Za darmo

La coscienza di Zeno

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Mi duole di dover dire tanto male del mio povero amico, ma devo essere veritiero anche per intendere meglio me stesso. Ricordo quanta intelligenza egli impiegò per ingombrare il nostro piccolo ufficio di fantasticherie che c’impedivano ogni sana operosità. A un dato punto, per iniziare il lavoro in commissione, lanciammo per posta un migliaio di circolari. Guido fece questa riflessione:

– Quanti francobolli risparmiati se prima di spedire queste circolari sapessimo quali di esse raggiungeranno le persone che le considereranno!

La frase sola non avrebbe impedito nulla, ma egli se ne compiacque troppo e cominciò a gettare per aria le circolari chiuse per spedire solo quelle che cadevano dalla parte dell’indirizzo. L’esperimento ricordava qualche cosa di simile ch’io avevo fatto in passato, ma tuttavia a me sembra di non essere mai arrivato a tale punto. Naturalmente io non raccolsi né spedii le circolari da lui eliminate, perché non potevo essere certo che non ci fosse stata realmente una seria ispirazione che lo avesse diretto in quell’eliminazione e dovessi perciò non sprecare i francobolli che toccava di pagare a lui.

La mia buona sorte m’impedì di venir rovinato da Guido, ma la stessa buona sorte m’impedì pure di prendere una parte troppo attiva nei suoi affari. Lo dico ad alta voce perché altri a Trieste pensa che non sia stato così: durante il tempo che passai con lui, non intervenni mai con un’ispirazione qualunque, del genere di quelle della frutta secca. Mai lo spinsi ad un affare e mai gliene impedii alcuno. Ero l’ammonitore! Lo spingevo all’attività, all’oculatezza. Ma non avrei osato di gettare sul tavolo da giuoco i suoi denari.

Accanto a lui io mi feci molto inerte. Cercai di metterlo sulla retta via e forse non ci riuscii per troppa inerzia. Del resto, quando due si trovano insieme, non spetta loro di decidere chi dei due deve essere Don Quijote e chi Sancio Panza. Egli faceva l’affare ed io da buon Sancio lo seguivo lento lento nei miei libri dopo di averlo esaminato e criticato come dovevo.

Il commercio in commissione fiascheggiò completamente, ma senz’arrecarci alcun danno. Il solo che c’inviò delle merci fu un cartolaio di Vienna, e una parte di quegli oggetti di cancelleria furono venduti da Luciano che pian pianino arrivò a sapere quanta commissione ci spettasse e se la fece concedere quasi tutta da Guido. Guido finì con l’accondiscendere perché erano piccolezze, eppoi perché il primo affare liquidato così doveva portare fortuna. Questo primo affare ci lasciò lo strascico nel camerino dei ripostigli di una quantità di oggetti di cancelleria che dovemmo pagare e tenere. Ne avevamo per il consumo di molti anni di una casa commerciale ben più attiva della nostra.

Per un paio di mesi quel piccolo ufficio luminoso, nel centro della città, fu per noi un ritrovo gradevole. Vi si lavorava ben poco (io credo vi si abbiano conchiusi in tutto due affari in imballaggi usati vuoti per i quali nello stesso giorno s’incontrarono da noi la domanda e l’offerta e da cui ricavammo un piccolo utile) e vi si chiacchierava molto, da buoni ragazzi, anche con quell’innocente di Luciano, il quale, quando si parlava d’affari, s’agitava come altri della sua età quando sente dire di donne.

Allora m’era facile di divertirmi da innocente con gl’innocenti perché non avevo ancora perduta Carla. E di quell’epoca ricordo con piacere la giornata intera. La sera, a casa, avevo molte cose da raccontare ad Augusta e potevo dirle tutte quelle che si riferivano all’ufficio, senz’alcun’eccezione e senza dover aggiungervi qualche cosa per falsarle.

Non mi preoccupava affatto quando Augusta impensierita esclamava:

– Ma quando comincerete a guadagnare dei denari?

