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La coscienza di Zeno

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Essa mi porse la mano ch’io strinsi dicendole:

– Ti ringrazio di essere venuta!

Come sarebbe stato più decoroso per me se durante tutto quel colloquio io fossi rimasto così mite!

Carla pareva commossa e, quando parlava, una specie di convulso le faceva tremare le labbra. Talvolta anche nel cantare quel movimento delle labbra le impediva la nota. Mi disse:

– Vorrei compiacerti e accettare da te questo denaro, ma non posso, assolutamente non posso. Te ne prego, riprendilo.

Vedendola vicina alle lacrime, subito la compiacqui prendendo la busta che mi ritrovai poi in mano, lungo tempo dopo di aver abbandonato quel luogo.

– Veramente non ne vuoi più sapere di me?

Feci questa domanda non pensando ch’essa vi aveva risposto il giorno prima. Ma era possibile che, desiderabile come la vedevo, essa si contendesse a me?

– Zeno! – rispose la fanciulla con qualche dolcezza, – non avevamo noi promesso che non ci saremmo rivisti mai più? In seguito a quella nostra promessa ho assunti degl’impegni che somigliano a quelli che tu avevi già prima di conoscermi. Sono altrettanto sacri dei tuoi. Io spero che a quest’ora tua moglie si sarà accorta che sei tutto suo.

Nel suo pensiero continuava dunque ad avere importanza la bellezza di Ada. Se io fossi stato sicuro che il suo abbandono era causato da lei, avrei avuto il modo di correre al riparo. Le avrei fatto sapere che Ada non era mia moglie e le avrei fatto vedere Augusta col suo occhio sbilenco e la sua figura di balia sana. Ma non erano oramai più importanti gl’impegni presi da lei? Bisognava discutere quelli.

Cercai di parlare calmo mentre anche a me le labbra tremavano, ma dal desiderio. Le raccontai che ancora ella non sapeva quanto mia essa fosse e come non avesse più il diritto di disporre di sé. Nella mia testa si moveva la prova scientifica di quanto volevo dire, cioè quel celebre esperimento di Darwin su una cavalla araba, ma, grazie al Cielo, sono quasi sicuro di non averne parlato. Devo però aver parlato di bestie e della loro fedeltà fisica, in un balbettio senza senso. Abbandonai poi gli argomenti più difficili che non erano accessibili né a lei né a me in quel momento e dissi:

– Quali impegni puoi avere presi? E quale importanza possono avere in confronto a un affetto come quello che ci legò per più di un anno?

L’afferrai rudemente per la mano sentendo il bisogno di un atto energico, non trovando nessuna parola che sapesse supplirvi.

Essa si levò con tanta energia dalla mia stretta come se fosse stata la prima volta ch’io mi fossi permessa una cosa simile.

– Mai – disse con l’atteggiamento di chi giura – ho preso un impegno più sacro! L’ho preso con un uomo che a sua volta ne assunse uno identico verso di me.

Non v’era dubbio! Il sangue che le colorì improvvisamente le guancie vi era spinto dal rancore per l’uomo che verso di lei non aveva assunto alcun impegno. E si spiegò anche meglio:

– Ieri abbiamo camminato per le strade, uno a braccio dell’altra in compagnia di sua madre.

Era evidente che la mia donna correva via, sempre più lontano da me. Io le corsi dietro follemente, con certi salti simili a quelli di un cane cui venga conteso un saporito pezzo di carne. Ripresi la sua mano con violenza:

– Ebbene, – proposi – camminiamo così, tenendoci per mano, traverso tutta la città. In questa posizione insolita, per farci meglio osservare, passiamo la Corsia Stadion eppoi i volti di Chiozza e giù giù traverso il Corso fino a Sant’Andrea per ritornare alla camera nostra per tutt’altra parte, perché tutta la città ci veda.

Ecco che per la prima volta rinunziavo ad Augusta! E mi parve una liberazione perché era dessa che voleva togliermi Carla.

Essa si tolse di nuovo alla mia stretta e disse seccamente:

– Sarebbe circa la stessa via che abbiamo fatta noi ieri!

