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Tanto il suo dolore quanto il suo rimorso divennero miti, miti. Gli elementi di cui si componeva la sua vita erano gli stessi, ma s’erano attenuati quasi visti attraverso una lente fosca che li privasse di luce e di violenza. Una grande calma e una grande noia incombevano su lui. Aveva percepito con piena chiarezza quanto strana fosse stata in lui l’esagerazione sentimentale, e al Balli che lo studiava con qualche ansietà, disse, credendo d’essere sincero: – Sono guarito.

Poteva crederlo perché non si poteva pretendere ch’egli ricordasse esattamente lo stato d’animo in cui s’era trovato prima di aver conosciuta Angiolina. La differenza era tanto piccola! Aveva sbadigliato meno, e non aveva conosciuto l’impaccio doloroso che lo coglieva quando si trovava accanto ad Amalia.

Anche la stagione era molto fosca. Da settimane non s’era visto raggio di sole, e perciò, quando egli pensava ad Angiolina, associava nel suo pensiero la dolce faccia, il caldo color dei capelli biondi, all’azzurro del cielo, alla luce del sole, tutte cose ch’erano scomparse insieme dalla sua vita. Egli era però giunto alla convinzione che l’abbandono di Angiolina fosse stato molto salutare per lui. – E’ preferibile d’essere liberi – diceva con convinzione.

Tentò anche di approfittare della riconquistata libertà. Sentiva e si doleva d’essere inerte, e ricordava che, anni prima, l’arte gli aveva colorita la vita sottraendolo all’inerzia in cui era caduto dopo la morte del padre. Aveva scritto il suo romanzo, la storia di un giovane artista il quale da una donna veniva rovinato nell’intelligenza e nella salute. Nel giovane aveva rappresentato se stesso, la propria ingenuità e la propria dolcezza. Aveva immaginato la sua eroina secondo la moda di allora: un misto di donna e di tigre. Del felino aveva le movenze, gli occhi, il carattere sanguinario. Non aveva mai conosciuta una donna e l’aveva sognata così, un animale ch’era veramente difficile fosse mai potuto nascere e prosperare. Ma con quale convinzione l’aveva descritta! Aveva sofferto e goduto con essa sentendo a volte vivere anche in sé quell’ibrido miscuglio di tigre e di donna.

Riprese ora la penna e scrisse in una sola sera il primo capitolo di un romanzo. Trovava un nuovo indirizzo d’arte al quale volle conformarsi, e scrisse la verità. Raccontò il suo incontro con Angiolina, descrisse i propri sentimenti, – subito però quelli degli ultimi giorni – violenti e irosi, l’aspetto di Angiolina ch’egli vide al primo incontro guastato dall’animo basso e perverso, e infine il magnifico paesaggio che aveva contornato agli esordii il loro idillio. Stanco e annoiato, abbandonò il lavoro, contento di aver steso in una sola sera tutto un capitolo.

La sera appresso si rimise al lavoro avendo nella mente due o tre idee che dovevano bastare per una sequela di pagine. Prima però rilesse il lavoro fatto: – Incredibile! – mormorò. L’uomo non somigliava affatto a lui, la donna poi conservava qualche cosa della donna-tigre del primo romanzo, ma non ne aveva la vita, il sangue. Pensò che quella verità che aveva voluto raccontare era meno credibile dei sogni che anni prima aveva saputi gabellare per veri. In quell’istante si sentì sconsolatamente inerte, e ne provò un’angoscia dolorosa. Depose la penna, richiuse tutto in un cassetto, e si disse che l’avrebbe ripreso più tardi, forse già il giorno appresso. Questo proposito bastò a tranquillarlo; ma non ritornò più al lavoro. Voleva risparmiarsi ogni dolore e non si sentiva forte abbastanza per studiare la propria inettitudine e vincerla. Non sapeva più pensare con la penna in mano. Quando voleva scrivere, si sentiva arrugginire il cervello, e rimaneva estatico dinanzi alla carta bianca, mentre l’inchiostro s’asciugava sulla penna.

