Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3

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Diverse persone nella sala iniziarono a mormorare.

“Ordine,” disse il generale, senza alzare la voce. “Ordine, per favore.”

“Okay,” commentò Dixon. “Mi arrendo. In cosa consiste la sua natura sensibile?”

L’altro lanciò uno sguardo a un uomo con gli occhiali seduto a metà del tavolo rispetto al presidente. Sembrava più vicino ai quaranta che ai trenta, ma qualche chilo di troppo gli dava quasi un aspetto da cherubino. Il suo viso era serio. Per forza, era in riunione con il presidente degli Stati Uniti.

“Signor presidente, sono il dottor Fagen del Dipartimento degli Interni.”

“Va bene, dottor Fagen,” lo spronò Dixon. “Ci dica tutto.”

“Signor presidente, la piattaforma Frobisher, anche se di proprietà della Innovate Natural Resources, è joint venture tra le Innovate, la ExxonMobil, la ConocoPhillips e l’Ufficio degli Stati Uniti per la Gestione del Territorio. Gli abbiamo concesso l’autorizzazione per eseguire il procedimento noto come perforazione orizzontale.”

Sullo schermo, l’immagine cambiò. Ora mostrava un disegno animato di una piattaforma petrolifera. Sotto lo sguardo del presidente, una trivella calò giù dalla piattaforma, sotto la superficie dell’oceano, verso il fondale marino. Una volta arrivata sotto terra, la trivella cambiò direzione, girando di novanta gradi e iniziando a muoversi orizzontalmente nello strato roccioso. Dopo poco raggiunse una macchia nera sotto terra e il petrolio nella zona iniziò a fluire di traverso oltre la punta della trivella fino al condotto alle sue spalle.

“Invece di perforare in verticale, che è il metodo più utilizzato nel ventesimo secolo, stiamo imparando a padroneggiare la scienza della perforazione orizzontale. Ciò significa che una piattaforma petrolifera potrebbe essere a distanza di chilometri da un giacimento, magari uno che si trovi in un’area sensibile dal punto di vista ambientale…”

Dixon alzò una mano. Era un gesto che pretendeva il silenzio.

Il dottore capì che cosa significa senza dover chiedere. Subito, smise di parlare.

“Dottor Fagen, mi sta dicendo che la Martin Frobisher, che si trova a dieci chilometri al largo dell’Artic National Wildlife Refuge, in realtà sta perforando all’interno della riserva naturale?”

Fagen tenne lo sguardo basso sul tavolo da conferenza. Bastava il suo linguaggio del corpo per dire a Clement Dixon tutto ciò che doveva sapere.

“Signore, con le moderne tecnologie, le piattaforme petrolifere possono sfruttare importanti giacimenti sotterranei senza compromettere la fauna e la flora locale. So che lei ha espresso la sua preoccupazione proprio a questo riguardo…”

Dixon roteò gli occhi e alzò in alto le braccia.

“Ma che diavolo!”

Guardò il generale.

“Signore,” iniziò Stark. “La decisione di concedere quell’autorizzazione è stata presa due governi fa. Si tratta solo di perfezionare la tecnologia. Certo, è una questione controversa. E sicuro, anche se io e lei non concordiamo sul suo sfruttamento, credo sia un problema da affrontare in un altro momento. Ora come ora è in corso un’operazione terroristica, è già morto un numero imprecisato di civili americani e sono in pericolo altre vite. La rapidità è essenziale. E per quanto possibile, penso che sia necessario tenere l’incidente e la natura dell’impianto lontani dai riflettori. Almeno per ora. In seguito, dopo aver salvato la nostra gente e quando si saranno calmate le acque, avremo tutto il tempo per discuterne.”

Stark aveva ragione e Dixon lo detestò per quello. Odiava quei…

… compromessi.

“Che cosa suggerisce?”

Il generale fece un cenno con il capo. Sullo schermo, l’immagine cambiò per mostrare il disegno di quello che sembrava un gruppo di sub che nuotava verso l’isola.