Saltai ancora:

– Ed egli sa, sa tutto? Sa che anche ieri fosti mia?

– Sì – essa disse con orgoglio. – Egli sa tutto, tutto.

Mi sentivo perduto e nella mia rabbia, simile al cane che, quando non può più raggiungere il boccone desiderato, addenta le vesti di chi glielo contende, dissi:

– Questo tuo sposo ha uno stomaco eccellente. Oggi digerisce me e domani potrà digerire tutto ciò che vorrai.

Non sentivo l’esatto suono delle mie parole. Sapevo di gridare dal dolore. Essa ebbe invece un’espressione d’indignazione di cui non avrei creduto capace il suo occhio bruno e mite di gazzella:

– A me lo dici? E perché non hai il coraggio di dirlo a lui?

Mi volse le spalle e con passo celere s’avviò verso l’uscita. Io già avevo rimorso delle parole dette, offuscato però dalla grande sorpresa che oramai mi fosse interdetto di trattare Carla con meno dolcezza. Quella mi teneva inchiodato al posto. La piccola figurina azzurra e bianca, con un passo breve e celere, raggiungeva già l’uscita, quando mi decisi di correrle dietro. Non sapevo quello che le avrei detto, ma era impossibile che ci si separasse così.

La fermai al portone di casa sua e le dissi solo sinceramente il grande dolore di quel momento:

– Ci separeremo proprio così, dopo tanto amore?

Essa procedette oltre senza rispondermi ed io la seguii anche sulle scale. Poi mi guardò con quel suo occhio nemico:

– Se lei vuol vedere il mio sposo, venga con me. Non lo sente? È lui che suona il piano.

Sentii appena allora le note sincopate del «Saluto» dello Schubert ridotto dal Liszt.

Quantunque dalla mia infanzia io non abbia maneggiata né una sciabola né un bastone, io non sono un uomo pauroso. Il grande desiderio che m’aveva commosso fino ad allora, era improvvisamente sparito. Del maschio non restava in me che la combattività. Avevo domandato imperiosamente una cosa che non mi competeva. Per diminuire il mio errore adesso bisognava battersi, perché altrimenti il ricordo di quella donna che minacciava di farmi punire dal suo sposo, sarebbe stato atroce.

– Ebbene! – le dissi. – Se lo permetti vengo con te.

Mi batteva il cuore non per paura, ma per il timore di non comportarmi bene.

Continuai a salire accanto a lei. Ma improvvisamente essa si fermò, s’appoggiò al muro e si mise a piangere senza parole. Lassù continuavano ad echeggiare le note del «Saluto» su quel pianoforte che io avevo pagato. Il pianto di Carla rese quel suono molto commovente.

– Io farò quello che vuoi! Vuoi che me ne vada? – domandai.

– Sì, – disse essa appena capace di articolare quella breve parola.

– Addio! – le dissi. – Giacché lo vuoi, addio per sempre!

Scesi lentamente le scale, fischiettando anch’io il «Saluto» di Schubert. Non so se sia stata un’illusione, ma a me parve ch’essa mi chiamasse:

– Zeno!

In quel momento essa avrebbe potuto chiamarmi anche con quello strano nome di Dario ch’essa sentiva quale un vezzeggiativo e non mi sarei fermato. Avevo un grande desiderio di andarmene e ritornavo anche una volta, puro, ad Augusta. Anche il cane cui a forza di pedate si impedisce l’approccio alla femmina, corre via purissimo, per il momento.

Quando il giorno dopo fui ridotto nuovamente allo stato in cui m’ero trovato al momento d’avviarmi al Giardino Pubblico, mi parve semplicemente di essere stato un vigliacco: essa m’aveva chiamato sebbene non col nome dell’amore, ed io non avevo risposto! Fu il primo giorno di dolore cui seguirono molti altri di desolazione amara. Non comprendendo più perché mi fossi allontanato così, mi attribuivo la colpa di aver avuto paura di quell’uomo o paura dello scandalo. Avrei ora nuovamente accettata qualunque compromissione, come quando avevo proposto a Carla quella lunga passeggiata traverso alla città. Avevo perduto un momento favorevole e sapevo benissimo che certe donne ne hanno per una volta sola. A me sarebbe bastata quella sola volta.

