Za darmo

Senilità

Tekst
0
Recenzje
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

Egli non ebbe alcun dubbio che se si fosse imbattuto in quell’individuo, l’avrebbe riconosciuto a certi gesti ch’ella doveva aver imitati da lui. Il peggio era che dalla sola ripetuta domanda da chi ella avesse appreso quel gesto o quella parola, ella indovinò la sua gelosia: – Geloso! – disse con un’intuizione sorprendente vedendolo serio e mesto. Sì; egli era geloso. Soffriva quando per un’esitazione ella si cacciava con gesto maschile le mani nei capelli, o per sorpresa gridava; – Oh, la balena! – o, quando scorgendolo triste, gli chiedeva: – Sei invelenà oggi? – Soffriva come se si fosse trovato a faccia a faccia col suo inafferrabile rivale. Per di più, con la fantasia eccitata dell’innamorato, egli credette di scoprire nei suoni della voce d’Angiolina delle copie di quelli serii e un po’ imperiosi del Leardi. Anche il Sorniani le doveva aver insegnato qualche cosa, e persino il Balli aveva lasciato traccia di sé, essendo stato copiato accuratamente in una certa sua affettazione d’intontita sorpresa o ammirazione. Emilio stesso non si riconosceva in alcuna parola o gesto di lei. Con amara ironia una volta pensò: Forse per me non c’è più posto.

Il più odiato rivale restava per lui quell’ignoto. Era strano com’ella avesse saputo non nominare quell’uomo che doveva essere passato di recente nella sua vita, mentre le piaceva tanto di vantarsi dei suoi trionfi, persino dell’ammirazione spiata negli occhi degli uomini nei quali s’imbattesse una sola volta sulla via. Tutti erano pazzamente innamorati di lei. – Tanto più merito ho avuto— ella asseriva – di essere rimasta sempre a casa durante la tua assenza, e ciò dopo essere stata trattata a quel modo da te. – Sì! Ella voleva fargli credere che durante la sua lontananza ella non avesse fatto altro che pensare a lui. Ogni sera, in famiglia, avevano ventilata la questione se ella dovesse scrivergli o no. Suo padre cui stava molto a cuore la dignità della famiglia non aveva voluto saperne. Visto che all’idea di quel consiglio di famiglia Emilio s’era messo a ridere, ella gridò: – Domandalo a mamma se non è vero.

Era una mentitrice ostinata benché, in verità, non conoscesse l’arte di mentire. Era facile farla cadere in contraddizione. Ma quando tale contraddizione le era stata provata, ella tornava con fronte serena ai suoi primi asserti, perché, in fondo, ella alla logica non ci credeva. E forse bastava tale sua semplicità a salvarla agli occhi d’Emilio.

Non si poteva dire ch’ella fosse molto raffinata nel male, e poi a lui sembrava che ogni qualvolta lo ingannava, avesse cura di avvisarnelo.

Non v’era però la possibilità di rintracciare i motivi per cui egli era tanto indissolubilmente legato ad Angiolina. Qualunque altro piccolo dolore che gli fosse toccato nella sua vita insignificante, divisa fra casa e ufficio, s’annullava facilmente accanto a lei. Di tutti i dolori ch’ella gli dava, il maggiore era quello di non farsi trovare, quando egli aveva bisogno di starle accanto. Spesso, cacciato fuori della propria casa dalla triste faccia della sorella, correva dagli Zarri quantunque sapesse che Angiolina non amava di vederlo tanto spesso in quella casa ch’ella tanto energicamente difendeva dal disonore. Ben di rado ve la trovava, e la madre con grande gentilezza lo invitava ad attenderla perché Angiolina doveva venir subito. Era stata chiamata cinque minuti prima da certe signore che abitavano lì accanto – un gesto vago accennava a levante o a ponente – per provare un vestito.