“Consigliamo caldamente di mandare un gruppo di agenti speciali molto qualificati, Navy SEALs, perché si infiltri nell’impianto, scopra ogni dettaglio sui terroristi, faccia fuori chi ne è al comando e, se possibile, si riprenda la piattaforma con la minor perdita di vite civili permessa dalle circostanze.”

“In quanti soldati e tra quanto tempo?”

Stark annuì di nuovo. “Sedici, forse venti. Questa notte, entro le prossime ore, prima dell’alba.”

“I suoi agenti sono pronti?”

“Sissignore.”

Dixon scosse la testa. La presidenza era un terreno scivoloso. Lui non lo aveva mai capito, nonostante i suoi anni di esperienza. Tutti i suoi discorsi infuocati, la sua furia sul podio, i suoi sforzi per creare un mondo più giusto e più pulito… per cosa? Era costretto a calare la braghe ancora prima di iniziare.

Era proibito trivellare nell’Arctic National Wildlife Refuge. Non ci si poteva accedere dalla superficie. Quindi quella gente si era parcheggiata in mare aperto ed era passata da sotto. Ma certo. Erano termiti, mordevano e masticavano senza tregua, trasformando la costruzione più solida in un castello di carte.

E ora gli uomini al lavoro su quella trivella venivano attaccati e presi in ostaggio. E come presidente, lui cosa avrebbe dovuto dire: “Affari loro?”

Assolutamente no. Erano americani, e anche se era difficile da accettare, erano persone innocenti. Facciamo solo il nostro lavoro, signore.

Dixon guardò Thomas Hayes. Tra tutti i presenti nella sala, Hayes era l’unico che lo capiva. Probabilmente si sentiva in trappola, tradito, frustrato e sbalordito, proprio come lui.

“Thomas?” gli domandò. “Lei a cosa sta pensando?”

Hayes non esitò. “Capisco che sia una discussione da affrontare in un altro momento, ma mi sconvolge sapere che stiamo trivellando in un ambiente naturale che dovrebbe essere custodito e protetto. Sono sconvolto ma non sorpreso, e questa è la parte peggiore.”

Fece una pausa. “Dopo che avremo salvato quegli uomini, e come ha detto il generale si saranno calmate le acque, credo che dovremo rivedere la moratoria sulla trivellazione, e chiarire che il divieto di perforare è valido in assoluto, sia da sopra che da sotto il mare.

“Inoltre, se è necessario intraprendere un’operazione militare, dobbiamo accertarci che sia sotto il controllo civile all’inizio alla fine. Senza offesa, generale, ma voi del Pentagono avete l’abitudine di usare i cannoni per liberarvi dei moscerini. Abbiamo saputo tutti di troppi matrimoni nel Medio Oriente che sono stati annientati dai droni.”

Sembrò che il generale fosse sul punto di dire qualcosa in risposta, ma poi si trattenne.

“Può farlo, generale Stark?” chiese Dixon. “A prescindere dalle risorse militari coinvolte, può garantire il controllo e la partecipazione di un’agenzia civile durante l’intera operazione?”

Stark annuì. “Sì, signore. E conosco l’agenzia civile perfetta per questo compito.”

“Allora proceda,” ordinò il presidente. “E se può, salvi gli uomini sulla piattaforma.”

CAPITOLO TRE

10:01 p.m. Ora legale orientale

Ivy City

Zona nord-est di Washington, DC

Un uomo robusto sedeva su una sedie pieghevole di metallo, in un angolo silenzioso del magazzino vuoto. Scosse la testa con un gemito.

“Non farlo,” supplicò. “Ti prego, non devi farlo.”

Era bendato ma nonostante lo straccio che gli nascondeva parzialmente il viso, si vedeva che era coperto di lividi e ferite. Aveva la bocca gonfia. Il suo volto era lucido e sporco di sangue, e sulla schiena la sua maglietta bianca era macchiata di sudore. C’era una macchia scura sul cavallo dei suoi pantaloni, dove se l’era fatta addosso appena qualche istante prima.

