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Nella felicità egli volle dimostrarsi riconoscente a colei cui egli credeva di andar debitore della sua felicità. Dimenticò il modo con cui il consiglio gli era stato dato e con quella franchezza che gli era propria quando credeva di fare un atto doveroso disse a Francesca stringendole la mano:



– Grazie, grazie.



– Di che? – chiese Francesca con isdegno. Poi quando spaventato egli si ritirava ritenendo che Francesca fosse sdegnata perché con quel ringraziamento si vedeva accusata di una complicità che non voleva ammettere, violentemente ella scoppiò nelle parole:



– Se tubano come colombi, non ne ho mica io la colpa.



Ancora sempre e di nuovo ella era malcontenta di lui e sembrava ch’egli non avesse perfettamente inteso il suo consiglio. Egli se ne adirò perché per il momento non si sentiva disposto a tendere dei tranelli ad Annetta. Andava dicendosi che Francesca s’ingannava credendo che per compiacerla egli avrebbe osato delle novità quando si sentiva tanto bene come era. In cosa di tanta importanza voleva avere il suo parere proprio.



Il suo proprio parere? Più tardi non avrebbe osato di asserire che le cose fossero camminate a quel modo per suo volere.



Il fatto si è che, calcolata per commovere Annetta, la sua freddezza aveva apportato altrettanto danno a lui. I suoi sensi erano stati agitati dalle promesse mai mantenute ripetute ad ogni loro convegno. Prima nel tentativo di rubare una carezza o un bacio, la sua mente era stata conservata in una continua attività verso una meta e, questa meta raggiunta, i suoi sensi si erano calmati nella soddisfazione che, per quanto relativa, era però quella ch’essi avevano cercata. Ora invece gli mancava ogni attività e ogni soddisfazione ed egli nell’inerzia analizzava i propri desiderî mai soddisfatti né calmati e li rendeva più acuti. Ma anche per altre cause, naturalmente, erano divenuti più forti. Egli credeva ora che Annetta sentisse i suoi medesimi desiderî e quando pensava che acciocché questi due desiderî s’incontrassero bastasse il suo volere, il suo ardire, egli si sentiva rimescolare il sangue. L’idea della vicinanza di tanta felicità gli dava le vertigini. I suoi sogni prendevano sempre più l’aspetto della realtà. Conosceva o credeva di conoscere il suono di voce o lo sguardo con cui Annetta lo avrebbe amato. Una sera con gesto selvaggio volle attrarla a sé. Con un grido di spavento ella sfuggì all’abbraccio. Perché l’improvviso spavento? Ella sapeva prima di lui stesso ciò ch’egli voleva?



Quando era presente Francesca, Alfonso parlava molto e di cose che non aveva mai né amate né odiate. Comprendeva che Annetta seguiva il suono della sua voce e che con tutta vivacità, quella vivacità di cui Macario la credeva incapace, ella sentiva e viveva con lui. Questa sensazione ricordava, non le proprie parole, non la cosa di cui aveva parlato.



Eppure se anche agì in quell’esaltazione morbosa che per giornate intere lo faceva vivere in un sogno continuato, pure ebbe una freddezza di calcolo da persona che vuole sapendolo.



Aveva atteso con impazienza che Francesca si assentasse, ma non gli bastava che lasciasse la biblioteca, bisognava che uscisse dalla casa. Era l’unica persona che potesse disturbarlo e voleva assicurarsene. S’era domato per più di una sera e aveva osservato, roso dall’impazienza, ogni movimento di Francesca che usciva di spesso ma per rientrare subito. Era costei che aveva fatto tutto, così egli pensò dopo. Giacché egli non sapeva essere freddo come ella aveva consigliato, ella lo aveva obbligato a certi limiti con la sua continua presenza e il contegno che così gli aveva imposto era già bastato a condurlo dove ella aveva voluto.



Una sera capitò inaspettato. Avevano stabilito di non vedersi per quel giorno, ma dopo lunga lotta egli non aveva saputo rimanere lontano da quella casa. Le due donne avevano detto di voler uscire se il tempo fosse stato bello e da poche ore s’era offuscato; era quindi probabile che avevano dovuto rinunziare alla passeggiata.