Gli venne il desiderio di rivedere Angiolina. Non prese la decisione di andarla a cercare; s’era detto soltanto che ora veramente non ci sarebbe stato alcun pericolo a rivederla. Anzi, se si fosse voluto attenere esattamente alle parole che aveva dette lasciandola, sarebbe dovuto andare subito da lei. Non era forse calmo abbastanza per stringerle la mano da amico?

Comunicò questo suo proposito al Balli, e in questa forma: – Vorrei soltanto vedere se, riavvicinandola, saprei contenermi da persona più accorta.

Il Balli aveva riso troppo spesso dell’amore di Emilio per non credere ora nella sua perfetta guarigione. Per di più, da qualche giorno, egli stesso aveva il più vivo desiderio di rivedere Angiolina. Aveva immaginato una figura su quei tratti e con quei vestiti. Lo raccontò ad Emilio il quale gli promise che con le prime parole che avrebbe rivolte alla fanciulla, l’avrebbe pregata di posare per il Balli. Non v’era da dubitare della sua guarigione. Ormai egli non era neppur geloso del Balli.

Parve poi che il Balli pensasse ad Angiolina non meno di Emilio stesso. Aveva dovuto distruggere un bozzetto su cui aveva spesi sei mesi di lavoro. Anch’egli era in un periodo d’esaurimento e non ritrovava in sé altra idea che quella nata la prima sera in cui Emilio gli aveva fatto conoscere Angiolina. Una sera, lasciando Emilio, gli chiese: – Tu non ti sei ancora riavvicinato? – Non voleva essere lui a riunirli, ma voleva sapere se Emilio non si fosse rappattumato con Angiolina a sua insaputa. Sarebbe stato un tradimento!

La calma d’Emilio era aumentata ancora. Tutti gli permettevano di fare quello ch’egli voleva ed egli in fondo non voleva niente. Proprio niente. Avrebbe cercato di rivedere Angiolina perché voleva provarsi a parlare e pensare con calore. Doveva venirgli dal di fuori il calore ch’egli non aveva trovato in sé, e sperava di vivere il romanzo che non sapeva scrivere.

La sola inerzia gl’impedì d’andare a cercare la fanciulla. Gli sarebbe piaciuto che altri si fosse incaricato di riunirli, e pensò perfino che avrebbe potuto invitare il Balli a farlo. Tutto infatti sarebbe stato più facile e più semplice se il Balli si fosse procurato da solo la modella, e gliel’avesse poi consegnata quale amante. Ci avrebbe pensato. Esitava soltanto perché non voleva concedere al Balli una parte importante nel proprio destino.

Importante? Oh, Angiolina rimaneva sempre una persona molto importante per lui. In proporzione al resto se non altro. Tutto era tanto insignificante, ch’ella tutto dominava. Ci pensava continuamente come un vecchio alla propria giovinezza Come era stato giovane quella notte in cui avrebbe dovuto uccidere per tranquillarsi! Se avesse scritto invece di arrovellarsi prima sulla via e poi altrettanto affannosamente nel letto solitario, avrebbe certo trovata la via all’arte che più tardi aveva cercata invano. Ma tutto era passato per sempre. Angiolina viveva, ma non poteva più dargli la giovinezza.

Una sera, accanto al Giardino Pubblico, la vide camminare dinanzi a sé. La riconobbe al noto passo. Ella teneva sollevate le gonne per preservarle dalla fanghiglia, e, alla luce di un gramo fanale, egli vide rilucere le scarpe nere di Angiolina. Ne fu subito turbato. Ricordò che al culmine della sua angoscia amorosa, egli aveva pensato che il possesso di quella donna gli avrebbe data la guarigione. Ora invece pensò: – Mi animerebbe!

– Buona sera, signorina – disse con quanta calma poté trovare nell’affanno del desiderio che lo colse dinanzi a quella faccia da bambino roseo, con gli occhi grandi dai contorni precisi, che parevano tagliati allora allora.

Ella si fermò, afferrò la mano che le era stata offerta e rispose lieta e serena al saluto: – Come sta? E tanto che non ci vediamo.