Un fitto intreccio di tatuaggi si alzava dai polsi fino alle maniche della sua maglia. Sembrava un uomo robusto, ma aveva le mani legate dietro la schiena e le sue braccia erano bloccate alla sedia con pesanti catene.

Era a piedi nudi e anche alle sue caviglie aveva dei ceppi metallici. Era legato tanto stretto che se anche fosse riuscito ad alzarsi, invece di camminare avrebbe dovuto avanzare a saltelli.

“Che cosa non devo fare?” domandò Kevin Murphy.

Murphy era alto, snello e muscoloso. I suoi occhi erano duri e aveva una piccola cicatrice sul mento. Indossava un’elegante camicia azzurra, pantaloni scuri e lucide scarpe di cuoio italiano. Si era arrotolato le maniche sugli avambracci. Non c’era niente di sgualcito, sudato o insanguinato nel suo aspetto. Non sembrava aver fatto il benché minimo sforzo fisico. In effetti, dava l’impressione di un uomo invitato a cena in un ristorante costoso. L’unico dettaglio che stonava erano i guanti di pelle nera che portava sulle mani.

Per qualche istante, Murphy e l’uomo sulla sedia parvero statue, menhir in un sito funerario primordiale. Le loro ombre si stagliavano in diagonale nella cupa penombra giallastra di quel piccolo angolo del grande magazzino.

Murphy si allontanò di qualche passo sul pavimento di pietra. Il rumore riecheggiò nello spazio cavernoso.

Stava provando una strana combinazione di emozioni. Da una parte, si sentiva rilassato e calmo. Aveva appena iniziato con l’interrogatorio e aveva tutto il tempo del mondo. Nessuno sarebbe entrato in quel posto.

Fuori dalla cancellata di quel magazzino c’era una baraccopoli. Era un deserto di cemento, in cui squallidi negozietti, rivendite di alcolici, agenzie di cambio e banchi di pegno erano ammassati insieme. Gruppetti di donne che stringevano buste di plastica aspettavano alle fermate degli autobus durante il giorno, mentre di notte uomini sbronzi bevevano birra e vino economico agli angoli delle strade.

In quel momento, riusciva a sentire i rumori del quartiere: le auto di passaggio, la musica, le grida e le risate. Ma si stava facendo tardi e presto sarebbe calato il silenzio. Persino in quella zona la gente andava a dormire a una certa ora.

 

Quindi sì, nell’immediato futuro, aveva tempo. Ma in senso più ampio, il tempo non era suo amico. Era un ex agente della Delta Force e dipendente in prova del Gruppo d’Intervento Speciale dell’FBI. Si stava distinguendo sul lavoro e durante il suo primo incarico aveva persino preso parte in maniera apparentemente brillante a una feroce sparatoria a Montreal.

Quello che nessuno capiva era quanto fosse stato davvero bravo. Aveva fatto un abile doppio gioco, e prima dello scontro aveva convinto l’ex agente della CIA Wallace Speck, il cosiddetto ‘Signore Oscuro’ in persona, a mandargli due milioni e mezzo su un conto anonimo a Grand Cayman.

Ora Speck era in una prigione federale, condannato alla pena di morte. E ciò gettava un’ombra sulla vita di Ken Murphy. E se l’ex agente avesse svelato tutti i suoi segreti ai suoi carcerieri? In quel caso, che cosa gli avrebbe detto?

Speck aveva saputo chi era Kevin Murphy?

“Non uccidermi,” lo pregò l’uomo sulla sedia.

Lui sorrise. Vicino alla sua vittima c’era un’altra sedia. Sopra vi era stesa la sua giacca sportiva, e sotto l’indumento c’era la sua fondina con una pistola. Nella tasca dei pantaloni aveva un grosso silenziatore che si adattava alla canna dell’arma come un guanto.

Fatti l’uno per l’altra. Come diceva quella vecchia pubblicità? Perfetti insieme.