L’attesa gli era indicibilmente dolorosa, ma rimaneva incantato per delle ore a scrutare la dura faccia della vecchia, perché sapeva che rincasando senza aver vista l’amante, non si sarebbe quietato più. Una sera, spazientito, sebbene la madre, cortese come sempre, volesse trattenerlo, finì coll’andarsene. Sulle scale gli passò accanto una donna, apparentemente una fantesca, la testa coperta da una pezzuola con la quale si celava anche parte della faccia. Egli le diede il passo, ma, quando ella volle sgattaiolare oltre, la riconobbe, insospettito prima dall’intenzione ch’ella manifestava di sfuggirgli, poi dalle movenze e alla statura. Era Angiolina. Al ritrovarla egli si sentì subito meglio e non badò al fatto ch’ella parlando di quelle vicine che l’avevano chiamata, segnasse tutt’altra direzione di quella indicata dalla madre, e neppure a quello, sorprendente, ch’ella non gli tenesse rancore perché una volta di più egli fosse venuto in casa sua a comprometterla. Quella sera fu dolce, buona, come se avesse avuto da farsi perdonare qualche colpa, ma lui, in quella dolcezza di cui si beava, non seppe sospettare una colpa.

La sospettò soltanto allorché ella venne vestita a quel modo anche agli appuntamenti con lui. Ella dichiarò che rincasando sul tardi dopo essere stata con lui, era stata vista da conoscenti e aveva paura d’essere colta proprio nell’istante in cui usciva da quella casa, che non godeva della migliore fama; perciò si mascherava a quel modo. Oh, ingenuità! Ella non s’accorgeva di confessargli con quella chiacchierata che anche quella sera in cui egli l’aveva trovata sulle scale di casa sua, aveva avuti dei buoni motivi per travestirsi.

Una sera ella arrivò al loro ritrovo con più di un’ora di ritardo. Acciocché ella non avesse bisogno di bussare rischiando l’attenzione degli altri inquilini, egli soleva attenderla sulle scale, tortuose e sucide, poggiato alla ringhiera e persino piegato per scorgere il punto più lontano ove ella doveva apparire. Quando vedeva venire qualche estraneo, si rifugiava nella stanza e per tale moto continuo la sua agitazione aumentava enormemente. Del resto gli sarebbe stato impossibile di rimaner fermo. Quella sera, quando doveva tenersi chiuso nella stanza per lasciar passare la gente sulle scale, si gettò più volte sul letto per rialzarsi subito e perdere del tempo nel movimento ch’egli complicava ad arte. Più tardi, ripensando allo stato in cui s’era trovato in quell’attesa, gli parve incredibile. Doveva persino aver gridato dall’ambascia.

Quando ella alfine venne, non bastò la sua vista per calmarlo, e le fece dei violenti rimproveri. Ella non ci abbadò e credette di poterlo calmare con qualche carezza. Gettò via la pezzola e gli pose le braccia al collo; le maniche larghe le lasciavano del tutto nude ed egli le sentì scottanti di febbre. La guardò meglio. Ella aveva gli occhi lucenti e le guance arrossate. Un sospetto orribile gli passò per la mente: -Tu sei stata or ora con un altro – urlò. Ella lo lasciò con una protesta relativamente debole: – Sei matto! – disse, e non molto offesa, si mise a spiegargli le ragioni del suo ritardo. La signora Deluigi non l’aveva lasciata andar via, ella aveva dovuto correre a casa per vestirsi a quel modo, e là le era stato imposto dalla madre di fare un lavoro prima di uscire. Erano ragioni sufficienti a spiegare dieci ore di ritardo.

Ma Emilio non aveva più alcun dubbio: ella usciva dalle braccia di un altro e a lui balenò alla mente – unica via per salvarsi da tanta immondizia – un atto d’energia sovrumana. Non doveva entrare in quel letto; doveva respingerla subito e non rivederla mai più. Ma egli ora sapeva che cosa significasse mai più: un dolore, un rimpianto continuo, delle ore interminabili d’agitazione, altre di sogni dolorosi e poi d’inerzia, il vuoto, la morte della fantasia e del desiderio, uno stato più doloroso di qualunque altro. Ne ebbe paura. L’attirò a sé e, per unica vendetta, le disse: – Io non valgo mica molto più di te.