Sulle scale incontrò Francesca che usciva sola. Ella lo salutò con maggior cortesia del solito e, guardandolo negli occhi con quel suo sguardo scrutatore quando si degnava di fermarsi sulle cose, gli disse ch’era sorpresa di vederlo e con aria di franchezza gli chiese se Annetta, quando la sera prima li aveva lasciati soli, gli avesse detto di venire. L’interrogazione inaspettata imbarazzò Alfonso e non seppe cavarsela meglio che fingendo di non rammentarsi che con Annetta fosse stato stabilito di non vedersi per quel giorno. Così egli aveva fatto credere che Annetta ad insaputa di Francesca gli avesse dato un appuntamento.



– Annetta l’attende in biblioteca, – disse Francesca più seccamente dacché aveva saputo quello che aveva ricercato, e continuò a scendere. – Fra mezz’ora sarò di ritorno, – disse ancora.



Salendo, ad Alfonso tremavano le gambe. Avrebbe avuto l’energia di fare in mezz’ora quello che s’era proposto? L’azione in sé l’agitava meno che il vederla costretta in sì breve tempo.



– Finalmente soli, una volta! – disse egli, e non appena entrato l’attirò a sé, ma senza violenza, come se avesse voluto salutarla, stringerle la mano.



Ella poggiò la testa sul suo petto e con rimprovero dolce per la posizione da cui lo faceva, ma con serietà, disse con voce troppo soda e tranquilla per essere naturale: – Eravamo pur soli recentemente.



– Mi scusi! – balbettò Alfonso. Egli non voleva commoversi di più e la baciava dolcemente sugli occhi, calcolando fin dove avrebbe potuto condurlo quell’abbandono di Annetta.



La biblioteca non era illuminata che dalla lampada a petrolio sul tavolo e la sua luce, chiusa dal paralume, si proiettava tutta all’ingiù, in una larga macchia sul tavolo verde e in un fascio di luce che sfuggiva verso il pavimento. Si amava bene nell’austerità di quella stanza, in mezzo agli armadi neri e semplici e quella serietà dei libri che mostravano le schiene larghe con le cifre d’oro. Era una contraddizione che aguzzava maggiormente il desiderio di Alfonso. Alcuni grossi volumi legati senz’eleganza, forse raccolte di giornali, schierati in un canto emanavano un forte odore di colla.



L’aveva lasciata e tenendola per mano l’aveva tratta fuori della luce. Vedendolo così tranquillo, ella non ebbe sospetti e sedette accanto a lui sull’ottomana. Così, uno accanto all’altra o anche abbracciati al medesimo posto, erano già stati altre volte. Egli provò dispiacere che per caso ella si fosse seduta ove lo schienale mancava. Ma anche là lo accompagnava la sua timidezza. L’abbracciò stretta piegandola per indietro. Voleva esaminare in qual modo ella avrebbe resistito e gli pareva di fare una timida ma chiara domanda; se Annetta non reagiva egli poteva riferirsi a quella domanda per scusarsi. Per vigliaccheria le chiese anche «Sì…?» ma a voce tanto debole che non poteva sapere se ella avesse udito. E non fu la parola che avvisò Annetta del pericolo che correva. Ella pregò e minacciò ma con voce dolce e si difese, ma le braccia puntellate mollemente sul suo petto non impedivano nulla. Egli però non s’era atteso a resistenze e per deboli che fossero lo irritarono. La costrinse bruscamente, frettoloso e brutale, e in apparenza almeno fu un tradimento, un furto.



Ritornando in sé percepì di nuovo l’odore intenso di colla che regnava in quella stanza ove gli sembrava di ritornare dopo una lunga assenza. Ella disse le prime parole: – Mio Dio, che cosa abbiamo fatto? – La sua era sorpresa e disperazione. Guardava gli oggetti intorno a sé come se avesse sperato ch’essi la richiamassero da quello che sperava un sogno. Il disordine nelle sue vesti, cui appena allora cercò di riparare, le diede la certezza ch’era perfettamente in sé. Si rialzò non senza dignità; chiamava in aiuto tutte le sue forze, ma non che un riparo non trovava neppure un contegno che le fosse piaciuto di seguire. Si padroneggiò e muta si asciugò le lagrime e si avvicinò al tavolo allontanandosi da lui.