Egli rispose, ma era distratto dal proprio desiderio. Aveva forse fatto male a dimostrare tanta serenità, e, peggio, a non aver pensato al contegno da seguire per arrivare subito dove voleva, alla verità, al possesso. Le camminò accanto tenendola per mano, ma, dopo scambiate quelle prime frasi da persone che sono liete di ritrovarsi, egli tacque esitante. Il tono elegiaco usato altre volte con piena sincerità, sarebbe stato fuori di posto, ma anche un’indifferenza troppo grande non l’avrebbe portato allo scopo.

– Mi ha perdonato, signor Emilio? – disse lei fermandosi e gli porse da stringere anche l’altra mano. L’intenzione era stata ottima e il gesto sorprendentemente originale per Angiolina.

Egli trovò: – Sa che cosa io non le perdonerò mai? Di non aver fatto alcun tentativo per riavvicinarsi a me. Tanto poco le importava di me? – Era sincero e s’accorse ch’egli cercava inutilmente di far la commedia. Forse la sincerità gli sarebbe servita meglio di qualunque finzione.

Ella si confuse un poco e, balbettando, assicurò che se egli non si fosse avvicinato, l’indomani ella gli avrebbe scritto. – Già, in fondo che cosa ho fatto? – e non ricordava d’aver chiesto scusa poco prima.

Emilio credette opportuno mostrarsi dubbioso. – Debbo crederle? – Disse poi un rimprovero: – Con un ombrellaio!

La parola li fece ridere di gusto entrambi. – Geloso! – esclamò lei stringendo la mano che continuava a tenere – geloso di quel sudicio uomo! – Infatti se egli aveva fatto bene a rompere la relazione con Angiolina, certo aveva avuto torto di cogliere a pretesto quella stupida storia con l’ombrellaio. L’ombrellaio non era il più temibile dei suoi rivali. E perciò ebbe lo strano sentimento che doveva imputare a se stesso tutti i mali che lo avevano colpito dacché aveva abbandonata Angiolina.

Ella tacque lungamente. Non poteva essere di proposito, perché per Angiolina sarebbe stata un’arte troppo fine. Ella taceva probabilmente perché non trovava altre parole per scolparsi, e camminarono in silenzio uno accanto all’altra nella notte strana e fosca, il cielo tutto coperto di nubi sbiancate in un solo punto dalla luce lunare.

Arrivarono dinanzi alla casa d’Angiolina ed ella si fermò, forse per prendere congedo. Ma egli la costrinse a procedere: Camminiamo ancora, ancora, così muti! – Allora, naturalmente, ella lo compiacque e continuò a camminare tacendo a lui da canto. Ed egli l’amò di nuovo, da quell’istante, o da quell’istante ne fu consapevole. Gli camminava accanto la donna nobilitata dal suo sogno ininterrotto, da quell’ultimo grido d’angoscia ch’egli le aveva strappato lasciandola, e che per lungo tempo l’aveva personificata tutta; persino dall’arte, perché ormai il desiderio fece sentire ad Emilio d’aver accanto la dea capace di qualunque nobiltà di suono o di parola.

 

Oltrepassata la casa d’Angiolina, essi si trovarono sulla via deserta e oscura chiusa dalla collina da una parte, dall’altra da un muricciuolo che la separava dai campi. Ella vi sedette ed egli s’appoggiò a lei cercando la posizione che aveva preferita in passato, durante i primi tempi del loro amore. Gli mancava il mare. Nel paesaggio umido e grigio imperò la biondezza d’Angiolina, l’unica nota calda, luminosa.

Era tanto tempo ch’egli non sentiva quelle labbra sulle sue che n’ebbe una commozione violenta. – Oh, cara e dolce! mormorò baciandole gli occhi, il collo e poi la mano e le vesti. Ella lo lasciò fare dolcemente, e tanta dolcezza era talmente inaspettata ch’egli si commosse e pianse prima con sole lagrime, poi con singhiozzi. Gli pareva che non fosse dipeso che da lui di continuare per tutta la vita quella felicità. Tutto si scioglieva, tutto si spiegava. La sua vita non poteva più consistere che di quel solo desiderio.