Denari? A quelli non ci avevamo ancora neppur pensato. Noi sapevamo che prima bisognava fermarsi a guardare, studiare le merci, il paese e anche il nostro Hinterland. Non s’improvvisava mica così una casa di commercio! E anche Augusta s’acquietava alle mie spiegazioni.

Poi nel nostro ufficio fu ammesso un ospite molto rumoroso. Un cane da caccia di pochi mesi, agitato e invadente. Guido lo amava molto e aveva organizzato per lui un approvvigionamento regolare di latte e di carne. Quando non avevo da fare né da pensare, lo vedevo anch’io con piacere saltellare per l’ufficio in quei quattro o cinque atteggiamenti che noi sappiamo interpretare dal cane e che ce lo rendono tanto caro. Ma non mi pareva fosse al suo posto con noi, così rumoroso e sudicio! Per me la presenza di quel cane nel nostro ufficio, fu la prima prova che Guido fornì di non essere degno di dirigere una casa commerciale. Ciò provava un’assenza assoluta di serietà. Tentai di spiegargli che il cane non poteva promovere i nostri affari, ma non ebbi il coraggio di insistere ed egli con una risposta qualunque mi fece tacere.

Perciò mi parve di dover dedicarmi io all’educazione di quel mio collega e gli assestai con grande voluttà qualche calcio quando Guido non c’era. Il cane guaiva e dapprima ritornava a me credendo io l’avessi urtato per errore. Ma un secondo calcio gli spiegava meglio il primo ed allora egli si rincantucciava e finché Guido non arrivava nell’ufficio non v’era pace. Mi pentii poi di aver imperversato su di un innocente, ma troppo tardi. Colmai il cane di gentilezze, ma esso non si fidò più di me ed in presenza di Guido diede chiaro segno della sua antipatia.

– Strano! – disse Guido. – Fortuna che so chi tu sia, perché altrimenti diffiderei di te. I cani di solito non sbagliano con le loro antipatie.

Per far dileguare i sospetti di Guido, quasi quasi gli avrei raccontato in quale modo io avevo saputo conquistarmi l’antipatia del cane.

Ebbi presto una scaramuccia con Guido su una questione che veramente non avrebbe dovuto importarmi tanto. Occupatosi con tanta passione di contabilità, egli si mise in capo di mettere le sue spese di famiglia nel conto delle spese generali. Dopo di essermi consultato con l’Olivi, io mi vi opposi e difesi gl’interessi del vecchio Cada. Non era infatti possibile di mettere in quel conto tutto ciò che spendeva Guido, Ada eppoi anche quello che costarono i due gemelli quando nacquero. Erano delle spese che incombevano personalmente a Guido e non alla ditta. Poi, in compenso, suggerii di scrivere a Buenos Aires per accordarsi per un salario per Guido. Il padre si rifiutò di concederlo osservando che Guido percepiva già il settantacinque per cento dei benefici mentre a lui non toccava che il residuo. A me parve una risposta giusta mentre Guido si mise a scrivere delle lunghe lettere al padre per discutere la questione da un punto di vista superiore, come egli diceva. Buenos Aires era molto lontana e così la corrispondenza durò finché durò la nostra casa. Ma io vinsi il mio punto! Il conto spese generali rimase puro e non fu inquinato dalle spese particolari di Guido e il capitale fu compromesso intero dal crollo della casa, ma proprio intero senza deduzioni.

La quinta persona ammessa nel nostro ufficio (calcolando anche Argo) fu Carmen. Io assistetti alla sua assunzione all’impiego. Ero venuto all’ufficio dopo di essere stato da Carla e mi sentivo molto sereno, di quella serenità delle otto di mattina del principe di Taillerand. Nell’oscuro corridoio vidi una signorina, e Luciano mi disse ch’essa voleva parlare con Guido in persona. Io avevo qualche cosa da fare e la pregai di attendere là fuori. Guido entrò poco dopo nella nostra stanza evidentemente senz’aver vista la signorina e Luciano venne a porgergli il biglietto di presentazione di cui la signorina era fornita. Guido lo lesse eppoi:

– No! – disse seccamente levandosi la giubba perché faceva caldo. Ma subito dopo ebbe un’esitazione:

– Bisognerà che le parli per riguardo a chi la raccomanda.