Fu lei allora a ribellarsi e, svincolandosi, disse decisa: – Non ho mai permesso a nessuno di trattarmi così. Io me ne vado. Volle riprendere la pezzuola ma egli glielo impedì. La baciò e l’abbracciò pregandola di restare; non ebbe la vigliaccheria di rinnegare le sue parole con una dichiarazione, ma vedendola tanto decisa, egli, ch’era ancora sconvolto solo per aver pensata quella risoluzione, l’ammirò. Sentendosi perfettamente riabilitata ella cedette. Per gradi però. Restò dichiarando che sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero visti e, soltanto al momento di dividersi, acconsentì a stabilire come al solito il giorno e l’ora del prossimo appuntamento. Sentendosi appieno vittoriosa ella non aveva ricordato più l’origine della disputa e non aveva tentato di farlo ricredere.

Egli sperava ancora sempre che il possesso così pieno avrebbe finito col togliere violenza al suo sentimento. Invece egli andava ai ritrovi sempre con la medesima violenza di desiderio e nella sua mente non s’acquietava la tendenza a ricostruire l’Ange che veniva distrutto ogni giorno. Il malcontento lo spingeva a rifugiarsi nei sogni più dolci. Angiolina quindi gli dava tutto: il possesso della sua carne e – essendone essa l’origine – anche il sogno del poeta.

Tanto di frequente la sognò infermiera che tentò di continuare il sogno anche accanto a lei. Stringendosela fra le braccia col violento desiderio del sognatore, le disse, – Vorrei ammalarmi per essere curato da te. – Oh, sarebbe bellissimo! – disse ella che in certe ore si sarebbe prestata a tutti i suoi desiderî. Naturalmente bastò quella frase per annullare qualunque sogno.

Una sera, trovandosi con Angiolina, egli ebbe un’idea che per quella sera alleviò potentemente il suo stato d’animo. Fu un sogno ch’egli ebbe e sviluppò accanto ad Angiolina e ad onta di questa vicinanza. Essi erano tanto infelici causa il turpe stato sociale vigente. Egli ne era tanto convinto che poté pensare di essere persino capace di un’azione eroica pel trionfo del socialismo. Tutta la loro sventura era originata dalla loro povertà. Il suo discorso presupponeva ch’ella si vendesse e ch’era spinta a farlo dalla povertà della sua famiglia Ma essa non se ne accorse e le sue parole le sembravano una carezza eppoi pareva egli volesse biasimare solo se stesso.

In una società differente egli avrebbe potuto farla sua, pubblicamente, subito, senza imporle prima di darsi al sarto. Faceva proprie anche le menzogne di Angiolina, pur di renderla dolce e indurla a entrare in quelle idee, per sognare in due. Ella volle delle spiegazioni ed egli gliele diede beato di poter dar voce al sogno. Le raccontò quale lotta immane fosse scoppiata fra poveri e ricchi, i più e i meno. Non v’era da dubitare dell’esito della lotta il quale avrebbe apportato la libertà a tutti, anche a loro. Le parlò dell’annientamento del capitale e del mite breve lavoro che sarebbe stato l’obbligo d’ognuno. La donna uguale all’uomo e l’amore un dono reciproco.

 

Ella chiese delle altre spiegazioni che già turbarono il sogno, e poi concluse: – Se tutto venisse diviso, non ci sarebbe niente per nessuno. Gli operai sono degl’invidiosi, dei fannulloni, e non riusciranno a niente. – Egli tentò di discutere ma poi vi rinunziò. La figlia del popolo teneva dalla parte dei ricchi.

A lui parve ch’ella non gli avesse mai chiesto del denaro. Quello ch’egli non poté negare neppure a se stesso era che, quando, consapevole dei suoi bisogni, egli l’abituò a ricevere del denaro in luogo di oggetti o di dolciumi, ella se ne dimostrò riconoscentissima, pur affettando sempre una grande vergogna. E questa riconoscenza si rinnovava egualmente vivace ad ogni dono ch’egli le faceva; perciò, quando egli sentiva il bisogno di trovarla dolce e amorosa, sapeva molto bene come avesse da comportarsi. Tale bisogno era sentito da lui tanto spesso che la sua borsa ne fu presto esausta. Accettando, ella non dimenticò mai di protestare e visto che l’accettazione non importava mai più di un semplice atto, quello di stendere la mano, mentre la protesta era fatta con molte parole, a lui rimasero impresse più queste che quello, e continuò a ritenere che anche senza di quei doni la loro relazione sarebbe rimasta la stessa.