– Tanto bene mi vuoi? – mormorò essa commossa e meravigliata. Anche lei aveva delle lagrime agli occhi. Gli raccontò che l’aveva visto sulla via, pallido e smunto, sul volto i segni evidenti della sua sofferenza, e le si era stretto il cuore dalla compassione. – Perché non sei venuto prima? – gli chiese rimproverandolo.

S’appoggiò a lui per discendere dal muricciuolo. Egli non capiva perché ella troncasse quella dolce spiegazione ch’egli avrebbe voluto continuare in eterno. – Andiamo a casa mia disse ella, risoluta.

Egli ebbe le vertigini e l’abbracciò e baciò non sapendo come dimostrarle la propria riconoscenza. Ma la casa d’Angiolina era lontana e, camminando, Emilio si ritrovò intero con i suoi dubbi e la sua diffidenza. Se quell’istante l’avesse legato per sempre a quella donna? Fece le scale lentamente e tutt’ad un tratto le domandò: – E Volpini?

Ella esitò e si fermò: – Volpini? – Poi, risoluta, superò i pochi scalini che la dividevano da Emilio. Si appoggiò a lui, nascose la faccia sulla sua spalla con un’affettazione di pudore che gli ricordò l’antica Angiolina e la sua serietà da melodramma, e gli disse: – Nessuno lo sa, neppure mia madre. – Un po’ alla volta ricompariva tutto il vecchio bagaglio, anche la dolce madre. Ella s’era data al Volpini; costui l’aveva voluto, l’aveva anzi posto a condizione per continuare i loro rapporti. – Sentiva che non era amato – bisbigliava Angiolina – e volle una prova d’amore. – Essa non aveva ottenuto in compenso altra garanzia all’infuori di una promessa di matrimonio. Fece, con la solita sconsideratezza, il nome di un giovane avvocato il quale le aveva dato il consiglio d’accontentarsi di quella promessa perché la legge puniva la seduzione in quelle forme.

Così allacciati, quelle scale non terminavano più. Ogni scalino rendeva Angiolina più simile alla donna ch’egli aveva fuggita. Perché ora ciarlava, incominciando già ad abbandonarsi. Ora poteva essere finalmente sua perché – questo era detto e ridetto – era per lui ch’ella s’era data al sarto. A quella responsabilità non si sfuggiva più neppure rinunziando a lei.

Ella aperse la porta e, per il corridoio oscuro, lo diresse alla propria stanza. Da un’altra s’udì la voce nasale della madre: – Angiolina! sei tu?

– Sì – rispose Angiolina trattenendo una risata. – Mi corico subito. Addio, mamma.

Accese una candela e si levò il mantello e il cappello. Poi gli si abbandonò o, meglio, lo prese.

Emilio poté esperimentare quanto importante sia il possesso di una donna lungamente desiderata. In quella memorabile sera egli poteva credere d’essersi mutato ben due volte nell’intima sua natura. Era sparita la sconsolata inerzia che l’aveva spinto a ricercare Angiolina, ma erasi anche annullato l’entusiasmo che lo aveva fatto singhiozzare di felicità e di tristezza. Il maschio era oramai soddisfatto ma, all’infuori di quella soddisfazione, egli veramente non ne aveva sentita altra. Aveva posseduto la donna che odiava, non quella ch’egli amava. Oh, ingannatrice! Non era né la prima, né – come voleva dargli ad intendere – la seconda volta ch’ella passava per un letto d’amore. Non valeva la pena di adirarsene perché l’aveva saputo da lungo tempo. Ma il possesso gli aveva data una grande libertà di giudizio sulla donna che gli si era sottomessa. – Non sognerò mai più – pensò uscendo da quella casa. E poco dopo, guardandola, illuminata da pallidi riflessi lunari: – Forse non ci ritornerò mai più. – Non era una decisione. Perché l’avrebbe dovuta prendere? Il tutto mancava d’importanza.

