a mia madre....

L’altro ammutolì di nuovo.

– Parlate.... parlate.... Samuele!… – incalzava il principe.

– Debbo dir cosa molto spiacevole.

– Non importa!…

– V. E. ha un ladro fra le sue pareti domestiche....

– Perchè?

– Questi gioielli non sono antichi, sono modernissimi.... e sono stati legati di recente.... Inoltre.... sono falsi....

– Tutti? – domandò il principe.

– Tutti.

– Ah!… – esclamò il principe, e con mano tremante raccolse tutti que’ gioielli.

– Sapete che cosa è accaduto?… Qualcuno.... un frodatore di certo.... ha fatto togliere i veri diamanti e vi ha fatto porre i falsi.... Denunziate questo furto alla giustizia....

– Non posso....

– Facilmente si potrebbero trovare i diamanti tolti da certi gioielli: abbiamo già la loro misura....

– Oh, non voglio scandali.... Tanto peggio per me… dovevo essere più vigilante! – continuò il principe. – Mia moglie mette di rado questi gioielli.... e io non le dirò nulla....

– Oh, nè essa potrà accorgersene.... Questi diamanti falsi sono de’ più belli: non li può conoscere se non uno intendentissimo.

Il principe, non volendo licenziare subito Samuele, lo intrattenne sul suo commercio, che in quegli anni avea avuto singolar prosperità.

– Da molto tempo, – diceva Samuele, – non si sono fatti affari come in questi anni.... Tre matrimoni di principi: e in tutti e tre i matrimoni la fidanzata ha ricevuto regali da ogni sovrano.... Ho venduto poi alla nostra Imperatrice una collana, composta di diamanti, cercati a uno a uno, in viaggi che hanno durato tre anni.... Credo non vi sia oggi più bel gioiello.... in Europa.... Da alcuni anni ho venduto milioni di diamanti a famiglie reali.... Oggi sono anch’io un po’ milionario.... È una malattia non comune.... e a cui ci si abitua! Tra i pesi che bisogna subir nella vita, quello di qualche milione finisce per sembrare il più leggero.... Posso servire in altro V. E.?

E si accomiatò dal principe, dicendogli come s’accorgeva ch’egli era un po’ sofferente, e non volea più a lungo tenerlo a disagio.

Il principe soffriva atrocemente: gli occorreva tutta la sua abitudine ad esser cortese, a dissimulare, per vincere lo sdegno, il disgusto, la commozione cui era in preda.

Riportò i gioielli nella camera della moglie: li rimise ove li aveva trovati.

– Sciagurata! – mormorava, – essa ha distrutto i più preziosi ricordi della mia famiglia: ha profanato i gioielli che aveano appartenuto alle mie ave, a mia madre; chi sa in quali mani sono caduti.... Forse i gioielli che mia madre avea al collo, agli orecchi, quando io la carezzava bambino, sono ora nelle mani di una cortigiana!

La principessa, in quel tempo, si svagava, si lasciava dir le più dolci parole in casa della duchessa della Pandura.

A un tratto una signora, arrivata da poco, mentre era incominciata una conversazione generale, interruppe tutti, dicendo a voce alta:

– Non sapete il caso successo oggi a Diana.... alla figliuola del marchese di Trapani?

A quel nome la principessa si fece accigliata.

– Che è stato? che è stato? – domandarono la duchessa e altre signore.

– Diana.... con la signora Teodora erano in carrozza oggi su la strada di Chiaia.... Faceano quella passeggiata da alcuni giorni.... Uno dei cavalli attaccati alla carrozza, ha preso la mano al cocchiere, ch’è stato gettato a terra.... e si è subito rialzato; benchè ferito correva a cercar di fermare i cavalli, ma questi si davano a fuga sempre più precipitosa.... Diana.... la signora Teodora, in ispecie, figuratevi.... gridavano come ossesse.... Non osavano buttarsi giù dalla carrozza in quella corsa vertiginosa.... Varii cittadini s’eran provati a fermar la carrozza, ma indarno. A un tratto non si sa di dove, esce fuori un uomo di alta statura, di forme erculee, di fisonomia molto severa: si pianta dinanzi a’ cavalli: e, mentre tutti gli urlano: – Vi ucciderete! – li afferra per le due cavezze.... La gente, affollata qua e là, si aspettava una catastrofe, i cavalli si fermano.... L’uomo avea le mani insanguinate.... un filo di sangue gli traversava il volto.... Ma egli si slancia a aprir lo sportello della carrozza: prende in collo Diana, la mette in salvo, si china su di lei e le mormora queste parole: cara figliuola! Diana era come tramortita. A tali parole schiude gli occhi, muove le labbra? da cui esce questo fievole suono: Babbo!