La fece entrare ed io la guardai soltanto quando vidi che Guido s’era gettato con un balzo sulla propria giubba per indossarla e s’era rivolto alla fanciulla con la bella faccia bruna arrossata e gli occhi scintillanti.

Ora io sono sicuro di aver viste delle fanciulle altrettanto belle di Carmen, ma non di una bellezza tanto aggressiva cioè tanto evidente alla prima occhiata. Di solito le donne prima si creano per il proprio desiderio mentre questa non aveva il bisogno di tale prima fase. Guardandola sorrisi e anche risi. Mi pareva simile ad un industriale che corresse per il mondo gridando l’eccellenza dei suoi prodotti. Si presentava per avere un impiego, ma io avrei avuto voglia d’intervenire nelle trattative per domandarle: – Quale impiego? Per un’alcova?

Io vidi che la sua faccia non era tinta, ma i colori ne erano tanto precisi, tanto azzurro il candore e tanto simile a quello delle frutta mature il rossore, che l’artificio vi era simulato alla perfezione. I suoi grandi occhi bruni rifrangevano una tale quantità di luce che ogni loro movimento aveva una grande importanza.

Guido l’aveva fatta sedere ed essa modestamente guardava la punta del proprio ombrellino o più probabilmente il proprio stivaletto verniciato. Quand’egli le parlò, essa levò rapidamente gli occhi e glieli rivolse sulla faccia così luminosi, che il mio povero principale ne fu proprio abbattuto. Era vestita modestamente, ma ciò non le giovava perché ogni modestia sul suo corpo s’annullava. Solo gli stivaletti erano di lusso e ricordavano un po’ la carta bianchissima che Velasquez metteva sotto ai piedi dei suoi modelli. Anche Velasquez, per staccare Carmen dall’ambiente, l’avrebbe poggiata sul nero di lacca.

Nella mia serenità io stetti a sentire curiosamente, Guido le domandò se conoscesse la stenografia. Essa confessò di non conoscerla affatto, ma aggiunse che aveva una grande pratica di scrivere sotto dettatura. Curioso! Quella figura alta, slanciata e tanto armonica, produceva una voce roca. Non seppi celare la mia sorpresa:

– È raffreddata? – le domandai.

– No! – mi rispose – Perché me lo domanda? – e fu tanto sorpresa che l’occhiata in cui m’avvolse fu anche più intensa. Non sapeva di avere una voce tanto stonata ed io dovetti supporre che anche il suo piccolo orecchio non fosse tanto perfetto come appariva.

 

Guido le domandò se conoscesse l’inglese, il francese o il tedesco. Egli le lasciava la scelta visto che noi ancora non sapevamo di quale lingua avremmo avuto bisogno. Carmen rispose che sapeva un po’ di tedesco, ma pochissimo.

Guido non prendeva mai alcuna decisione senza ragionare:

– Noi non abbiamo bisogno del tedesco perché lo so molto bene io.

La signorina aspettava la parola decisiva che a me pareva fosse già stata detta e, per affrettarla, raccontò ch’essa nel nuovo impiego cercava anche la possibilità d’impratichirsi e che perciò si sarebbe contentata di un salario ben modesto.

Uno dei primi effetti della bellezza femminile su di un uomo è quello di levargli l’avarizia. Guido si strinse nelle spalle per significare che di cose tanto insignificanti non si occupava, le stabilì il salario ch’essa riconoscente accettò e le raccomandò con grande serietà di studiare la stenografia. Questa raccomandazione egli la fece solo per riguardo a me col quale s’era compromesso dichiarando che il primo impiegato ch’egli avrebbe assunto sarebbe stato uno stenografo perfetto.