Ella l’aveva accompagnato sino alla porta di casa. Non s’era accorta di alcuna sua freddezza perché egli si sarebbe vergognato di mostrarne. Anzi, premurosamente egli aveva chiesto per la sera appresso un altro appuntamento ch’ella aveva dovuto rifiutargli essendo occupata tutta la giornata fino a tarda notte dalla signora Deluigi, che le aveva commesso un vestito da ballo. S’accordarono di vedersi due giorni dopo: – Ma non in questa casa – disse Angiolina subito arrossata dall’ira. – Come puoi immaginare una cosa simile? Non voglio mica espormi al pericolo di farmi ammazzare da mio padre. – Emilio assicurò che avrebbe provveduto lui alla stanza pel prossimo ritrovo. Gliel’avrebbe indicata domani con un biglietto.

Il possesso, la verità? La bugia continuava spudorata come prima, ed egli non scorgeva alcun modo per liberarsene. Nell’ultimo bacio, dolcemente, ella gli raccomandò discrezione, col Balli specialmente. Ella ci teneva alla propria fama.

Col Balli Emilio fu indiscreto subito, la stessa sera. Parlò di proposito, con l’intenzione di reagire alle menzogne d’Angiolina, senza tener conto delle raccomandazioni di lei, intese certamente a ingannare lui e non a tener all’oscuro gli altri. Ma poi sentì una grande soddisfazione di poter raccontare al Balli d’aver posseduto quella donna. Fu una soddisfazione intensa, importante, che gli levò qualunque nube dalla fronte.

Il Balli lo stette a sentire da medico che vuol fare una diagnosi: – Mi pare proprio di poter essere sicuro che sei guarito.

Allora però Emilio sentì il bisogno di confidarsi, e raccontò dell’indignazione che provocava in lui il contegno di Angiolina, la quale ancora sempre voleva fargli credere di essersi data al Volpini per poter appartenere a lui. Subito la sua parola fu troppo vivace: – Ancora adesso vuole truffarmi. Il dolore che mi fa di vederla sempre uguale a se stessa è tale che mi toglie persino il desiderio di rivederla.

Il Balli lo indovinò tutto e gli disse: – Anche tu resti uguale a te stesso. Non una tua parola denota indifferenza. – Emilio protestò con calore, ma il Balli non si lasciò convincere. – Hai fatto male, male assai di riavvicinarti a lei.

Durante la notte Emilio poté convincersi che il Balli aveva ragione. L’indignazione, un’ira inquieta che avrebbe domandato un pronto sfogo, lo teneva desto. Non poteva più illudersi che quella fosse l’indignazione dell’uomo onesto ferito da un’oscenità. Egli conosceva troppo bene quello stato d’animo. Ci era ricaduto ed era molto simile a quello provato prima dell’incidente dell’ombrellaio e prima del possesso. La gioventù ritornava! Egli non anelava più di uccidere ma si sarebbe voluto annientare dalla vergogna e dal dolore.

All’antico dolore s’era aggiunto un peso sulla coscienza, il rimorso d’essersi legato di più a quella donna, e la paura di vederne compromessa vieppiù la propria vita. Infatti, come avrebbe potuto spiegare la tenacità con cui ella addossava a lui la colpa della relazione col Volpini, se non col proposito d’attaccarglisi, comprometterlo, succhiargli lo scarso sangue che aveva nelle vene? Egli era legato per sempre ad Angiolina da una strana anomalia del proprio cuore, dai sensi – nel letto solitario il desiderio era rinato – e dalla stessa indignazione ch’egli attribuiva all’odio.

Quell’indignazione era la madre dei più dolci sogni. Verso mattina il suo profondo turbamento s’era mitigato nella commozione per il proprio destino. Non s’addormentò, ma cadde in uno stato singolare d’abbattimento che gli tolse la nozione del tempo e del luogo. Gli parve d’essere ammalato, gravemente, senza rimedio, e che Angiolina fosse accorsa a curarlo. Le vedeva la compostezza e la serietà della buona infermiera dolce e disinteressata. La sentiva muoversi nella camera, ed ogni qualvolta ella gli si avvicinava, gli apportava refrigerio, toccandogli con la mano fresca la fronte scottante, oppure baciandolo, con lievi baci che non volevano essere percepiti, sugli occhi o sulla fronte. Angiolina sapeva baciare così? Egli si rivoltò pesantemente nel letto e tornò in sé. L’effettuazione di quel sogno sarebbe stato il vero possesso. E dire che poche ore prima egli aveva pensato di aver perduto la capacità di sognare. Oh, la gioventù era ritornata. Correva le sue vene prepotente come mai prima, e annullava qualunque risoluzione la mente senile avesse fatta.