Egli comprese ch’era suo dovere cercare di consolarla. Le si avvicinò e la baciò sulla fronte. Era un dovere e all’infuori di quell’atto altro egli non trovava. Che cosa doveva dire?



Ella lo lasciava fare, ma il dolore la vinse di nuovo, pianse ancora una volta e ripeté la sua frase disperata. Non gli disse una sola parola di rimprovero, e ciò provava che relativamente alle circostanze la sua freddezza era abbastanza grande. A lui nulla aveva da rimproverare perché egli aveva fatto quello a cui egli mirava da lungo tempo e ch’ella sapeva essere il suo scopo.



Alfonso ritrovò finalmente la parola. Le disse di amarla. Per quel bacio avrebbe dato la vita e non poteva quindi pentirsi della sua azione.



Pur lasciandosi abbracciare ella gridò:



– Sì, ma non ci vedremo più, mai più!



Fu allora che per un piccolissimo intervallo di tempo la sua lucida mente si offuscò. Non comprendeva che il passo fatto era irrevocabile e pareva credere potesse venir cancellato da quella sua risoluzione.



– Come vorrà! – gridò Alfonso ingenuamente.



Con quella fanciulla che piangeva si sentiva male e se non avesse temuto di spiacerle se ne sarebbe andato subito e magari promettendo di non ritornare mai più. Provava sorpresa al sentirsi così calmo e lontano dal desiderio che dieci minuti prima lo aveva condotto ad un’azione tanto arrischiata.



Venne Francesca e poté subito comprendere quello ch’era avvenuto perché Annetta non era ancora al caso di celarlo né degnava di provarvisi. Aveva gli occhi rossi dal pianto e guardava con ostinazione nel vuoto; si costringeva a riflessione intensa. Dal canto suo, Francesca non chiese nulla e non diede occasione a bugie. Alfonso imbarazzato volle andarsene. Francesca lo salutò con una stretta di mano e un inchino amichevole e anche rispettoso. «Onore al merito!» sembrava gli dicesse.



Sul pianerottolo egli fu trattenuto da Annetta che con improvvisa risoluzione gli era corsa dietro.

 



– Qui, qui, – ella gli disse duramente, – ho da parlarle.



Certo il suono della sua voce non rivelava che ella con quelle parole lo invitava a una notte d’amore ed egli comprese che fino ad allora ella non ne aveva avuto l’intenzione. Nella perfetta oscurità, immobile nel mezzo della stanza, non avendo neppure il coraggio di sedersi per la tema di far rumore, egli venne assalito dai più strani pensieri. Gli si preparava un bel divertimento, le scene di una ragazza pentita; si propose di sopportare tutto con rassegnazione. Sapeva di meritate tutti i rimproveri che Annetta avesse potuto fargli.



Invece ella venne a lui e i suoi occhi non portavano più alcuna traccia delle lagrime sparse. S’era fermata alla porta con l’indice sulle labbra ascoltando se sul corridoio nulla si movesse, sorridente come un fanciullo che per gioco si nasconda a qualcuno, ed era bastato di vederla così per togliere ad Alfonso ogni timore. Aveva già compreso; un’altra volta in lei i sensi l’avevano vinta.



Fu per lui un’amante compiacente e appassionata. Gli chiese perdono delle parole brusche che poco prima aveva pronunziate.



– Senza dubbio le pensavo, ma riconosco di aver pensato scioccamente.



Senza che si potesse indovinare l’ordine delle sue idee, ella diede una definizione della sua vita. La vita era quella che le dava lui quando la baciava; il resto non valeva niente. Poi egli pensò che espressamente ella aveva voluto rinunziare a tutto il resto per il suo bacio. La baciò per dimostrarsi grato, ma pensava ch’ella lo disprezzava troppo, credendo che per essersi data a lui perdesse il diritto ad ogni altra felicità. Annetta ripeté la sua dichiarazione parecchie volte durante la notte mutandone la forma: – Sposare quel ragionatore ch’è mio cugino Macario perché è ricco!