Quella sera stessa raccontai del mio nuovo collega a mia moglie. Essa ne fu oltremodo spiacente. Senza ch’io gliel’avessi detto, essa pensò subito che Guido avesse assunta al suo servizio quella fanciulla per farsene un’amante. Io discussi con lei e, pur ammettendo che Guido si comportava un poco da innamorato, asserii ch’egli avrebbe potuto riaversi da quel colpo di fulmine senza che vi fossero delle conseguenze. La fanciulla, in complesso, pareva dabbene.

Pochi giorni dopo – non so se per caso – ebbimo in ufficio la visita di Ada. Guido non c’era ancora ed essa si fermò con me per un istante per domandarmi a che ora sarebbe venuto. Poi, con passo esitante, si recò nella stanza vicina ove in quel momento non c’erano che Carmen e Luciano. Carmen stava esercitandosi alla macchina da scrivere, tutt’assorta a rintracciarvi le singole lettere. Alzò i begli occhi per guardare Ada che la fissava. Come erano differenti le due donne! Si somigliavano un poco, ma Carmen pareva un’Ada caricata. Io pensai che veramente l’una che pur era vestita più riccamente, fosse fatta per divenire una moglie o una madre mentre all’altra, ad onta che in quell’istante portasse un modesto grembiule per non insudiciare il suo vestito alla macchina, toccava la parte di amante. Non so se a questo mondo vi sieno dei dotti che saprebbero dire perché il bellissimo occhio di Ada adunasse meno luce di quello di Carmen e fosse perciò un vero organo per guardare le cose e le persone e non per sbalordirle. Così Carmen ne sopportò benissimo l’occhiata sdegnosa, ma anche curiosa; v’era dentro fors’anche un poco d’invidia, o ve la misi io?

Questa fu l’ultima volta in cui io vidi Ada ancora bella, proprio quale s’era rifiutata a me. Poi venne la sua disastrosa gravidanza e i due gemelli ebbero bisogno dell’intervento del chirurgo per venire all’aria. Subito dopo fu colpita da quella malattia che le tolse ogni bellezza. Perciò io ricordo tanto bene quella visita. Ma la ricordo anche perché in quel momento tutta la mia simpatia andò a lei dalla bellezza mite e modesta abbattuta da quella tanto differente dell’altra. Io non amavo certo Carmen e non ne sapevo altro che i magnifici occhi, gli splendidi colori, poi la voce roca e infine il modo – di cui essa era innocente – come era stata ammessa lì dentro. Volli invece proprio bene ad Ada in quel momento, ed è una cosa ben strana di voler bene ad una donna che si desiderò ardentemente, che non si ebbe e di cui ora non importa niente. In complesso si arriva così alle stesse condizioni in cui ci si troverebbe qualora essa avesse aderito ai nostri desiderii, ed è sorprendente di poter constatare ancora una volta come certe cose per cui viviamo hanno una ben piccola importanza.

Volli abbreviarle il dolore e la precedetti all’altra stanza. Guido, che subito dopo entrò, si fece molto rosso alla vista della moglie. Ada gli disse una ragione plausibilissima per cui era venuta, ma subito dopo e in atto di lasciarci, gli domandò:

– Avete assunto in ufficio una nuova impiegata?

– Si! – disse Guido e, per celare la sua confusione, non trovò di meglio che d’interrompersi per domandare se qualcuno fosse venuto a cercarlo. Poi, avuta la mia risposta negativa, ebbe ancora una smorfia di dispiacere come se avesse sperata una visita importante, mentre io sapevo che non aspettavamo proprio nessuno e appena allora disse ad Ada con un aspetto d’indifferenza che finalmente gli riuscì di assumere:

– Avevamo bisogno di uno stenografo!

Io mi divertii moltissimo all’udire ch’egli sbagliava anche il sesso della persona di cui aveva bisogno.