Di buon’ora s’alzò e uscì. Non poteva attendere; voleva rivedere Angiolina subito. Correva nell’impazienza di riabbracciarla ma si proponeva di non ciarlare troppo. Non voleva abbassarsi con dichiarazioni che avrebbero falsato i loro rapporti. Il possesso non dava la verità, ma esso stesso, non abbellito da sogni e neppure da parole, era la verità propria e pura e bestiale.

Invece, con un’ostinazione ammirabile, Angiolina non ne volle sapere. Era già vestita per uscire e poi l’aveva già avvisato che ella non intendeva disonorare la propria casa.

Egli, nel frattempo, aveva fatta un’osservazione per la quale credette di dover deviare dai suoi proponimenti. S’accorse ch’ella lo esaminava con curiosità per capire se in lui l’amore fosse diminuito o aumentato dal possesso. Ella si tradiva con un’ingenuità commovente; doveva aver conosciuti degli uomini che provavano ripugnanza per la donna avuta. A lui fu molto facile di provarle ch’egli non era di quelli. Rassegnatosi al digiuno ch’ella gli imponeva, si accontentò di quei baci di cui era vissuto per tanto tempo. Ma presto i baci soli non bastarono più, ed egli si ritrovò a mormorarle nelle orecchie tutte le dolci parole apprese nel lungo amore: – Ange! Ange! Il Balli gli aveva fornito l’indirizzo di una casa ove davano a fitto delle stanze. Egli gliela indicò. A lungo, per non sbagliare, ella si fece descrivere quella casa e la posizione della stanza, ciò che imbarazzò non poco Emilio il quale non l’aveva vista. Aveva baciato troppo per saper osservare, ma quando fu solo sulla via s’accorse, con sua grande meraviglia, che soltanto allora sapeva esattamente dove bisognava andare a cercare quella stanza. Non v’era dubbio! Era stato diretto da Angiolina.

Vi andò subito. La proprietaria della camera si chiamava Paracci, ed era una vecchierella nauseante dalle vesti sucide sotto alle quali s’indovinavano le forme del petto abbondante, un resto di giovinezza in mezzo ad una vizza vecchiaia, la testa con pochi capelli ricci sotto ai quali luceva la pelle porosa e rossa. Lo accolse con grande gentilezza e, subito d’accordo, gli disse ch’ella non affittava che a chi conosceva molto bene dunque a lui sì.

Egli volle vedere la stanza e vi entrò, seguito dalla vecchia, per la porta sulle scale. Un’altra porta – sempre chiusa – disse la Paracci con l’accento di chi giura, la congiungeva al resto del quartiere. Più che ammobiliata, era ingombrata da un enorme letto dall’apparenza pulita e da due grandi armadi; c’era un tavolo nel mezzo, un sofà e quattro sedie. Non ci sarebbe stato posto neppure per un solo altro mobile.

La vedova Paracci stava a guardarlo, le mani sui grossi fianchi sporgenti, con l’aspetto sorridente – una brutta smorfia che metteva in mostra la bocca sdentata – di chi si attende una parola di soddisfazione. Infatti nella stanza c’era anche qualche tentativo d’abbellimento. In capo al letto stava piantato un ombrello chinese e sulla parete, anche qui, erano appese varie fotografie.

Gli sfuggì un grido di sorpresa vedendo accanto alla fotografia di una donna seminuda, quella di una giovanetta ch’egli aveva conosciuta, un’amica di Amalia, morta qualche anno prima. Chiese alla vecchia donde le fossero venute quelle fotografie, ed ella rispose che le aveva comperate per adornare quella parete. Egli guardò lungamente la faccia buona di quella povera ragazza che aveva posato tutta impettita dinanzi alla macchina del fotografo, forse l’unica volta in sua vita, per servire da ornamento a quella stanzaccia.