“Ucciderti? Perché dovrei farlo?”

Quello agitò la testa iniziando a piangere. Il suo torace muscoloso si sollevò per i singhiozzi. “Perché è per questo che ti hanno mandato.”

Murphy annuì. Era vero.

Fissò l’uomo. Bastardo piagnucoloso. Detestava quelli come lui. Verme. Era un assassino a sangue freddo. Un bullo. Si credeva un vero duro, con le parole BANG e POW! tatuate sulle nocche.

Era il tipo d’uomo che ammazzava persone innocenti e innocue, in parte perché era quello che era pagato per fare, ma anche perché era facile e gli piaceva farlo. E poi, non appena si ritrovava davanti qualcuno come Murphy, andava in pezzi e iniziava a supplicare. Anche lui aveva ucciso molta gente, ma per quanto ne sapeva non aveva mai fatto fuori un innocente né un civile. Era specializzato nell’omicidio di uomo duri a morire.

Ma quello?

Sospirò. Se lo avesse voluto, avrebbe potuto farlo strisciare a terra come un verme.

Scosse la testa. Non gli interessava. Aveva solo bisogno di un’informazione.

“Qualche settimana fa, proprio quando il nostro caro presidente ormai deceduto è sparito, hai ucciso una giovane donna di nome Nisa Kuar Brar. Non negarlo. Hai anche fatto fuori i suoi due figli, una bimba di quattro anni e un neonato. La bambina indossava un pigiama di Barney il dinosauro. Sì, ho visto le foto della scena del crimine. Le persone che hai ucciso erano la moglie e i figli di un tassista, tale Jahjeet Singh Brar. L’intera famiglia era di religione Sikh, e veniva dal Punjab, in India. Sei riuscito a entrare nel loro appartamento a Columbia Heights dichiarandoti un poliziotto di nome Michael Dell. Che buffo nome. Michael Dell. Lo trovi divertente?”

L’uomo scosse la testa. “No. Assolutamente no. Non c’è niente di vero. Chiunque te l’abbia detto è un bugiardo. Ti hanno mentito.”

Il sorriso di Murphy si allargò. Fece spallucce, trattenendo una risata.

Ma che tipo…

“Me l’ha detto il tuo complice. Il suo nome d’arte era Roger Stevens, ma in realtà si chiamava Delroy Rose.” Si fermò e ispirò a fondo. A volte si ritrovava un po’ troppo su di giri in situazioni come quella. Era importante che rimanesse calmo. Doveva solo ottenere la sua informazione, nient’altro.

“Ti fa scattare un campanello?”

Il tizio incurvò le spalle, singhiozzando piano, tremando per tutto il corpo.

“No. Non so chi…”

“Chiudi il becco e ascoltami,” lo interruppe lui. “Okay?”

Non lo toccò né gli si avvicinò, ma l’uomo annuì e non disse un’altra parola.

“Ora… ho già parlato con Delroy. È stato utile, ma solo fino a un certo punto. Ci sono andato già pesante, quindi sono disposto a credere che mi abbia detto tutto ciò che sapeva. Voglio dire, chi sopporterebbe tutta quella sofferenza solo per… che cosa? Proteggere te? Proteggere qualcun altro come te? No, penso che mi abbia confessato tutto. Ma non è stato abbastanza.”

“Ti prego,” lo supplicò l’uomo legato. “Ti dirò quello che so.”

“Sì, lo farai,” disse Murphy. “E spero senza tante stupidaggini.”

L’altro agitò il capo, con enfasi e convinzione. Per un momento sembrò un pupazzo meccanico, uno di quelli caricati a molla che scuotono la testa fino a quando la chiave sul retro non finisce di girare.

“No. Niente stupidaggini.”

“Bene,” replicò lui. Gli si avvicinò e gli sollevò la benda insanguinata dal volto. L’uomo strabuzzò gli occhi e li roteò nelle orbite, per poi fissarli su Murphy.

“Riesci a vedermi, vero?”