Decisi subito di scrivere a Carla. Non m’era possibile di lasciar trascorrere neppure un solo giorno di più senza fare un tentativo per riavvicinarmi a lei. Scrissi e riscrissi quella lettera per mettere in quelle poche parole tutto l’accorgimento di cui ero capace. La riscrissi tante volte anche perché lo scriverla era un grande conforto per me; era lo sfogo di cui abbisognavo. Le domandavo perdono per l’ira che le avevo dimostrata, asserendo che il grande mio amore abbisognava di tempo per calmarsi. Aggiungevo: «Ogni giorno che passa m’apporta un altro briciolo di calma» e scrissi questa frase tante volte sempre digrignando i denti. Poi le dicevo che non sapevo perdonarmi le parole che le avevo dirette e sentivo il bisogno di domandarle scusa. Io non potevo, purtroppo, offrirle quello che il Lali le offriva e di cui ella era tanto degna.

Io mi figuravo che la lettera avrebbe avuto un grande effetto. Giacché il Lali sapeva tutto, Carla gliel’avrebbe fatta vedere e per il Lali avrebbe potuto esser vantaggioso di avere un amico della mia qualità. Sognai persino che ci si sarebbe potuti avviare a una dolce vita a tre, perché il mio amore era tale che per il momento io avrei vista raddolcita la mia sorte se mi fosse stato permesso di fare anche solo la corte a Carla.

Il terzo giorno ricevetti da lei un breve biglietto. Non vi venivo invocato affatto né come Zeno né come Dario. Mi diceva soltanto: «Grazie! Sia anche lei felice con la consorte Sua, tanto degna di ogni bene!». Parlava di Ada, naturalmente.

Il momento favorevole non aveva continuato e dalle donne non continua mai se non lo si ferma prendendole per le treccie. Il mio desiderio si condensò in una bile furiosa. Non contro Augusta! L’animo mio era tanto pieno di Carla che ne avevo rimorso e mi costringevo con Augusta ad un sorriso ebete, stereotipato, che a lei pareva autentico.

Ma dovevo fare qualche cosa. Non potevo mica aspettare e soffrire così ogni giorno! Non volevo più scriverle. La carta scritta per le donne ha troppo poca importanza. Bisognava trovare di meglio.

 

Senza un proposito esatto, m’avviai di corsa al Giardino Pubblico. Poi, molto più lentamente, alla casa di Carla e, giunto a quel pianerottolo, bussai alla porta della cucina. Se ve n’era la possibilità, avrei evitato di vedere il Lali, ma non mi sarebbe dispiaciuto d’imbattermi in lui. Sarebbe stata la crisi di cui sentivo di aver bisogno.

La vecchia signora, come al solito, era al focolare su cui ardevano due grandi fuochi. Fu stupita al vedermi, ma poi rise da quella buona innocente ch’essa era. Mi disse:

– Mi fa piacere di vederla! Era tanto abituata lei di vederci ogni giorno, che si capisce non le riesca di evitarci del tutto.

Mi fu facile di farla ciarlare. Mi raccontò che gli amori di Carla con Vittorio erano grandi. Quel giorno lui e la madre venivano a desinare da loro. Aggiunse ridendo: – Presto egli finirà con l’indurla ad accompagnarlo persino alle tante lezioni di canto cui egli è obbligato ogni giorno. Non sanno restar divisi neppure per brevi istanti.

Sorrideva di quella felicità, maternamente. Mi raccontò che di lì a poche settimane si sarebbero sposati.

Avevo un cattivo sapore in bocca, e quasi mi sarei avviato alla porta per andarmene. Poi mi trattenni sperando che la ciarla della vecchia avrebbe potuto suggerirmi qualche buona idea o darmi qualche speranza. L’ultimo errore, ch’io avevo commesso con Carla, era stato proprio di correre via prima di avere studiato tutte le possibilità che potevano essermi offerte.