La venuta di Carmen apportò una grande vita nel nostro ufficio. Non parlo della vivacità che veniva dai suoi occhi, dalla gentile sua figura e dai colori della sua faccia; parlo proprio di affari. Guido ebbe una spinta al lavoro dalla presenza di quella fanciulla. Prima di tutto volle dimostrare a me e a tutti gli altri che la nuova impiegata era necessaria, ed ogni giorno inventava dei nuovi lavori cui partecipava anche lui. Poi, per lungo tempo, la sua attività fu un mezzo per corteggiare più efficacemente la fanciulla. Raggiunse un’efficacia inaudita. Doveva insegnarle la forma della lettera ch’egli dettava e correggerle l’ortografia di molte moltissime parole. Lo fece sempre dolcemente. Qualunque compenso da parte della fanciulla non sarebbe stato eccessivo.

Pochi degli affari inventati da lui in amore gli diedero un frutto. Una volta lavorò lungamente intorno ad un affare in un articolo che risultò essere proibito. Ci trovammo ad un certo punto di fronte ad un uomo dalla faccia contratta dal dolore sui cui calli noi, senza saperlo, eravamo montati. Voleva sapere quest’uomo che cosa c’entrassimo noi in quell’articolo e supponeva fossimo stati mandatarii di potenti concorrenti esteri. La prima volta era sconvolto e temeva il peggio. Quando indovinò la nostra ingenuità, ci rise in faccia e ci assicurò che non saremmo riusciti a nulla. Finì ch’ebbe ragione, ma prima che ci acconciassimo alla condanna durò non poco tempo e da Carmen furono scritte non poche lettere. Trovammo che l’articolo era irraggiungibile perché circondato da trincee. Io non dissi nulla di tale affare ad Augusta, ma essa ne parlò a me perché Guido ne aveva parlato ad Ada per dimostrarle quanto da fare avesse il nostro stenografo. Ma l’affare che non fu fatto, rimase molto importante per Guido. Ne parlò ogni giorno. Era convinto che in nessun’altra città del mondo sarebbe avvenuta una cosa simile. Il nostro ambiente commerciale era miserabile ed ogni commerciante intraprendente vi veniva strangolato. Così toccava anche a lui

Nella folle, disordinata sequela di affari che in quell’epoca passò per le nostre mani, ve ne fu uno che addirittura ce le bruciò. Non lo cercammo noi; fu l’affare che ci assaltò. Vi fummo cacciati dentro da un dalmata, certo Tacich, il cui padre aveva lavorato all’Argentina col padre di Guido. Venne dapprima a trovarci solo per avere da noi delle informazioni commerciali che noi seppimo procurargli.

Il Tacich era un bellissimo giovine, anzi troppo bello. Alto, forte, aveva una faccia olivastra in cui si fondevano in un’intonazione deliziosa l’azzurro fosco degli occhi, le lunghe sopracciglia e i brevi folti mustacchi bruni dai riflessi aurei. Insomma v’era in lui un tale intonato studio di colore che a me parve l’uomo nato per accompagnarsi a Carmen. Anche a lui parve così e venne a trovarci ogni giorno. La conversazione nel nostro ufficio durava ogni giorno per delle ore, ma non fu mai noiosa. I due uomini lottavano per conquistare la donna e, come tutti gli animali in amore, sfoggiavano le loro migliori qualità. Guido era un po’ trattenuto dal fatto che il dalmata veniva a trovarlo anche a casa sua e conosceva perciò Ada, ma niente poteva più danneggiarlo agli occhi di Carmen; io, che conoscevo tanto bene quegli occhi, lo seppi subito, mentre il Tacich lo apprese molto più tardi e, per avere più frequente il pretesto di vederla, comperò da noi anziché dal fabbricante, varii vagoni di sapone che pagò per qualche percento più cari. Poi, sempre per amore, ci ficcò in quell’affare disastroso.

Suo padre aveva osservato che, costantemente, in certe stagioni, il solfato di rame saliva e in altre calava di prezzo. Decise perciò di comperarne per speculazione nel momento più favorevole, in Inghilterra, una sessantina di tonnellate. Noi parlammo a lungo di quell’affare ed anzi lo preparammo mettendoci in relazione con una casa inglese. Poi il padre telegrafò al figlio che il buon momento gli sembrava giunto e disse anche il prezzo al quale sarebbe stato disposto di concludere l’affare. Il Tacich, innamorato com’era, corse da noi e ci consegnò l’affare avendone in premio una bella, grande, carezzevole occhiata da Carmen. Il povero dalmata incassò riconoscente l’occhiata non sapendo ch’era una manifestazione d’amore per Guido.

