Za darmo

L'assassinio di Via Belpoggio

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La rassicurai dicendole che il caso era stato previsto. Il siero di cui avevo a servirmi doveva essere ben altrimenti elaborato di questo. Essa rimase commossa e per lungo tempo dubbiosa.

Ciò mi spinse ad un lavoro febbrile per toglierle al più presto tale dubbio. Preparai un coniglio con iniezioni seguite per vani giorni di dosi minime di Annina. Ne raccolsi il sangue che, sterilizzato, considerai quale il siero voluto. Feci tutto questo lavoro alla chetichella per poter sorprendere mia madre e così la memoranda giornata del due Giugno cominciò per me con un trionfo come non ne ebbi altro in mia vita.

Svegliai mia madre alla mattina per presentarle il frutto del mio lavoro. Essa si vestì in un attimo e mi seguì al laboratorio ove poco dopo un coniglio ricevette la prima iniezione che fosse stata fatta con l’Annina. Lasciato libero l’animale mi volsi a mia madre e le dissi additandoglielo sorridendo: – Ecco il primo longevo.

Mia madre guardava invece la povera bestiola aspettandosi di vederla morire. Il fatto ch’essa invece visse fece restare ammirata mia madre. Ciò che non era altro che l’applicazione al mio siero di un processo inventato da altri destò in lei la maggior meraviglia che non la mia stessa idea originale. Solo in questo si manifestò in lei la mancanza di preparazione scientifica.

Il coniglio cui era stata praticata l’iniezione presentò varii fenomeni. Cessò di mangiare per molte ore e quando mangiò, confrontato con gli altri conigli in mezzo ai quali l’avevo posto, appariva meno vorace e più lento nei movimenti. Salvo quando si scuoteva, era evidentemente colto da una specie di stupefazione e mamma l’osservò tanto ch’ebbe una frase forte e caratteristica che allora mi piacque immensamente: – Pare sepolto nel suo corpo!

Passammo la giornata intera ad osservare il comportamento dell’animale. Io potei constatare in esso un altro sintomo chiaro, evidente dell’efficacia dell’Annina: La manifestazione più chiara di vitalità in un coniglio è lo sbalzo con cui si sottrae ad una mano che voglia afferrarlo. Il mio faceva un balzo formidabile quando era minacciato la prima volta; era invece incapace di farne un secondo se minacciato immediatamente una seconda volta. Cadeva subito nel menzionato stato di stupefazione e si lasciava afferrare trasalendo inerte.

La sera, in stanza da pranzo, continuammo a chiacchierare dell’Annina. Ma mentre mia madre sempre più s’infiammava di ammirazione e di gioia, io mi sentii colto da un deciso senso di sconforto.

Dove m’avrebbero condotto le esperienze sugli animali? Anche arrivando a constatare in essi quel mutamento di vita consono – secondo le mie teorie – al loro mutamento fisico, non mi sarei trovato avanzato di molto. No! Solo la constatazione di un mutamento di tutta la funzione vitale – mutamento che in gran parte doveva sfuggire alla verifica mediante istrumenti – poteva giovarmi. Non ebbi esitazioni! Quella stessa sera avrei iniettato l’Annina nel mio proprio sangue. Rinacque in me la più viva speranza.

L’osservazione soggettiva non ha molti esempi in medicina ma ne ha tuttavia e dei più strani. Intanto il celebre medico napoletano che, affetto di nefrite, preconizzò per primo la cura lattea, ne intuì il benefico effetto dapprima soggettivamente e lo constatò poscia oggettivamente verificando la diminuzione dell’albuminuria. Tanto più l’esperimento soggettivo doveva dare un esito concludente qui ove si trattava di verificare un’intensità di vita che secondo me doveva diminuire prima di tutto nella vivacità del senso e del sentimento. Perché se l’Annina si dimostrava efficace come io speravo doveva diminuire quello che io chiamo l’attrito. Ora quale è il maggiore nostro attrito, quello che sperpera le nostre forze senza che noi ce ne accorgiamo? I nostri organi di percezione talvolta non bastano – lo riconosco – ma per lo più peccano per troppa sensibilità. Quante volte non vengono lesi dal suono e dalla luce? Dei sentimenti poi non parlo. Le gioie eccessive e gli eccessivi patemi d’animo decimano l’umanità.

Mamma parlava ora di cose di casa ed io non l’ascoltavo tutto immerso nel mio pensiero e agitato dalla ferrea decisione fatta.

Anticipai col pensiero l’effetto che avrebbe prodotto in me l’Annina. Pensai che l’Annina dovesse divenire il farmaco degl’intellettuali e non dei manuali. Ho già detto quello ch’io penso della necessità di un cuore manifestamente forte per il funzionamento del cervello. Soggiungo anzi che se l’uomo morente non sa comporre un poema o fare una scoperta, ciò dipende dal fatto che il cervello viene frastornato dagli altri organi i quali non vedendo arrivare il cibo ch’è loro indispensabile, soffrono e chiamano aiuto.