 

Eppure in quella stanzaccia, in presenza della sozza vecchia che stava a guardarlo lieta d’aver conquistato un nuovo cliente, egli sognò d’amore. Precisamente in quelle condizioni era eccitantissimo figurarsi Angiolina che veniva a portargli l’amore desiato. Con un fremito di febbre, egli pensò: domani avrò la donna amata!

La ebbe quantunque mai l’avesse amata meno di quel giorno. L’attesa l’aveva reso infelice; gli pareva d’essere nell’impossibilità di godere. Circa un’ora prima di andare all’appuntamento pensò che se non vi avesse trovata la gioia attesa, avrebbe dichiarato ad Angiolina di non volerla vedere più, e precisamente con le parole: – Sei tanto disonesta che mi ripugni. – Aveva pensate queste parole accanto ad Amalia, invidiandola perché la vedeva disfatta ma tranquilla. E aveva pensato che l’amore, per Amalia, restava il puro grande desiderio divino: era nell’effettuazione che la piccola natura umana si trovava bruttata, avvilita.

Ma quella sera godette. Angiolina lo fece attendere oltre mezz’ora, un secolo. Gli parve di sentire sola ira, un’ira impotente che aumentava l’odio ch’egli diceva di sentire per lei. Pensava di picchiarla quando sarebbe venuta. Non v’erano scuse possibili perché ella stessa aveva detto che quel giorno non andava a lavorare e che perciò poteva essere puntuale. Non era anzi per la certezza di non dover ritardare, ch’ella non aveva voluto accettare l’impegno per la sera prima? Ed ora lo aveva fatto aspettare prima un giorno intero e poi tanto, tanto tempo.

Ma quando ella arrivò, egli, che già aveva disperato di vederla, fu sorpreso della propria fortuna. Le mormorò sulle labbra e nel collo delle parole di rimprovero a cui ella neppure rispose perché avevano il suono di una preghiera, di una adorazione. Nella penombra la stanza della vedova Paracci divenne un tempio. Per lungo tempo nessuna parola turbò il sogno. Angiolina dava certo più di quanto aveva promesso. Ella aveva disciolti gli abbondanti capelli, ed egli si ritrovò con la testa appoggiata su un guanciale d’oro. Come un bambino egli vi appoggiò il volto per fiutarne il colore. Ella era un’amante compiacente e – in quel letto egli non sapeva lagnarsene – indovinava con un’intelligenza affinatissima i suoi desiderî. Là tutto diveniva soddisfazione e godimento.

Appena più tardi il ricordo di quella scena gli fece digrignare i denti dall’ira. La passione l’aveva liberato per un istante dal doloroso abito dell’osservatore, ma non gli aveva impedito d’imprimersi nella memoria ogni singolo particolare di quella scena. Ora appena poteva dire di conoscere Angiolina. La passione gli aveva dati dei ricordi indelebili, e su questi riusciva a ricostruire dei sentimenti che Angiolina non aveva espressi, che aveva anzi accuratamente celati. A mente fredda egli non sarebbe riuscito a tanto. Così, invece, egli sapeva, sapeva con certezza apodittica come se ella glielo avesse dichiarato a chiare note, ch’ella aveva conosciuto dei maschi che l’avevano soddisfatta meglio. Aveva detto più volte: – Ma adesso basterà Non ne posso più. – Aveva cercato un accento di ammirazione che non aveva trovato. Egli avrebbe potuto dividere la serata in due parti. Nella prima ella lo aveva amato; nella seconda s’era fatta forza per non respingerlo. Quando abbandonò il letto, tradì d’essere stanca di starvi. Allora, naturalmente, per indovinarla tutta, non occorse grande forza d’osservazione, perché, vedendolo esitante, ella lo spinse fuori dal letto dicendogli scherzosamente: – Andiamo, bell’uomo. – Bell’uomo! La parola ironica doveva essere stata pensata da una mezz’ora circa Egli l’aveva letta sulla sua faccia.