Mi ricordo la tranquillità e la sicurezza con cui Guido s’accinse all’affare che infatti si presentava facilissimo perché in Inghilterra si poteva fissare la merce per consegna al nostro porto donde veniva ceduta, senz’esserne rimossa, al nostro compratore. Egli fissò esattamente l’importo che voleva guadagnare e col mio aiuto stabilì quale limite dovesse stabilire al nostro amico inglese per l’acquisto. Con l’aiuto del vocabolario combinammo insieme il dispaccio in inglese. Una volta speditolo, Guido si fregò le mani e si mise a calcolare quante corone gli sarebbero piovute in cassa in premio di quella lieve e breve fatica. Per tenersi favorevoli gli dei, trovò giusto di promettere una piccola provvigione a me e quindi, con qualche malizia, anche a Carmen che all’affare aveva collaborato con i suoi occhi. Ambedue volemmo rifiutare, ma egli ci supplicò di fingere almeno di accettare. Temeva altrimenti il nostro malocchio ed io lo compiacqui subito per rassicurarlo. Sapevo con certezza matematica che da me non potevano venirgli che i migliori auguri, ma capivo ch’egli potesse dubitarne. Quaggiù quando non ci vogliamo male ci amiamo tutti, ma però i nostri vivi desideri accompagnano solo gli affari cui partecipiamo.

L’affare fu vagliato in tutti i sensi ed anzi ricordo che Guido calcolò persino per quanti mesi, col beneficio che ne avrebbe tratto, avrebbe potuto mantenere la sua famiglia e l’ufficio, cioè le sue due famiglie, come egli diceva talvolta o i suoi due uffici come diceva tale altra quando si seccava molto in casa. Fu vagliato troppo, quell’affare, e non riuscì forse per questo. Da Londra capitò un breve dispaccio: Notato eppoi l’indicazione del prezzo di quel giorno del solfato, più elevato di molto di quello concessoci dal nostro compratore. Addio affare. Il Tacich ne fu informato e poco dopo abbandonò Trieste.

In quell’epoca io cessai per circa un mese di frequentare l’ufficio e perciò, per le mie mani, non passò una lettera che giunse alla ditta, dall’aspetto inoffensivo, ma che doveva avere gravi conseguenze per Guido. Con essa, quella ditta inglese ci confermava il suo dispaccio e finiva con l’informarci che notava il nostro ordine valido sino a revoca. Guido non ci pensò affatto di dare tale revoca ed io, quando ritornai in ufficio, non ricordai più quell’affare. Così varii mesi appresso, una sera, Guido venne a cercarmi a casa con un dispaccio ch’egli non intendeva e che credeva fosse stato indirizzato a noi per errore ad onta che portasse chiaro il nostro indirizzo telegrafico che io avevo fatto regolarmente notare non appena fummo installati nel nostro ufficio. Il dispaccio conteneva solo tre parole: 60 tons settled, ed io lo intesi subito, ciò che non era difficile perché quello del solfato di rame era il solo affare grosso che avessimo trattato. Glielo dissi: si capiva da quel dispaccio che il prezzo, che noi avevamo fissato per l’esecuzione del nostro ordine, era stato raggiunto e che perciò eravamo felici proprietari di sessanta tonnellate di solfato di rame.

Guido protestò:

– Come si può pensare ch’io accetti tanto in ritardo l’esecuzione del mio ordine?

Pensai subito io che nel nostro ufficio dovesse esserci la lettera di conferma del primo dispaccio, mentre Guido non ricordava di averla ricevuta. Lui, inquieto, propose di correre subito all’ufficio per vedere se ci fosse, ciò che mi fu molto gradito perché mi seccava quella discussione dinanzi ad Augusta la quale ignorava che io per un mese non m’ero fatto vedere in ufficio.