Intanto, altri levavano di carrozza la signora Teodora, che sveniva nelle braccia di tre o quattro.... giovinotti. Tutti hanno applaudito il salvatore; egli avea compiuto un atto eroico; e si vede che l’avea compiuto per impulso d’un grandissimo affetto.

– E come si chiamava questo eroe? – domandò uno degli astanti.

– L’ingegnere Amoretti! – riprese la signora. – Un bellissimo uomo.... sebbene si veda sul suo volto che deve aver molto sofferto.... Io sono arrivata in quel momento nella mia carrozza.... Tornavo dalla mia villa....

Enrica non prese parte alla conversazione: non ebbe neppure il desiderio di domandar notizie di Diana.

Questa era stata accompagnata sino al palazzo del marchese dall’ingegnere Amoretti, che non era altri se non Roberto Jannacone, da tutti creduto morto, come sa il lettore.

L’ingegnere era salito poi sino al primo piano, sostenendo Diana nelle sue braccia. La ragazza dava appena segno di vita: essa era caduta in un abbattimento profondo, cagionatole dallo spavento.

La signora Teodora si era presto riavuta. Volgendosi all’Amoretti, gli disse:

– Ma, signore, voi siete sempre tutto insanguinato!

Egli non rispose: volle adagiar Diana sul letto. Il cuore gli batteva a guardar la camera di lei, a osservare dove ella vivea e tanti oggetti che gli rivelavano molti particolari della esistenza d’un essere a lui sì caro.

Il marchese era fuori di casa.

L’Amoretti si trattenne, pregato anche dalla signora Teodora.

Parlò molto con lei: le facea di continuo domande relative a Diana, con molta circospezione, per non scuoprirsi.

Alla fine salì Marco Alboni.

Subito l’Amoretti lo riconobbe alla voce: egli era Jacopo Scovazzo: l’uomo che avea udito confabulare, tra le rovine, la sera in cui Diana era stata rapita.

– Mi trovo proprio tra i miei amici, – pensava il finto Amoretti – tra coloro che mi hanno rubata la mia figliuola....

E tutto gli consigliava a tacere; dovea padroneggiarsi, aspettar momenti più opportuni. Riconosciuto, tradito, non sarebbe stato chiuso di nuovo nel carcere?

Si alzò per partire, sebbene lì lasciasse il suo cuore.

Diana in quel punto si mosse: stese una mano come se cercasse qualche cosa: poi sollevò adagio adagio il capo. Guardò intorno a sè e vide subito l’Amoretti.

– Ve ne andate, signore? – mormorò. – Mi fa tanto bene il vedervi.... Non potete restare?

– Tu vedi, Diana.... il signore è sempre tutto insanguinato e ha bisogno....

L’Amoretti fece segno alla signora Teodora che tacesse.

– Debbo, signorina, recarmi a casa mia....

– Ma.... promettetemi di ritornare....

– Ve lo prometto, signorina.... se il marchese vorrà concedere....

– Concederà, concederà; – ella rispose in fretta con voce languida, e facendo uno sforzo sopra di sè. – Mi promettete di tornare stasera?…

– Promettete.... promettete.... – gli bisbigliò la signora Teodora.

Roberto non avrebbe mai voluto staccarsi da quel letto: ma temeva di darsi a conoscere: l’idea che sua figlia lo desiderava, che, fra due o tre ore, avrebbe avuto un pretesto per rivederla, esaltava il suo animo, ricompensava i suoi lunghi martirii.

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