Come sempre, egli avrebbe avuto bisogno di restare solo per avere il tempo d’ordinare le proprie osservazioni. Per il momento percepì confusamente ch’ella non gli apparteneva più, la medesima sensazione che aveva avuta quella sera, in cui s’era trovato con Angiolina al Giardino Pubblico per aspettarvi il Balli e Margherita. Era un dolore atroce di amor proprio ferito e d’amarissima gelosia. Volle liberarsene, e non poté lasciarla senza aver tentato di riconquistarla.

L’accompagnò sulla via, poi, quantunque ella dichiarasse di aver fretta, l’indusse a rincasare per la via ch’egli aveva percorsa quella sera in cui ella era stata vista con l’ombrellaio. La via di Romagna era proprio quella della serata memoranda, con i suoi alberi nudi, che si proiettavano sul cielo chiaro, e il suolo ineguale coperto di fanghiglia densa. Una grande differenza era quella d’aver accanto Angiolina. Ma tanto lontana! Per la seconda volta, su quella stessa via, egli la cercò.

Le descrisse la corsa fatta allora. Le raccontò come il desiderio di vederla gliel’avesse fatta scorgere più volte dinanzi a sé, poi come una leggera ferita prodotta da una caduta l’avesse fatto piangere, perché era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Ella lo stette ad ascoltare lusingata di avere ispirato un tale amore e quand’egli si commosse lagnandosi che tanto soffrire non gli avesse conquistato tutto l’amore cui credeva di aver diritto, ella protestò con energia: – Come puoi dire una cosa simile? – Lo baciò per protestare con efficacia. Poi però commise l’errore, come al solito dopo averci ben pensato: – Non mi sono data al Volpini per essere tua? – Ed Emilio piegò la testa convinto.

Quel Volpini, senza saperlo, gli avvelenava le gioie che, secondo Angiolina, gli aveva procurate. Invece di soffrire per l’indifferenza di Angiolina, dopo di aver udito menzionare il Volpini, Emilio temette di lei e dei piani che in lei sospettava. Nel convegno seguente, con le prime parole egli chiese quali garanzie avesse avute dal Volpini per abbandonarglisi. – Oh, Volpini non può più fare a meno di me – disse ella sorridendo. Per il momento anche Emilio si tranquillò e gli parve che quella garanzia fosse sufficiente. Egli stesso, tanto più giovane del Volpini, non poteva fare a meno di Angiolina.

Durante il secondo appuntamento l’osservatore non s’assopì in lui un solo instante. N’ebbe il premio in una scoperta dolorosissima: nel tempo in cui egli con tanto sforzo s’era tenuto lontano da Angiolina, qualcuno doveva aver occupato il suo posto. Un altro, che non doveva somigliare ad alcuno degli uomini che egli conosceva e temeva. Non Leardi, non Giustini, non Datti. Doveva essere stato costui a prestarle degli accenti nuovi, bruschi, non manchevoli di spirito, e dei giuochi di parola grossolani. Doveva essere uno studente, perché ella maneggiava con grande disinvoltura alcune parole latine volte a senso turpe. Rispuntò quel disgraziato Merighi, il quale certamente non poteva sospettare che si continuasse ad abusare di lui; era stato lui ad insegnarle anche quelle parole latine. Come se ella fosse stata capace di sapere di latino senza farne pompa per tanto tempo! Invece chi le aveva insegnato il latino doveva essere il medesimo che le aveva apprese anche delle canzonette veneziane liberissime. Cantandole ella stonava, ma anche per saperle così doveva averle udite parecchie volte, tant’è vero che non avrebbe saputo rifare una sola nota delle canzonette udite più volte dal Balli. Doveva essere un veneziano perché ella si compiaceva spesso d’imitare la pronunzia veneziana che prima, probabilmente, aveva ignorata. Emilio lo sentiva accanto a sé, beffardo gaudente; arrivava a ricostruirlo fino a un certo punto, ma poi gli sfuggiva e non arrivò mai a conoscerne il nome. Nella raccolta di fotografie d’Angiolina non v’era alcuna faccia nuova. Il nuovo rivale non doveva avere il vezzo di regalare la propria fotografia, o forse ad Angiolina sembrava miglior politica di non esporre più le fotografie, alla cui raccolta ella aveva dedicata la propria vita. Tant’è vero che sulla parete mancava anche quella di Emilio.