Corremmo all’ufficio. Guido era tanto dispiacente di vedersi costretto a quel primo grande affare che, per esimersene, sarebbe corso fino a Londra. Aprimmo l’ufficio; poi, a tastoni nell’oscurità, trovammo la via alla nostra stanza e raggiungemmo il gas, per accenderlo. Allora la lettera fu subito trovata ed era fatta come io l’avevo supposta; c’informava cioè che il nostro ordine valido sino a revoca era stato eseguito.

 

Guido guardò la lettera con la fronte contratta non so se dal dispiacere o dallo sforzo di voler annientare col suo sguardo quanto si annunciava esistente con tanta semplicità di parola.

– E pensare – osservò – che sarebbe bastato di scrivere due parole per risparmiarsi un danno simile.

Non era certo un rimprovero diretto a me perché io ero stato assente dall’ufficio e, per quanto avessi saputo trovare subito la lettera sapendo ove doveva trovarsi, prima di allora non l’avevo mai vista. Ma per nettarmi più radicalmente da ogni rimprovero, lo rivolsi deciso a lui:

– Durante la mia assenza avresti pur dovuto leggere accuratamente tutte le lettere!

La fronte di Guido si spianò. Alzò le spalle e mormorò:

– Può ancora finire coll’essere una fortuna quest’affare.

Poco dopo mi lasciò ed io ritornai a casa mia. Ma il Tacich ebbe ragione: in certe stagioni il solfato di rame andava giù, giù, ogni giorno più giù e noi avevamo nell’esecuzione del nostro ordine e nella immediata impossibilità di cedere la merce a quel prezzo ad altri, l’opportunità di studiare tutto il fenomeno. La nostra perdita aumentò. Il primo giorno Guido mi domandò consiglio. Avrebbe potuto vendere con una perdita piccola in confronto di quella che dovette sopportare poi. Io non volli dare dei consigli, ma non trascurai di ricordargli la convinzione del Tacich secondo la quale il ribasso avrebbe dovuto continuare per oltre cinque mesi. Guido rise:

– Adesso non mi mancherebbe altro che farmi dirigere nei miei affari da un provinciale!

Ricordo che tentai pure di correggerlo, dicendogli che quel provinciale da molti anni passava il suo tempo nella piccola cittadina dalmata a guardare il solfato di rame. Io non posso avere alcun rimorso per la perdita che Guido subì in quell’affare. Se mi avesse ascoltato gli sarebbe stata risparmiata.

Più tardi discutemmo l’affare del solfato di rame con un agente, un uomo piccolo, grassoccio, vivo e accorto, che ci biasimò di aver fatto quell’acquisto, ma che non sembrava di dividere l’opinione del Tacich. Secondo lui il solfato di rame, per quanto facesse un mercato a sé, pur risentiva la fluttuazione del prezzo del metallo. Guido da quell’intervista acquistò una certa sicurezza. Pregò l’agente di tenerlo informato di ogni movimento nel prezzo; avrebbe aspettato volendo vendere non soltanto senza perdita, ma con un piccolo utile. L’agente rise discretamente eppoi nel corso del discorso disse una parola ch’io notai perché mi parve molto vera:

– Curioso come a questo mondo vi sia poca gente che si rassegni a perdite piccole; sono le grandi che inducono immediatamente alla grande rassegnazione.

Guido non ne fece caso. Io ammirai però anche lui, perché all’agente non raccontò per quale via noi fossimo arrivati a quell’acquisto. Glielo dissi ed egli ne menò vanto. Avrebbe temuto, mi disse, di screditare noi e anche la nostra merce raccontando la storia di quell’acquisto.

Poi, per parecchio tempo, non parlammo più del solfato, finché cioè non venne da Londra una lettera con la quale ci si invitava al pagamento e a dare istruzioni per la spedizione. Ricevere, immagazzinare sessanta tonnellate! A Guido cominciò a girare la testa. Facemmo i calcoli di quanto avremmo speso per conservare tale merce per varii mesi. Una somma enorme! Io non dissi niente, ma il sensale che volontieri avrebbe vista la merce arrivare a Trieste perché allora prima o poi avrebbe avuto lui l’incarico di venderla, fece osservare a Guido che quella somma che a lui pareva enorme, non era gran cosa se espressa in «percenti» sul valore della merce.