Rise di questa pretesa che qualcuno pur doveva avere avuta.



Se c’era, la felicità di Alfonso veniva diminuita da un timore. Quella donna che in una sola ora aveva mutato di sentimenti e di opinioni era forse impazzita? Egli si sentiva ragionatore come al solito, calmo, trascinato dai sensi per brevi tratti e poi sazio, e non sapeva figurarsi che in altrui la commozione durasse sempre ugualmente intensa.



Una sola volta con rapidissimo passaggio ella ebbe un’espressione di tristezza anzi di disperazione come un’ora prima. Aveva nominato per caso una famiglia patrizia presso la quale i Maller erano stati ammessi da poco. Fu un solo istante, ed ella fece poi ogni sforzo per dimenticarlo e farlo dimenticare.



La cortina rosea della finestra era divenuta visibile per il primo raggio mattutino e, per quanto fosse ancora poca la luce che giungeva dal di fuori, faceva impallidire quella della candela che avevano lasciata accesa.



– Già! – esclamò Annetta stringendosi a lui.



Egli ripeté ipocritamente la stessa parola.



Dal piano superiore si udì il rumore del passo di un piede nudo.



– Poveretta! – mormorò Annetta, – le procurai dei grandi dispiaceri.



– È Francesca? – chiese Alfonso inquieto.



– Sì! – disse Annetta sorridendo, – ma tutto è riparabile ancora.



Lo abbracciò per fargli capire che l’opera buona ch’ella si proponeva di fare era dovuta a lui.



Egli aveva il tempo di essere curioso e Annetta gli raccontò che Francesca era stata l’amante di Maller e che costui aveva manifestato l’intenzione di sposarla. – Io risi in volto a Francesca e mi opposi come seppi… naturalmente… mi pareva un’offesa alla memoria di mia madre. – Il padre aveva trovato il modo di non iscambiare alcuna parola su questo proposito con la figliuola. Solo allorché Annetta aveva consigliato Francesca di lasciare la loro casa, Maller esplicitamente si oppose. I rapporti fra padre e figlia furono freddi per qualche tempo e non si migliorarono che quando Francesca giurò ad Annetta che fra lei e Maller non esisteva più alcun legame. Fino a quella notte Annetta ci aveva creduto. – Scommetto che m’ingannano, – pensò ad alta voce e molto tranquillamente. – Si capisce che per amore l’inganno non è inganno.



Alle quattro della mattina ella si alzò per accompagnarlo fino alla porta di casa.



Nell’atrio oscuro gli gettò ancora una volta le braccia al collo e gli disse che non si sarebbero riveduti finché non potevano farlo alla piena luce del sole. Ciò doveva avvenire al più presto. Si mise a ridere e con franca sensualità aggiunse:



– Avremo tanti giorni e tante notti da passare insieme.



Egli stette fuori a seguire gli sforzi ch’ella faceva per girare la chiave nella toppa; poi udì lo strisciare lento, impacciato delle pantofole sulle scale.



– Addio! – le gridò commosso.



– Addio, addio! – rispose Annetta a mezza voce.



Anche in quel saluto aveva messo quanto affetto le era stato possibile ed egli si figurò ch’ella gli avesse gettato dei baci con la mano.



Si diresse verso casa con passo frettoloso quando si sentì chiamare. Si volse. Una figura bianca, dalla finestra della stanza di Annetta, gli faceva segni di saluto con una pezzuola bianca. Egli salutò agitando alto il cappello. Il gesto era trovato, ma a lui mancava la sensazione corrispondente. Al vedere Annetta alla finestra s’era ricordato che così si usava in amore.



Poi volle sentirsi felice come la sua buona fortuna lo meritava e canticchiò un’arietta che non voleva riuscire allegra nelle vie vuote appena rischiarate da un sole invisibile nel cielo violaceo. Un malessere profondo lo fece tacere. Egli volle spiegarlo con i dubbî sull’avvenire della sua relazione con Annetta; da quella notte non ancora gli erano stati tolti. Ma Annetta era sua! Non era questo già molto, tanto che avrebbe dovuto sentirsi l’uomo più felice sulla terra? Egli aveva lungamente desiderato Annetta, l’aveva amata. Erano il sonno e la stanchezza che gli toglievano di godere della sua felicità e, salendo l’erta che conduceva alla casa dei Lanucci, egli andava persuadendosi che la dimane egli si sarebbe risvegliato all’amore e che avrebbe anelato di rivedere Annetta.