Per un istante credetti anche di avere la mia idea. Domandai alla vecchia se proprio avesse deciso di fare da serva alla figlia fino alla propria morte. Le dissi ch’io sapevo che Carla non era molto dolce con lei.

Essa continuò a lavorare assiduamente accanto al focolare, ma stava a sentirmi. Fu di un candore ch’io non meritavo. Si lagnò di Carla che perdeva la pazienza per cose da niente. Si scusava:

– Certamente io divento ogni giorno più vecchia e dimentico tutto. Non ne ho colpa!

Ma sperava che adesso le cose sarebbero andate meglio. I malumori di Carla sarebbero diminuiti, ora ch’era felice. Eppoi Vittorio, da bel principio, s’era messo a dimostrarle un grande rispetto. Infine, sempre intenta a foggiare certe forme con un intruglio di pasta e di frutta, aggiunse:

– È mio dovere di restare con mia figlia. Non si può fare altrimenti.

Con una certa ansia tentai di convincerla. Le dissi che poteva benissimo liberarsi da tanta schiavitù. Non c’ero io? Avrei continuato a passarle il mensile che fino ad allora avevo concesso a Carla. Io volevo oramai mantenere qualcuno! Volevo tenere con me la vecchia che mi pareva parte della figlia.

La vecchia mi manifestò la sua riconoscenza. Ammirava la mia bontà, ma si mise a ridere all’idea che le si potesse proporre di lasciare la figlia. Era una cosa che non si poteva pensare.

Ecco una dura parola che andò a battere contro la mia fronte che si curvò! Ritornavo a quella grande solitudine dove non c’era Carla e neppure visibile una via che conducesse a lei. Ricordo che feci un ultimo sforzo per illudermi che quella via potesse rimanere almeno segnata. Dissi alla vecchia, prima di andarmene, che poteva avvenire che di lì a qualche tempo essa fosse di altro umore. La pregavo allora di voler ricordarsi di me.

Uscendo da quella casa ero pieno di sdegno e di rancore, proprio come se fossi stato maltrattato quando m’accingevo ad una buona azione. Quella vecchia m’aveva proprio offeso con quel suo scoppio di riso. Lo sentivo risonare ancora nelle orecchie e significava non mica solo l’irrisione alla mia ultima proposta.

Non volli andare da Augusta in quello stato. Prevedevo il mio destino. Se fossi andato da lei, avrei finito col maltrattarla ed essa si sarebbe vendicata con quel suo grande pallore che mi faceva tanto male. Preferii di camminare le vie con un passo ritmico che avrebbe potuto avviare ad un poco d’ordine il mio animo. E infatti l’ordine venne! Cessai di lagnarmi del mio destino e vidi me stesso come se una grande luce m’avesse proiettato intero sul selciato che guardavo. Io non domandavo Carla, io volevo il suo abbraccio e preferibilmente il suo ultimo abbraccio. Una cosa ridicola! Mi ficcai i denti nelle labbra per gettare il dolore, cioè un poco di serietà, sulla mia ridicola immagine. Sapevo tutto di me stesso ed era imperdonabile che soffrissi tanto perché mi veniva offerta una opportunità unica di svezzamento. Carla non c’era più proprio come tante volte l’avevo desiderato.

Con tale chiarezza nell’animo, quando poco dopo, in una via eccentrica della città, cui ero pervenuto senz’alcun proposito, una donna imbellettata mi fece un cenno, io corsi senz’esitazione a lei.

Arrivai ben tardi a colazione, ma fui tanto dolce con Augusta ch’essa fu subito lieta. Non fui però capace di baciare la bimba mia e per varie ore non seppi neppure mangiare. Mi sentivo ben sudicio! Non finsi alcuna malattia come avevo fatto altre volte per celare e attenuare il delitto e il rimorso. Non mi pareva di poter trovare conforto in un proposito per l’avvenire, e per la prima volta non ne feci affatto. Occorsero molte ore per ritornare al ritmo solito che mi traeva dal fosco presente al luminoso avvenire.