Il tizio legato annuì, dimostrandosi collaborativo. “Sì.”

“Sai chi sono?” gli domandò. “Sì o no. Non mentirmi.”

Quello annuì di nuovo. “Sì.”

“Che cosa sai di me?”

“Sei un agente speciale di qualche tipo. CIA, SEAL, operazioni segrete. Non so di preciso.”

“Conosci il mio nome?”

L’uomo lo fissò dritto in faccia. “No.”

Murphy non era certo di credergli. Gli fece una domanda facile per metterlo alla prova.

“Hai ucciso Nisa Kuar Brar e i suoi due figli? Ormai non ha senso raccontarmi balle. Mi hai visto. Stiamo giocando a carte scoperte.”

“Ho fatto fuori la donna,” rispose l’uomo senza esitare. “Delroy ha ucciso i bambini. Io non ho avuto niente a che fare con loro.”

“Che cosa hai fatto alla donna?

“L’ho portata in camera da letto e l’ho strangolata con un cavo del computer. Ethernet Cat 5. È robusto, ma non tagliente. Fa quello che deve senza tanto sangue.”

Murphy annuì. Era esattamente quello che era successo. Solo chi era stato presente sulla scena del crimine poteva saperlo. Era lui l’assassino. Aveva trovato il suo uomo.

“E Wallace Speck?”

L’altro scrollò le spalle. “E lui che c’entra?”

Fu il turno di Murphy di irrigidirsi.

“Cosa credi che stiamo facendo qui, idiota?” sbottò. La sua voce riecheggiò nell’oscurità. “Pensi che sia qui con te, in questa scatola da scarpe di cemento nel bel mezzo della notte, perché mi fa bene alla salute? Non ti trovo divertente. È stato Speck a pagarti per ammazzare la donna?”

“Sì.”

“E cosa sa Speck di me?”

L’uomo scosse la testa. “Non lo so.”

Il pugno di Murphy scattò in avanti per abbattersi sulla faccia della sua vittima. Sentì l’osso del naso andare in pezzi. La testa dell’uomo rimbalzò all’indietro. Due secondi più tardi, il sangue gli schizzò fuori da una narice, cadendogli sul viso fino al mento.

Lui fece un passo indietro. Non voleva sporcarsi le scarpe.

“Riprovaci.”

“Speck ha detto che c’era uno delle operazioni speciali. Aveva delle informazioni riservate sull’ubicazione del capo dello staff del presidente. Lawrence Keller. Questo tizio sarebbe andato a Montreal, faceva parte della squadra che doveva recuperare Keller. Forse era l’autista, e voleva del denaro. E poi…”

L’uomo agitò la testa.

“Credi che sia io questo tizio?” domandò Murphy.

Quello annuì, in preda alla più bieca disperazione.

“Perché lo pensi?”

L’altro borbottò qualcosa a bassa voce.

“Cosa? Non ti ho sentito.”

“Ero lì,” ripeté.

“A Montreal?”

“Sì.”

Murphy sorrise scuotendo il capo. Gli sfuggì persino una breve risata.

“Oh, amico mio.”

L’uomo fece un segno d’assenso.

“E che cosa hai fatto, te la sei data a gambe quando la situazione si è scaldata?”

“Ho capito subito come sarebbe finita.”

“E mi hai visto.”

Non era una domanda, ma l’altro rispose ugualmente.

“Sì.”

“Hai detto a Speck che aspetto ho?”

Quello fece spallucce. Fissava il pavimento in cemento.

“Parla!” ordinò Murphy. “Non ho tutta la notte.”

“Non gli ho mai più parlato dopo quella sera. È finito in prigione prima del sorgere del sole.”

“Guardami,” gli intimò lui.

L’uomo alzò gli occhi.

“Dillo di nuovo, ma questa volta senza distogliere lo sguardo.”

L’altro lo fissò in viso. “Non ho parlato con Speck. Non so dove lo abbiano rinchiuso né se stia confessando o meno. Non ho idea se sappia chi sei, ma in quel caso mi sembra ovvio che ancora non ti abbia tradito.”