La penuria nella famiglia d’Angiolina doveva essere grande. Ella aveva fatto ogni sforzo per impedirgli di venire a sorprenderla nella sua casa. Quelle visite inaspettate non le garbavano punto. Ma le minacce di non farsi trovare, di farlo gettare giù dalle scale dalla madre, dai fratelli o dal padre, non approdarono a nulla. Era certo che quando egli aveva tempo, di sera, sul tardi, capitava a trovarla, e ciò sebbene molto spesso venisse a tenere compagnia alla vecchia Zarri. Erano i sogni che lo trascinavano lassù. Egli sperava sempre di trovare Angiolina mutata e veniva frettoloso a cancellare l’impressione – sempre triste – dell’ultimo ritrovo

Allora fece un ultimo tentativo. Gli raccontò che il padre non le dava pace e che le era riuscito con grande fatica di trattenerlo dal fargli una scenataccia Tutto quello che aveva potuto ottenere era la promessa che si sarebbe astenuto dall’usare violenze, ma le sue ragioni il vecchio voleva dirgliele. Cinque minuti dopo entrò il vecchio Zarri. Ad Emilio parve che il vecchio, un uomo lungo, magro, tentennante, che appena entrato provò il bisogno di sedere, sapesse che il suo ingresso era stato annunziato Le sue prime parole parvero preparate per imporre. Parlava lento e impacciato, ma imperioso. Disse che credeva di poter dirigere e proteggere quella sua figliuola che ne aveva bisogno, perché se non avesse avuto lui non avrebbe avuto nessuno, visto che i fratelli – egli non voleva dirne male – degli affari di famiglia non si occupavano. Angiolina parve si compiacesse grandemente del lungo esordio; tutt’ad un tratto disse che andava a vestirsi nella stanza accanto e uscì.

Il vecchio perdette subito ogni imponenza. Guardò dietro alla figliuola portando al naso una presa di tabacco; fece una lunga pausa durante la quale Emilio pensava le parole con cui avrebbe risposto alle accuse che gli sarebbero mosse. Il padre di Angiolina guardò poi dinanzi a sé, e, lungamente, le proprie scarpe. Fu proprio per caso che alzò gli occhi e rivide Emilio. Ah, sì— fece come persona sorpresa di ritrovare un oggetto smarrito. Ripeté l’esordio ma con meno forza; era molto distratto. Poi si concentrò, con uno sforzo evidente, per continuare. Guardò Emilio a più riprese sempre evitando d’incontrarne lo sguardo e non parlò che quando si risolse a guardare la tabacchiera consunta che teneva fra le mani.

C’era della gente cattiva che perseguitava la famiglia Zarri. Angiolina non glielo aveva detto? Aveva fatto male. C’era dunque della gente che stava sempre sull’attenti per cogliere in fallo la famiglia Zarri. Bisognava guardarsi! Il signor Brentani non conosceva Tic? Se lo avesse conosciuto non sarebbe venuto tanto spesso in quella casa.

Qui la predica degenerò in un’ammonizione ad Emilio, a non esporsi – così giovine – a tanti pericoli. Quando il vecchio alzò gli occhi per guardare di nuovo Emilio, questi indovinò. In quegli occhi stranamente azzurri sotto a una canizie argentea, brillava la follia.

Questa volta il pazzo seppe sostenere lo sguardo d’Emilio. Sta bene che Tic abita lassù ad Opicina ma di lassù manda le percosse alle gambe e alle schiene dei suoi nemici. Foscamente aggiunse: – Qui in casa bastona persino la piccola. – La famiglia aveva un altro nemico: Toc. Quello abitava in mezzo alla città. Non bastonava, ma faceva di peggio. Aveva portato via alla famiglia tutti i mestieri, tutto il denaro, tutto il pane.

Al colmo del furore, il vecchio gridava. Venne Angiolina la quale indovinò subito di che cosa si trattasse. – Vattene – disse al padre con grande malumore e lo spinse fuori.