Augusta s’accorse che c’era qualche cosa di nuovo in me. Ne rise:

– Con te non ci si può mai annoiare. Sei ogni giorno un uomo nuovo.

Sì! Quella donna del sobborgo non somigliava a nessun’altra e io l’avevo in me.

Passai anche il pomeriggio e la sera con Augusta. Essa era occupatissima ed io le stavo accanto inerte. Mi pareva di essere trasportato così, inerte, da una corrente, una corrente di acqua limpida: la vita onesta della mia casa.

M’abbandonavo a quella corrente che mi trasportava ma non mi nettava. Tutt’altro! Rilevava la mia sozzura.

Naturalmente nella lunga notte che seguì arrivai al proposito. Il primo fu il più ferreo. Mi sarei procurata un’arma per abbattermi subito quando mi fossi sorpreso avviato a quella parte della città. Mi fece bene quel proposito e mi mitigò.

Non gemetti mai nel mio letto ed anzi simulai il respiro regolare del dormente. Così ritornai all’antica idea di purificarmi con una confessione a mia moglie, proprio come quand’ero stato in procinto di tradirla con Carla. Ma era oramai una confessione ben difficile e non per la gravità del misfatto, ma per la complicazione da cui era risultato. Di fronte a un giudice quale era mia moglie, avrei pur dovuto accampare le circostanze attenuanti e queste sarebbero risultate solo se avessi potuto dire della violenza impensata con cui era stata spezzata la mia relazione con Carla. Ma allora sarebbe occorso di confessare anche quel tradimento oramai antico. Era più puro di questo, ma (chissà?) per una moglie più offensivo.

A forza di studiarmi arrivai a dei propositi sempre più ragionevoli. Pensai di evitare il ripetersi di un trascorso simile affrettandomi ad organizzare un’altra relazione quale quella che avevo perduta e di cui si vedeva avevo bisogno. Ma anche la donna nuova mi spaventava. Mille pericoli avrebbero insidiato me e la mia famigliuola. A questo mondo un’altra Carla non c’era, e con lacrime amarissime la rimpiansi, lei, la dolce, la buona, che aveva persino tentato di amare la donna ch’io amavo e che non vi era riuscita solo perché io le avevo messa dinanzi un’altra donna e proprio quella che non amavo affatto!

6. STORIA DI UN’ASSOCIAZIONE COMMERCIALE

Fu Guido che mi volle con lui nella sua nuova casa commerciale. Io morivo dalla voglia di farne parte, ma son sicuro di non avergli mai lasciato indovinare tale mio desiderio. Si capisce che, nella mia inerzia, la proposta di quell’attività in compagnia di un amico, mi fosse simpatica. Ma c’era dell’altro ancora. Io non avevo ancora abbandonata la speranza di poter divenire un buon negoziante e mi pareva più facile di progredire insegnando a Guido, che facendomi insegnare dall’Olivi. Tanti a questo mondo apprendono soltanto ascoltando se stessi o almeno non sanno apprendere ascoltando gli altri.

Per desiderare quell’associazione avevo anche altre ragioni. Io volevo essere utile a Guido! Prima di tutto gli volevo bene e benché egli volesse sembrare forte e sicuro, a me pareva un inerme abbisognante di una protezione che io volentieri volevo accordargli. Poi anche nella mia coscienza e non solo agli occhi di Augusta, mi pareva che più m’attaccavo a Guido e più chiara risultasse la mia assoluta indifferenza per Ada.

Insomma io non aspettavo che una parola di Guido per mettermi a sua disposizione, e questa parola non venne prima, solo perché egli non mi credeva tanto inclinato al commercio visto che non avevo voluto saperne di quello che mi veniva offerto in casa mia.

Un giorno mi disse:

– Io ho fatta tutta la Scuola Superiore di Commercio, ma pur mi dà un po’ di pensiero di dover regolare sanamente tutti quei particolari che garantiscono il sano funzionamento di una casa commerciale. Sta bene che il commerciante non ha bisogno di saper di nulla, perché se ha bisogno di una bilancia chiama il bilanciaio, se ha bisogno di legge invoca l’avvocato e per la propria contabilità si rivolge ad un contabile. Ma è ben duro dover consegnare da bel principio la propria contabilità ad un estraneo!