Si coricò e s’addormentò non appena poggiata la resta sul guanciale.



XV

Ma svegliandosi si ritrovò con quell’istesso malessere.



Riandando col pensiero su tutti gli avvenimenti della notte innanzi, il suo disgusto aumentava. Tutto gli dispiaceva, dal primo abbraccio che egli aveva rubato fino a quell’ultimo saluto cui egli aveva risposto costringendosi ad una finzione che, per quanto facile, gli era costata dello sforzo. Volle non ammettere la conclusione ch’evidentemente egli avrebbe dovuto trarre da questo suo sentimento. Nell’immensa felicità di possedere Annetta, egli si diceva che gli dispiaceva il modo con cui l’aveva conquistata. Non credeva che Annetta lo amasse; ella si piegava alle conseguenze di un fatto irrevocabile.



Tempo prima Macario gli aveva detto che lo riteneva incapace di lottare e di afferrare la preda, ed egli di questo rimprovero s’era gloriato come di una lode. Ora egli aveva provato che Macario s’era ingannato sul suo conto.



Vedeva con tutt’altri occhi la sua stanzetta allegra, ridente per il raggio di sole che, unico nella giornata, vi penetrava a quell’ora. Ci aveva pur passato delle belle ore! Era stata una felicità strana, una soddisfazione continuata del suo orgoglio a scoprire qualche debolezza in altrui di cui egli andava immune, a vedere gli altri tutti in lotta per il denaro e per gli onori e lui rimanere tranquillo, soddisfatto al sentirsi nascere nel cervello la genialità, nel cuore un affetto più gentile di quello che di solito gli umani sentono. Comprendeva e compativa le debolezze altrui e tanto più superbo andava della propria superiorità. Quando entrava in biblioteca o nella sua stanzuccia, egli usciva perfettamente dalla lotta; nessuno gli contendeva la sua felicità, egli non chiedeva nulla a nessuno. Ora invece questi lottatori ch’egli disprezzava lo avevano attirato nel loro mezzo e senza resistenza egli aveva avuto i loro stessi desiderî, adottato le loro armi.



Voleva combattere il proprio disgusto che, attribuito alle cause ch’egli si ostinava di dargli, era assolutamente irragionevole. Vestendosi pensava che se un suo simile l’avesse risaputo ne avrebbe riso. Egli era entrato nella lotta perché non gli era stato mai concesso di uscirne del tutto; anche la felicità modesta che aveva chiesta non gli era stata accordata intera. Oh! via! la sua era una vittoria che gli dava intanto la libertà! Se il suo affetto per Annetta, – così in parentesi già lo confessava, – non era quale avrebbe dovuto essere, la sua vita principiava appena da questo matrimonio ed egli doveva gioirne altamente.



La Lanucci, vedendolo accigliato, s’impensierì e, sapendo ch’era rincasato tardi, gli chiese se avesse passato la notte al tavolino da giuoco e perduto. Egli rise! Aveva infatti giocato, ma aveva guadagnato.



Durante la mattina, lavorando con lentezza e fermandosi a sognare nel fissare un nome o una cifra, ebbe l’idea strana che forse a quell’ora l’amore di Annetta era già cessato e ch’egli non ne avrebbe più sentito parlare. Era ammissibilissimo, perché un amore nato così presto, il prodotto della necessità e della rassegnazione, poteva morire con la medesima rapidità con cui era nato. Non provò alcun timore che così potesse accadere! Se qualcuno glielo avesse annunziato come fatto avvenuto, egli non avrebbe avuto né sorpresa né dolore se anche non piacere. Sarebbe stato liberato dai dubbî ch’erano di molto più gravi di quelli ch’egli poteva sopportare. Sapeva che in questo caso Annetta, non che sua amante, non sarebbe stata più neppure sua amica e ch’egli sarebbe ricaduto fra il volgo degl’impiegati da cui non era distinto che da questa sua relazione. Ma anzitutto desiderava di riavere la sua pace e la sua tranquillità.