Il vecchio Zarri si fermò sulla soglia, esitante: – Egli – disse accennando ad Emilio – non sapeva nulla né di Tic né di Toc.

– Glielo racconterò io – disse Angiolina, ridendo ora di cuore. Poi gridò: – Mamma vieni a prendere papà. – Chiuse la porta.

Emilio, terrorizzato dagli occhi pazzi che lo avevano guardato sì a lungo: – E ammalato? – domandò.

– Oh – fece Angiolina con disdegno – è un poltrone che non vuole lavorare. Da una parte c’è Tic, dall’altra Toc e così egli non esce di casa e fa sgobbare noialtre donne. – Tutt’ad un tratto rise sgangheratamente, e gli raccontò che tutta la famiglia per compiacere al vecchio, fingeva di sentire le legnate che pervenivano alla casa da parte di Tic. Anni prima, quando la fissazione del vecchio era appena nata, essi stavano in un quinto piano al Lazzaretto Vecchio, e Tic stava al Campo Marzio e Toc in Corso. Cambiarono di casa sperando che in tutt’altra regione della città il vecchio avrebbe di nuovo osato di andare sulla via, ma ecco che subito Tic va a stare a Opicina e Toc in via Stadion.

Lasciandosi baciare ella disse: – L’hai scampata bella. Guai a te se egli, giusto in quel momento, non si fosse ricordato dei suoi nemici.

Così divenivano sempre più intimi. Egli aveva oramai scoperto tutti i misteri di quella casa. Anch’ella sentiva che nulla in lei poteva più ripugnare ad Emilio ed una volta ebbe una bellissima espressione: – A te racconto tutto come a un fratello. – Lo sentiva ben suo, e se anche non ne abusava, perché non era del suo carattere di gioire della forza, di usarne per provarla, ma bensì di goderne per vivere meglio e più lieta, abbandonò ogni riguardo. Giungeva in ritardo agli appuntamenti quantunque lo trovasse ogni volta con gli occhi fuori dalla testa, febbricitante, violento. Divenne sempre più rozza. Quando era stanca delle sue carezze lo respingeva con violenza tanto ch’egli, ridendo, le disse di temere che prima o poi ella l’avrebbe bastonato.

Non poté accertarsene, ma gli parve che Angiolina e la Paracci, la donna che gli dava a fitto quella stanza, si conoscessero. La vecchia guardava Angiolina con una certa aria materna, ne ammirava i capelli biondi e i begli occhi. Angiolina poi diceva bensì che l’aveva conosciuta in quei giorni, ma tradì di conoscerne la casa, ogni più recondito suo angolo. Una sera, in cui ella arrivò più tardi del solito, la Paracci li sentì litigare e intervenne risolutamente a favore di Angiolina. – Come si fa a rimbrottare a quel modo quest’angelo? – Angiolina che non rifiutava omaggi da qualunque parte venissero, stette a udirla, subito sorridente: – Senti? Dovresti imparare. Egli stava a udire infatti, stupefatto dalla volgarità della donna amata.

Convinto oramai di non poterla elevare in alcun modo, sentiva talvolta, violentissimo, il bisogno di scendere a lei, al di sotto di lei. Una sera ella lo respingeva. S’era confessata e per quel giorno non voleva peccare. Egli ebbe meno vivo il desiderio di possederla che di essere, almeno una volta, più rozzo di lei. La costrinse violentemente, lottando fino all’ultimo. Quando, senza fiato, cominciava a pentirsi di tanta brutalità, ebbe il conforto di un’occhiata d’ammirazione d’Angiolina. Per tutta quella sera ella fu ben sua, la femmina conquistata che ama il padrone. Egli si propose di procurarsi, nel modo stesso, delle altre serate simili, ma non seppe farlo. Era difficile trovare una seconda volta l’occasione d’apparire brutale e violento ad Angiolina.

XI

Era proprio stabilito dal destino che il Balli dovesse sempre intervenire a rendere più dolorosa la situazione di Emilio in faccia ad Angiolina. Erano da lungo tempo d’accordo che l’amante di Emilio avrebbe dovuto posare allo scultore. Per incominciare il lavoro mancava solo che una buona volta Emilio si ricordasse d’avvisarne Angiolina.