Fu la sua prima allusione chiara al suo proposito di tenermi con lui. Veramente io non avevo fatta altra pratica di contabilità che in quei pochi mesi in cui avevo tenuto il libro mastro per l’Olivi, ma ero certo d’essere il solo contabile che non fosse stato un estraneo per Guido.

Si parlò chiaramente per la prima volta dell’eventualità di una nostra associazione quand’egli andò a scegliere i mobili per il suo ufficio. Ordinò senz’altro due scrivanie per la stanza della direzione. Gli domandai arrossendo:

– Perché due?

Rispose:

– L’altra è per te.

Sentii per lui una tale riconoscenza che quasi l’avrei abbracciato.

Quando fummo usciti dalla bottega, Guido, un po’ imbarazzato, mi spiegò che ancora non era al caso di offrirmi una posizione in casa sua. Lasciava a mia disposizione quel posto nella sua stanza, solo per indurmi a venir a tenergli compagnia ogni qualvolta mi fosse piaciuto. Non voleva obbligarmi a nulla ed anche lui restava libero. Se il suo commercio fosse andato bene m’avrebbe concesso un posto nella direzione della sua casa.

Parlando del suo commercio, la bella faccia bruna di Guido si faceva molto seria. Pareva ch’egli avesse già pensate tutte le operazioni a cui voleva dedicarsi. Guardava lontano, al disopra della mia testa, ed io mi fidai tanto della serietà delle sue meditazioni, che mi volsi anch’io a guardare quello ch’egli vedeva, cioè quelle operazioni che dovevano portargli la fortuna. Egli non voleva camminare né la via percorsa con tanto successo da nostro suocero né quella della modestia e della sicurezza battuta dall’Olivi. Tutti costoro, per lui, erano dei commercianti all’antica. Bisognava seguire tutt’altra via, ed egli volentieri si associava a me perché mi riteneva non ancora rovinato dai vecchi.

Tutto ciò mi parve vero. Mi veniva regalato il mio primo successo commerciale ed arrossii dal piacere una seconda volta. Fu così e per la gratitudine della stima ch’egli m’aveva dimostrato, ch’io lavorai con lui e per lui, ora più ora meno intensamente, per ben due anni, senz’altro compenso che la gloria di quel posto nella stanza direttoriale. Fino ad allora fu quello certamente il più lungo periodo ch’io avessi dedicato ad una stessa occupazione. Non posso vantarmene solo perché tale mia attività non diede alcun frutto né a me né a Guido ed in commercio – tutti lo sanno – non si può giudicare che dal risultato.

Io conservai la fiducia d’esser avviato ad un grande commercio per circa tre mesi, il tempo occorrente a fondare quella ditta. Seppi che a me sarebbe toccato non solo di regolare dei particolari come la corrispondenza e la contabilità, ma anche di sorvegliare gli affari. Guido conservò tuttavia un grande ascendente su di me, tanto che avrebbe potuto anche rovinarmi e solo la mia buona fortuna glielo impedì. Bastava un suo cenno perché accorressi a lui. Ciò desta la mia stupefazione ancora adesso che ne scrivo, dopo che ho avuto il tempo di pensarci per tanta parte della mia vita.

E scrivo ancora di questi due anni perché il mio attaccamento a lui mi sembra una chiara manifestazione della mia malattia. Che ragione c’era di attaccarsi a lui per apprendere il grande commercio e subito dopo restare attaccato a lui per insegnargli quello piccolo? Che ragione c’era di sentirsi bene in quella posizione solo perché mi sembrava significasse una grande indifferenza per Ada la mia grande amicizia per Guido? Chi esigeva da me tutto questo? Non bastava a provare la nostra indifferenza reciproca l’esistenza di tutti quei marmocchi cui davamo assiduamente la vita? Io non volevo male a Guido, ma non sarebbe stato certamente l’amico che avrei liberamente prescelto. Ne vidi sempre tanto chiaramente i difetti che il suo pensiero spesso mi irritava, quando non mi commoveva qualche suo atto di debolezza. Per tanto tempo gli portai il sacrificio della mia libertà e mi lasciai trascinare da lui nelle posizioni più odiose solo per assisterlo! Una vera e propria manifestazione di malattia o di grande bontà, due qualità che stanno in rapporto molto intimo fra di loro.