A casa lo attendeva una lettera. Era di Annetta; ne riconobbe subito la scrittura, certi tratti rotondi e piccolissimi ch’egli aveva avuto l’occasione di conoscere lavorando con essa al romanzo. L’aperse subito. Forse in quella lettera v’era la parola che lo avrebbe tolto alla sua tortura. Potevano esserci o nuove affettazioni d’amore, o scuse ricercate per liberarsi da lui.



S’ingannava! Nella lettera non trovò nulla di affettato.



Scritta per raccontargli qualche cosa ch’egli non ancora sapeva, era dapprima tutta dedicata a questo fatto, un’esposizione serrata con qualche piccola osservazione che doveva togliere dei dubbî o prevenire qualche opposizione. Annetta cominciava col premettere con poche, semplici ma affettuose parole, ch’essi formavano ora una sola persona in quanto a scopi e interessi e che perciò ella si attendeva ch’egli riponesse intera fiducia in lei. Avrebbe perciò anche agito senza fargli ulteriori comunicazioni che, ella lo comprendeva, non potevano essergli aggradevoli. Ma ora le occorreva il suo aiuto. Ella intendeva di andare dal padre e dirgli subito tutto. Sarebbe stata una brutta scena e non c’era da meravigliarsene perché la sorpresa e anche il dolore non dovevano essere piccoli nel vecchio Maller che per la figliuola, a torto, ella s’affrettava di aggiungere, aveva sognato tutt’altra cosa. Ella non poteva ripromettersi di fargli mutare così presto di parere, e così Alfonso, per breve tempo bensì, ne era certa, sarebbe rimasto esposto a degli sgarbi forse anche a delle brutalità. Amandolo, ella avrebbe sofferto per ogni parola meno che dolce che a lui fosse stata diretta, e, per il decoro di Maller, gli proponeva che abbandonasse per qualche tempo la città. Aveva già detto al padre che Francesca aveva il desiderio di mandarlo con un suo incarico al villaggio e Maller stesso aveva promesso di fargli offrire il permesso. Ella lo pregava di accettarlo.



La lettera si chiudeva, ma si riapriva in un poscritto, altre due facciate fitte fitte. Ella voleva rivederlo una volta, una sola volta prima della sua partenza e lo pregava di trovarsi la sera del giorno stesso accanto alla biblioteca civica, su quell’erta verso la villa Necker ove ella già altre volte lo aveva veduto. In casa sua non voleva perché prima della promissione desiderava di non trovarsi più sola con lui. Non gliene volesse male per questo. Ella s’era scoperta debole una prima volta quando tanti riguardi e tanti timori avrebbero dovuto sostenerla; sapeva quindi che avrebbe ceduto egualmente una seconda volta quando questi riguardi più non fossero esistiti.



La lettera si chiudeva definitivamente con una frase con cui Annetta voleva spiegare e scusare la sua caduta: «Sai, caro, è l’amore che mi ha fatto cedere tanto facilmente, non il tuo coraggio, grande, a dire il vero. Io ti amavo da lungo tempo e tu lo sapevi. Quando mi abbandonavo ad una tua carezza ero altrettanto colpevole. Con te cedetti sempre, tu però non volesti sempre la stessa cosa.»



Questa lettera, segnata da capo a fondo da un grande affetto, commosse Alfonso, ma in tutt’altro senso di quello che Annetta avrebbe potuto sperare. Ai suoi occhi restava inutile quello sforzo di apparire non rassegnata ma lieta e di far credere che, se non fosse stato già fatto, ella sarebbe stata disposta a fare di nuovo e perfettamente conscia di sé il medesimo passo. No, ella era caduta e agiva come la persona che cadendo cerca l’atteggiamento più elegante e più dignitoso e dimentica di stendere le braccia per salvare il capo dalla botta. Quella testina, portata sempre fieramente ritta sul collo, aveva battuto malamente il suolo e Annetta rinunziava di levarla mai più in alto. In quella lettera a lui parve che, ove cessava la sensualità, cominciasse il contegno indicato da un ragionamento di necessità.