Poiché era facile capire il motivo di tanta smemoratezza, Stefano si propose di non parlarne più. Per il momento gli sembrava di non poter fare altro, tranne la figura immaginata con Angiolina e, solo per passare il tempo, compiacendosi unicamente di quell’idea, impiantò i puntelli e li coperse d’argilla segnando la figura nuda. Avvolse il tutto in stracci bagnati, e pensò: – Un lenzuolo mortuario. – Ogni giorno guardava quel nudo, lo sognava vestito, lo ricopriva poi dei suoi stracci e lo bagnava con cura.

I due amici non si spiegarono in proposito. Tentando d’arrivare al suo scopo senza fare una domanda formale, una sera il Balli disse ad Emilio: – Non so più lavorare. Dispererei, se non avessi nella mente quella figura.

– Mi sono dimenticato di nuovo di parlarne ad Angiolina, disse Emilio senza però curarsi di fingere la sorpresa di chi s’accorge di un’involontaria mancanza. – Sai che fare? Quando la vedi, parlagliene tu; vedrai come s’affretterà a compiacerti.

C’era tanta amarezza in quest’ultima frase che al Balli fece compassione, e per allora non ne parlò più. Egli stesso sapeva che il suo intervento fra i due amanti non era stato molto felice e non voleva più ingerirsi nelle loro faccende. Non poteva cacciarsi fra di loro come aveva fatto ingenuamente alcuni mesi prima per il bene dell’amico, e la guarigione d’Emilio doveva essere opera del tempo. La sua bella immagine sognata tanto, l’unica che per il momento avrebbe potuto spingerlo al lavoro, veniva ammazzata dall’incurabile bestialità d’Emilio.

Tentò di compiere l’opera con un’altra modella, ma dopo alcune sedute, disgustatosene, lasciò il lavoro in asso. Veramente questi abbandoni bruschi d’idee vagheggiate a lungo s’erano verificati spesso nella sua carriera. Questa volta, e nessuno avrebbe potuto dire se a torto o a ragione, egli ne dava la colpa ad Emilio. Non v’era alcun dubbio che se avesse avuta la modella sognata, avrebbe potuto riprendere con tutta lena il lavoro fosse pure per distruggerlo qualche settimana dopo.

Si trattenne dal raccontare tutto ciò all’amico e fu l’ultimo riguardo che gli usò. Non bisognava far capire ad Emilio quanto importante fosse divenuta anche per lui Angiolina; sarebbe equivalso ad inasprire la malattia del disgraziato. Chi avrebbe potuto far capire ad Emilio che la fantasia dell’artista s’era fermata su quell’oggetto, proprio perché in tanta purezza di linee ci aveva scoperta un’espressione indefinibile, non creata da quelle linee, qualche cosa di volgare e di goffo, che un Raffaello avrebbe soppresso e ch’egli tanto volentieri avrebbe copiato, rilevato?

Quando camminavano insieme per le vie egli non parlava del proprio desiderio, ma Emilio non aveva alcun vantaggio del riguardo usatogli perché quel desiderio, che l’amico non osava esprimere, gli pareva anche più grande di quanto fosse e ne era geloso, dolorosamente. Oramai il Balli desiderava Angiolina quanto egli stesso. Come si sarebbe difeso da un nemico simile?

Non poté difendersene! Aveva già rivelato la propria gelosia, ma non voleva parlarne; sarebbe stato troppo sciocco mostrarsi geloso del Balli dopo di aver sopportata la concorrenza dell’ombrellaio. Questo pudore lo rese inerme. Un giorno Stefano andò a prenderlo in ufficio, come faceva di spesso, per accompagnarlo a casa. Camminavano lungo la riva del mare, quando videro avanzarsi verso di loro Angiolina tutta illuminata dal sole meridiano che le giocava nei riccioli biondi, e sulla faccia un po’ contratta dallo sforzo di tener aperti gli occhi in tanta luce. Così il Balli si trovava a faccia a faccia col suo capolavoro ch’egli, dimenticando il contorno, vide in tutti i dettagli. Ella s’avanzava con quel suo passo fermo che non toglieva niente della sua grazia alla figura eretta. La gioventù incarnata e vestita si sarebbe mossa così alla luce del sole