“Perché non sei scappato?” gli chiese allora lui.

Non era una domanda oziosa. Murphy si stava ponendo lo stesso interrogativo. Sarebbe potuto svanire. Subito, quella sera. O quella seguente. Comunque presto. Aveva due milioni e mezzo di dollari in contanti. Una cifra simile poteva bastare a lungo a un uomo come lui, e con le sue… particolari abilità… poteva rifornirsi quando voleva.

Ma così avrebbe passato il resto della vita guardandosi le spalle. E se fosse scappato, una delle persone che gli avrebbe dato la caccia era Luke Stone. Non era un pensiero rassicurante.

L’altro fece di nuovo spallucce. “Mi piace qui. Amo la mia vita. Ho un bimbo piccolo che vedo di tanto in tanto.”

Murphy non apprezzò il modo in cui il tizio stava infilando il figlio nella conversazione. Quell’assassino a sangue freddo, che aveva confessato l’assassinio di una giovane madre, e che era complice dell’omicidio di due bambini e chissà di chi altro, stava cercando di muoverlo a compassione.

Si avvicinò all’altra sedia ed estrasse la pistola dalla fondina. Avvitò il silenziatore sulla canna dell’arma. Era di buona qualità, non avrebbe fatto molto rumore. Era un suono che gli ricordava una pinzatrice da ufficio che perforasse una pila di fogli. Clack, clack, clack.

“Non hai motivo di uccidermi,” lo implorò l’uomo dietro di lui. “Non ho detto niente a nessuno, né ho intenzione di farlo.”

Murphy non si girò ancora. “Sai come si dice, che è meglio risolvere le questioni in sospeso? Voglio dire, fai anche tu questo lavoro, no? Speck forse sa chi sono, o magari no. Ma tu lo sai per certo.”

“Hai idea di quanti segreti io abbia?” insistette il tizio. “Se mai mi prendessero, credimi, saresti l’ultimo dei loro pensieri. Non so nemmeno chi sei, non conosco il tuo nome. Quella notte ho solo visto un uomo, forse con i capelli scuri, basso, sotto il metro e ottanta, avrebbe potuto essere chiunque.”

Finalmente lui si voltò per guardarlo. Il suo prigioniero sudava, aveva il volto lucido e bagnato, anche se lì dentro non faceva caldo.

Alzò la pistola e gliela puntò al centro della fronte. Nessuna esitazione. Nessun suono. Non disse una parola. Pareva una composizione scultorea, immersa in un cerchio di luce chiara.

L’uomo prese a parlare più in fretta. “Senti, non farlo,” disse. “Ho del denaro. Molto denaro. Sono l’unico che sa dove è.”

Murphy annuì. “Sì, anche io.”

Premette il grilletto e…

CLACK.

Fu un po’ più rumoroso del normale. Non aveva preso in considerazione l’eco nell’ampio spazio vuoto. Scrollò le spalle. Non aveva importanza.

Se ne andò senza degnare il disastro a terra di un secondo sguardo.

Dieci minuti più tardi era in auto, e stava sfrecciando sulla Beltway. Il suo cellulare squillò. Era un numero privato. Non significava niente. Potevano essere buone notizie, ma anche cattive. Rispose.

“Sì?”

Una voce femminile: “Murph?”

Sorrise. Riconobbe subito la donna dall’altro capo.

“Trudy Wellington,” esclamò. “Che bello ricevere una tua chiamata nel cuore della notte. Se mi dici da dove chiami, ti raggiungo subito.”

Lei trattenne una risata. Murphy glielo sentì nella voce. Era quello il modo giusto per entrare nel cuore, e nella camera da letto, delle donne.

“Ah… come no. Ti piacerebbe. Ti chiamo dagli uffici del GIS. C’è una crisi e hanno bisogno di noi. Don deve radunare un po’ di gente, il prima possibile. E vuole te.”