 



Ora, ora appena comprendeva perché, dopo raggiunto lo scopo cui aveva mirato da sì lungo tempo, anziché felice si sentisse inquieto e disgustato. Non era così ch’egli avrebbe voluto ottenere la ricchezza, anche rassegnandosi a riceverla da Annetta. Si rammentava di aver sperato di raggiungere il medesimo scopo per tutt’altra via. Annetta avrebbe dovuto dichiarargli serenamente ch’ella lo amava e che riconosceva di non saper porre il proprio destino in migliori mani che nelle sue! Molto tempo prima aveva riconosciuto ch’era inammissibile che il suo sogno si realizzasse ed era proceduto oltre trascinato dalla sensualità, non da altri scopi. Annetta era la più colpevole fra i due perché le scuse ch’egli aveva trovate per sé, per lei non sussistevano. Ella aveva agito per sensualità e per vanità, dal principio sino alla fine. Egli aveva sempre avuto il conato d’ingentilire il loro amore con la parola e coi modi mentre ella non aveva che tollerato in lui quest’amore senza mostrare di dividerlo. Così egli s’era ritrovato con un sentimento che aveva finito coll’essere simile a quello di Annetta: cessava quando cessava il desiderio. Eppure più di qualunque altro dubbio lo turbava la compassione che gli destava Annetta. Ella era stata colpita proprio nella parte più importante della sua vita, nella sua superbia, e prima o poi ne avrebbe sofferto orribilmente.



Non s’era mai sentito tanto infelice alla banca come quel giorno, quantunque dopo ricevuta quella lettera lavorasse rapidamente e bene quasi avesse voluto apportare qualche utile al signor Maller per indennizzarlo della mala azione fatta in suo danno. Lo incontrò sul corridoio e gli s’inchinò profondamente per fargli buona impressione. Nel pomeriggio venne improvvisamente invitato da Santo di portarsi dal signor Maller. Trasalì. Maller ben di rado aveva bisogno di parlargli, e andando da lui, pensò che Annetta avesse parlato prima del tempo, lasciandolo impreparato dinanzi alla collera del padre. Si trattava invece di affari d’ufficio. Fu tanto imbarazzato che il signor Maller lo guardò con curiosità, certo pensando che la letteratura non era fatta per rendere i suoi cultori più disinvolti.



Il motivo ai suoi sogni ulteriori era dato precisamente da questo spavento. Si vedeva chiamato dal signor Maller, più addolorato di dover maritare a lui la figliuola che del disonore di costei. Lo accoglieva con rimproveri e insulti che non cessavano neppure quando egli dichiarava che, i fatti pur comportandosi a quel modo, le conseguenze da trarne non erano quelle che il signor Maller riteneva perché egli, se così si voleva, si sarebbe ritirato e avrebbe rinunziato ad Annetta conservando il segreto come una tomba. Ah! egli poteva fare ben poco per diminuire l’ira di Maller al quale la sua colpa doveva sembrare enorme. E per quanto egli avesse voluto imporre le sue condizioni, – rifiutare consensi strappati per forza, – non ne aveva alcuna libertà. Doveva assoggettarsi al volere di coloro nelle cui mani era posto il suo destino.



Durante la giornata sentiva ardente il bisogno di confidarsi con qualcuno. Gli costò molto di non parlarne affatto con Ballina, in stanza del quale passò metà della giornata, per non sentirsi tanto solo co’ suoi pensieri. Provava il bisogno di sentire il parere di qualcuno non acciecato da utopie come, a quanto gli era stato detto di spesso, era lui. Il comune degli uomini pensava forse tutt’altrimenti e la parola di un amico avrebbe potuto alleggerirgli la coscienza se anche non portarlo a tripudiare di una cosa che non gli si confaceva.



Ma con Ballina seppe trattenersi. White abbandonava il giorno appresso la banca, e ne parlò a lui togliendo al fatto i nomi e ogni particolare più concreto. Gli raccontò che un giovane di sua conoscenza aveva corteggiata u