 

– Oh, senti! – esclamò Stefano deciso. – Per una tua insulsa gelosia non impedirmi di fare un capolavoro. – Angiolina rispose al loro saluto, come da qualche tempo usava, molto seria; tutta la sua serietà si concentrava nel saluto e anche quella manifestazione di serietà doveva esserle stata insegnata da poco. Il Balli s’era fermato e aspettava un segno di consenso dall’altro. – Sia pure – disse Emilio, macchinalmente, esitante e sempre sperando che Stefano s’accorgesse con quanto dolore egli acconsentiva. Ma il Balli non vedeva altro che il suo modello il quale stava sfuggendogli; lo rincorse subito non appena Emilio ebbe detto la parola di consenso.

Così il Balli e Angiolina si ritrovarono. Quando Emilio li raggiunse li trovò già perfettamente d’accordo. Il Balli non aveva fatto complimenti e Angiolina, rossa dal piacere, aveva subito chiesto quando dovesse venire. L’indomani alle nove. Ella assentì con l’osservazione che, per fortuna, il giorno appresso non aveva da andare dai Deluigi. – Sarò puntuale – promise congedandosi. Ella aveva l’abitudine di dire molte parole, quelle che prima le venivano alle labbra, e non pensò che quella promessa d’essere puntuale, poteva dispiacere ad Emilio perché con essa contrapponeva gli appuntamenti col Balli a quelli con Emilio.

Commessa la colpa, il Balli tornò col pensiero all’amico. Fu subito conscio di avergli fatto torto, e ne domandò affettuosamente scusa ad Emilio: – Non potevo farne a meno, quantunque sapessi di farti dispiacere. Io non voglio approfittare del fatto che tu fingi indifferenza. So che soffri. Hai torto, torto, ma so che neppure io non ho avuto ragione

Con un sorriso forzato Emilio rispose: – Allora non ho proprio niente da dirti.

Il Balli trovò ch’Emilio era con lui anche più duro di quanto egli sapesse di meritare: – Così per farmi scusare da te non mi resta altro che avvertire Angiolina di non venire? Ebbene, se lo desideri faccio anche questo.

La proposta non era da accettare perché quella povera donna – Emilio la conosceva come se l’avesse fatta lui – amava molto chi la respingeva ed egli non voleva le fossero date nuove ragioni d’amare il Balli. – No – dichiarò più mitemente. – Lasciamo le cose come stanno. Io m’affido in te, anzi – aggiunse ridendo – soltanto in te.

Con grande calore Stefano assicurò che egli meritava quella fiducia. Promise, giurò che il giorno in cui si fosse accorto d’aver dimenticata, nelle sedute con Angiolina, anche per un solo istante, l’arte, avrebbe messa la fanciulla alla porta. Emilio ebbe la debolezza di accettare la promessa, anzi di farsela ripetere.

Il giorno appresso il Balli venne da Emilio a fargli il rapporto della prima seduta. Aveva lavorato da indemoniato e non poteva lagnarsi d’Angiolina, la quale nella sua posa non troppo comoda, aveva resistito quanto aveva potuto. Le mancava ancora di comprendere la posa, ma il Balli non disperava di riuscirci. Era più innamorato che mai del proprio concetto. Per otto o nove sedute non avrebbe avuto neppure il tempo di scambiare una parola con Angiolina. – Quando avrò delle esitazioni per cui mi toccherà arrestarmi, ti prometto che non si ciarlerà che di te; scommetto che finirà coll’amarti di cuore

– Tutt’al più, e non sarà male, parlandole di me l’annoierai tanto, che non amerà neppur te.

Per quei due giorni egli non poté vedere Angiolina e perciò si trovò con lei soltanto il pomeriggio della domenica, nello studio del Balli. Li trovò in pieno lavoro.