 

Ciò rimane vero se anche col tempo fra noi si sviluppò un grande affetto come succede sempre fra gente dabbene che si vede ogni giorno. E fu un grande affetto il mio! Allorché egli scomparve, per lungo tempo sentii com’egli mi mancava ed anzi l’intera mia vita mi sembrò vuota poiché tanta parte ne era stata invasa da lui e dai suoi affari.

Mi viene da ridere al ricordare che subito, nel nostro primo affare, l’acquisto dei mobili, sbagliammo in certo qual modo un termine. Ci eravamo accollati i mobili e non ci decidevamo ancora a stabilire l’ufficio. Per la scelta dell’ufficio, fra me a Guido c’era una divergenza di opinione che la ritardò. Da mio suocero e dall’Olivi io avevo sempre visto che per rendere possibile la sorveglianza del magazzino, l’ufficio vi era contiguo. Guido protestava con una smorfia di disgusto:

– Quegli uffici triestini che puzzano di baccalà o di pellami! – Egli assicurava che avrebbe saputo organizzare la sorveglianza anche da lontano, ma intanto esitava. Un bel giorno il venditore dei mobili gl’intimò di ritirarli perché altrimenti li avrebbe gettati sulla strada e allora lui corse a stabilire un ufficio, l’ultimo che gli era stato offerto, privo di un magazzino nelle vicinanze, ma proprio al centro della città. È perciò che il magazzino non lo ebbimo mai più.

L’ufficio si componeva di due vaste stanze bene illuminate e di uno stanzino privo di finestre. Sulla porta di questo stanzino inabitabile fu appiccicato un bollettino con l’iscrizione in lettere lapidarie: Contabilità; poi, delle altre due porte l’una ebbe il bollettino: Cassa e l’altra fu addobbata dalla designazione tanto inglese di Privato. Anche Guido aveva studiato il commercio in Inghilterra e ne aveva riportate delle nozioni utili. La Cassa fu, come di dovere, fornita di una magnifica cassa di ferro e del cancello tradizionale. La nostra stanza Privata divenne una camera di lusso splendidamente tappezzata in un colore bruno vellutato e fornita delle due scrivanie, di un sofà e di varie comodissime poltrone.

Poi venne l’acquisto dei libri e dei varii utensili. Qui la mia parte di direttore fu indiscussa. Io ordinavo e le cose arrivavano. Invero avrei preferito di non essere seguito tanto prontamente, ma era mio dovere di dire tutte le cose che occorrevano in un ufficio. Allora credetti di scoprire la grande differenza che c’era fra me e Guido. Quanto sapevo io, mi serviva per parlare e a lui per agire. Quand’egli arrivava a sapere quello che sapevo io e non più, lui comperava. È vero che talvolta in commercio fu ben deciso a non far nulla, cioè a non comperare né vendere, ma anche questa mi parve una risoluzione di persona che crede di saper molto. Io sarei stato più dubbioso anche nell’inerzia.

In quegli acquisti fui molto prudente. Corsi dall’Olivi a prendere le misure per i copialettere e per i libri di contabilità. Poi il giovine Olivi m’aiutò ad aprire i libri e mi spiegò anche una volta la contabilità a partita doppia, tutta roba non difficile, ma che si dimentica tanto facilmente. Quando si sarebbe arrivati al bilancio, egli m’avrebbe spiegato anche quello.