Guido si mise a ridere perché l’osservazione gli pareva strana:

– Io non ho mica soli cento chili di solfato; ne ho sessanta tonnellate, purtroppo!

Egli avrebbe finito col lasciarsi convincere dal calcolo dell’agente, evidentemente giusto, visto che con un piccolo movimento in sù del prezzo, le spese sarebbero state coperte ad usura, se in quel momento non fosse stato arrestato da una sua cosidetta ispirazione. Quando gli avveniva di avere un’idea commerciale proprio sua, egli ne era addirittura allucinato e non c’era posto nella sua mente per altre considerazioni. Ecco la sua idea: la merce gli era stata venduta franco Trieste da gente che doveva pagarne il trasporto dall’Inghilterra. Se egli ora avesse ceduta la merce ai suoi stessi venditori che avrebbero perciò risparmiate le spese per tale trasporto, egli avrebbe potuto fruire di un prezzo ben più vantaggioso di quello che gli veniva offerto a Trieste. La cosa non era tanto vera, ma, per fargli piacere, nessuno la discusse. Una volta liquidata la faccenda, egli ebbe un sorriso un po’ amarognolo sulla sua faccia che allora parve proprio di pensatore pessimista e disse:

– Non ne parliamo più. La lezione fu alquanto cara; bisogna ora saperne approfittare.

Invece se ne parlò ancora. Egli non ebbe mai più quella sua bella sicurezza nel rifiutare degli affari e, quando alla fine d’anno gli feci vedere quanti denari avevamo perduti, egli mormorò:

– Quel maledetto solfato di rame fu la mia disgrazia! Sentivo sempre il bisogno di rimettermi di quella perdita!

La mia assenza dall’ufficio era stato provocato dall’abbandono di Carla. Non avevo più potuto assistere agli amori di Carmen e Guido. Essi si guardavano, si sorridevano, in mia presenza. Me ne andai sdegnosamente con una risoluzione che presi di sera al momento di chiudere l’ufficio e senza dirne nulla a nessuno. M’aspettavo che Guido m’avrebbe chiesta la ragione di tale abbandono e mi preparavo allora di dargli il fatto suo. Io potevo essere molto severo con lui visto ch’egli non sapeva assolutamente nulla delle mie gite al Giardino Pubblico.

Era una specie di gelosia la mia, perché Carmen m’appariva quale la Carla di Guido, una Carla più mite e sottomessa. Anche con la seconda donna egli era stato più fortunato di me, come con la prima. Ma forse – e ciò mi forniva la ragione ad un nuovo rimprovero per lui – egli doveva anche tale fortuna a quelle sue qualità ch’io gl’invidiavo e che continuavo a considerare quali inferiori: parallelamente alla sua sicurezza sul violino, correva anche la sua disinvoltura nella vita. Io oramai sapevo con certezza di aver sacrificata Carla ad Augusta. Quando riandavo col pensiero a quei due anni di felicità che Carla m’aveva concessi, m’era difficile d’intendere come essa – essendo fatta nel modo che ora sapevo – avesse potuto sopportarmi per tanto tempo. Non l’avevo io offesa ogni giorno per amore ad Augusta? Di Guido invece sapevo con certezza ch’egli avrebbe saputo godersi Carmen senza neppur ricordarsi di Ada. Nel suo animo disinvolto due donne non erano di troppo. Confrontandomi con lui, a me pareva di essere addirittura innocente. Io avevo sposata Augusta senz’amore e tuttavia non sapevo tradirla senza soffrirne. Forse anche lui aveva sposata Ada senz’amarla, ma – per quanto ora di Ada non m’importasse affatto – ricordavo l’amore ch’essa mi aveva ispirato e mi pareva che poiché io l’avevo amata tanto, al suo posto sarei stato anche più delicato di quanto non lo fossi ora al mio.