Lo studio non era altro che un vasto magazzino Gli era stata lasciata tutta la ruvidezza della sua antica destinazione perché il Balli non lo voleva elegante. Il pavimento lastricato era rimasto sconnesso come quando ci venivano deposte le balle di merci; soltanto nel mezzo, d’inverno, un grande tappeto salvava i piedi dello scultore dal contatto del suolo. Le pareti erano rozzamente imbiancate e qua e là, su dei sostegni, riposavano delle figurine di argilla o di gesso, non certo per esservi ammirate, ché erano accatastate piuttosto che aggruppate. Le comodità non v’erano però trascurate. La temperatura v’era resa mite da una stufa piramidale. Una grande quantità di sedie e poltrone di varia forma e grandezza toglievano allo studio, con le loro forme eleganti, il suo carattere di magazzino. Erano differenti l’una dall’altra perché il Balli diceva di aver sempre bisogno di riposare in conformità al sogno che gli occupava la mente. Anzi trovava sempre che gli mancavano ancora delle forme di sedie di cui sentiva talvolta d’aver bisogno. Angiolina posava su un trespolo munito di soffici cuscini bianchi; in piedi, su una sedia accanto ad un altro trespolo girevole, il Balli lavorava alla sua figura appena abbozzata.

Vedendo Emilio saltò giù per salutarlo vivacemente. Anche Angiolina abbandonò la posa e sedette sui cuscini candidi; pareva riposasse in un nido. Salutò Emilio con grande gentilezza. Da tanto tempo non si vedevano. Lo trovava un po’ pallido. Era forse indisposto? Il Brentani non seppe esserle grato di tante manifestazioni d’affetto. Ella voleva probabilmente dimostrargli gratitudine perché la lasciava tanto sola col Balli.

Stefano s’era soffermato dinanzi al proprio lavoro. – Ti piace? – Emilio guardò. Su una base informe poggiava inginocchiata una figura quasi umana, le due spalle vestite, evidentemente quelle di Angiolina nella forma e nell’atteggiamento. Fatta fino a quel punto la figura aveva qualche cosa di tragico. Pareva fosse sepolta nell’argilla, facesse degli sforzi immani per liberarsene. Anche la testa su cui qualche colpo di pollice aveva incavate le tempie e lisciata la fronte, appariva come un teschio coperto accuratamente di terra acciocché non gridasse. – Vedi come la cosa sorge – disse lo scultore, gettando un’occhiata, una carezza su tutto il lavoro. – L’idea c’è già tutta; è la forma che manca. – Ma l’idea non la vedeva che lui. Qualche cosa di fine, quasi inafferrabile. Doveva sorgere da quell’argilla una prece, la prece di una persona che per un istante crede e che forse non avrebbe creduto mai più. Il Balli spiegò anche la forma che voleva. La base sarebbe rimasta grezza e la figura sarebbe andata affinandosi in su fino ai capelli, che dovevano essere disposti con la civetteria del parrucchiere più modernamente raffinato. I capelli erano destinati a negare la preghiera che la faccia avrebbe espressa.

Angiolina ritornò alla posa e il Balli al lavoro. Per una mezz’ora ella posò con tutta coscienziosità, figurandosi di pregare, come le aveva ordinato lo scultore, per avere un’espressione di supplice nella faccia. A Stefano quell’espressione non piaceva, e non visto che da Emilio, ebbe un gesto di esecrazione. Quella beghina non sapeva pregare. Piuttosto che rivolgerli piamente, ella lanciava con impertinenza gli occhi in alto. Civettava col Signor Iddio.

La stanchezza d’Angiolina cominciò a tradirsi nel respiro affannoso. Il Balli non se ne accorgeva affatto, essendo giunto a un punto importante del suo lavoro: piegava quella povera testa sulla spalla destra, senza pietà. – Molto stanca? – chiese Emilio ad Angiolina e, poiché il Balli non lo vedeva, le accarezzò e sorresse il mento. Ella mosse le labbra per baciare quella mano, ma non mutò di posizione. – Posso resistere ancora per un poco. – Oh, come era ammirabile, sacrificandosi a quel modo per un’opera d’arte. Se egli fosse stato l’artista, avrebbe considerato quel sacrificio come una prova d’amore.