Non sapevamo ancora quello che avremmo fatto in quell’ufficio (adesso so che neppure Guido allora lo sapeva) e si discuteva di tutta la nostra organizzazione. Ricordo che per giorni si parlò dove avremmo messi gli altri impiegati se di essi avessimo avuto bisogno. Guido suggeriva di metterne quanti potessero capirvi nella Cassa. Ma il piccolo Luciano, l’unico nostro impiegato per il momento, dichiarava che là dove c’era la cassa, non potessero esserci altre persone fuori di quelle addette alla cassa stessa. Era ben dura di dover accettare delle lezioni dal nostro galoppino! Io ebbi un’ispirazione:

– A me sembra di ricordare che in Inghilterra si paghi tutto con assegni.

Era una cosa che m’era stata detta a Trieste.

– Bravo! – disse Guido. – Anch’io lo ricordo ora. Curioso che l’avevo dimenticato!

Si mise a spiegare a Luciano in lungo e in largo come non si usasse più di maneggiare tanto denaro. Gli assegni giravano dall’uno all’altro in tutti gl’importi che si voleva. Fu una bella vittoria la nostra, e Luciano tacque.

Costui ebbe un grande vantaggio da quanto apprese da Guido. Il nostro galoppino è oggidì un commerciante di Trieste assai rispettato. Egli mi saluta ancora con una certa umiltà attenuata da un sorriso. Guido spendeva sempre una parte della giornata ad insegnare dapprima a Luciano, poi a me e quindi all’impiegata. Ricordo ch’egli aveva accarezzato per lungo tempo l’idea di fare il commercio in commissione per non arrischiare il proprio denaro. Spiegò l’essenza di tale commercio a me e, visto che evidentemente io capivo troppo presto, si mise a spiegarlo a Luciano che per molto tempo stette a sentirlo coi segni della più viva attenzione, i grandi occhi lucenti nella faccia ancora imberbe. Non si può dire che Guido abbia perduto il suo tempo, perché Luciano è il solo fra di noi che sia riuscito in quel genere di commercio. Eppoi si dice che la scienza è quella che vince!

Intanto da Buenos Aires arrivarono i pesos. Fu un affare serio! A me era parsa dapprima una cosa facile, ma invece il mercato di Trieste non era preparato a quella moneta esotica. Ebbimo di nuovo bisogno del giovine Olivi che c’insegnò il modo di realizzare quegli assegni. Poi, perché a un dato punto fummo lasciati soli, sembrando all’Olivi di averci condotti a buon porto, Guido si trovò per varii giorni con le tasche gonfie di corone, finché non trovammo la via ad una Banca che ci sbrigò dell’incomodo fardello consegnandoci un libretto assegni di cui presto apprendemmo a far uso.

Guido sentì il bisogno di dire all’Olivi che gli facilitava il cosidetto impianto:

– Le assicuro che non farò mai la concorrenza alla ditta del mio amico!

Ma il giovinotto che del commercio aveva un altro concetto, rispose:

– Magari ci fosse un maggior numero di contraenti nei nostri articoli. Si starebbe meglio!

Guido restò a bocca aperta, comprese troppo bene come gli succedeva sempre e si attaccò a quella teoria che propinò a chi la volle.

Ad onta della sua Scuola Superiore, Guido aveva un concetto poco preciso del dare e dell’avere. Stette a guardare con sorpresa come io costituii il Conto Capitale ed anche come registrai le spese. Poi fu tanto dotto di contabilità che quando gli si proponeva un affare, lo analizzava prima di tutto dal punto di vista contabile. Gli pareva addirittura che la conoscenza della contabilità conferisse al mondo un nuovo aspetto. Egli vedeva nascere debitori e creditori dappertutto anche quando due si picchiavano o si baciavano.

Si può dire ch’egli entrò in commercio armato della massima prudenza. Rifiutò una quantità di affari ed anzi per sei mesi li rifiutò tutti con l’aria tranquilla di chi sa meglio:

– No! – diceva, e il monosillabo pareva il risultato di un calcolo preciso anche quando si trattava di un articolo ch’egli non aveva mai visto. Ma tutta quella riflessione era stata sprecata a vedere come l’affare eppoi il suo eventuale beneficio o la sua perdita avrebbe dovuto passare traverso ad una contabilità. Era l’ultima cosa ch’egli avesse appreso e s’era sovrapposta a tutte le sue nozioni.