Poco dopo, chiusomi nella mia stanza, mi praticai un’iniezione di Annina. Ne adoperai una dose molto maggiore di quella usata pel coniglio che non mi parve abbastanza anninizzato. Devo confessarlo: Mettendo il liquido nel tubetto mi tremava la mano e il cuore mi batteva. Qualche cosa di simile deve aver provato quel coraggioso inventore che fece passare attraverso il suo corpo duemila volts di forza per provare l’innocuità della corrente alternata. Avrei forse agito più prudentemente rimandando l’esperimento al giorno seguente e notando nel frattempo la mia scoperta perché fosse sperimentata ulteriormente da qualche mio collega. Ma non seppi attendere. Presi un foglio di carta, lo posi sul tavolo da notte assieme ad una matita per fissare subito sulla carta le osservazioni fatte. Ho conservato quella carta e la trascrivo qui:

2 Giugno ore 10 ¼. L’iniezione è stata fatta. Una calma assoluta è nel mio organismo. Il mio polso è di 84 e si capisce. Mi stenderò subito sul letto per provare la mia temperatura. Il punto del braccio ove praticai l’iniezione mi brucia. L’assorbimento del siero procede lentamente. Ricordo che dopo l’assorbimento totale del siero il contegno del coniglio non ne accusò un effetto che oltre 10 m. dopo.

Ore 10 e 35 m. Sotto la cute non c’è più alcun residuo di siero. La mia temperatura è di 37 e 2. Mi sento agitato. Posso contare il battito del cuore nell’orecchio poggiato sul guanciale e arrivo a stabilire ch’è sincrono al polso. Una vera perturbazione nel circolo è esclusa.

Ore 10 e 40. Ho paura di perdere i sensi. Nel mio organismo scoppiò un temporale che mi pare vada ancora aumentando. Cominciò con un rumore assordante nelle orecchie, tale che mi parve esterno. Fu uno scoppio dapprima come se la pressione dell’aria all’esterno avesse fatto scoppiare di un sol colpo le otto lastre della mia stanza. E adesso continua assordante e minaccioso come se qualche cosa di macchinoso enorme s’avvicinasse, s’avvicinasse. Per capire che tutto quel frastuono è in me e non fuori di me mi basta di guardare la fiamma di gas accanto al mio letto la quale si riflette immota nello specchio di faccia. Ricordo con terrore la dose enorme di Annina che mi sono iniettata. Mi faccio dei rimproveri con mente lucidissima. Il professor Arrigoni aveva ragione di dire ch’io ero tale un geometra ch’ero capace di misurare un abisso in pochi istanti ma saltandoci dentro. Cesso di scrivere perché non reggo più. Che avessi la febbre? Voglio provare.

3 Giugno ore 9 ant. Non arrivai a provare il polso. Ora ammonta a 66; 18 pulsazioni meno di iersera. Rileggo la descrizione fatta del malessere da cui fui colto iersera. Come è imperfetta! Ma come completarla? La scienza medica è tanto povera di termini per esprimere delle impressioni soggettive! Il mio malessere andò talmente aumentando che finii coll’abbandonare la matita, mi stesi sul letto e perdetti i sensi. Ricordo che prima mormorai: Collasso! Infatti se un mio collega m’avesse visto allora, avrebbe detto così. Le mie labbra non trattenevano più la saliva che mi pioveva sulle guancie e m’accorsi che la mia respirazione era corta, precipitosa. La stanza m’appariva buia del tutto; sulla mia retina si rifletteva soltanto una piastrina gialla, la fiamma del gas, da cui non irradiava alcuna luce e penso che devo averla fissata continuamente perché ancora adesso ritrovo stampata in me la povera, misera cosa, così come era allora, fredda e piccola, l’unico mio punto di contatto col mondo esterno. Morivo! Laggiù, le mie gambe che mi parevano lontano, ben fuori dal letto, pesavano enormemente. Non ricordo altro! Questa mane mi accorsi che io debbo essere passato per una crisi di delirio perché le coperte ed il guanciale erano state smosse violentemente. Io non sono meravigliato di questo primo effetto dell’Annina. In certi organismi persino il primo effetto della morfina è violento. Pare che prima di adagiarsi all’effetto del farmaco l’organismo insorga. Quando ritornai in me ero mutato del tutto. Pareva fossi uscito da una crisi benigna di pneumonite; l’euforia era assoluta. Polmone e cuore dovevano lavorare perfettamente. Non sentivo né il mio respiro, né percepivo il battito del mio cuore. Sentivo ancora un certo peso alle gambe e mi parevano sempre lontane. Ciò significava senz’altro un indebolimento del senso. Debbo aver sorriso dalla soddisfazione di aver pensato tanto esattamente. Le mie previsioni si avveravano; il cervello sentiva meno degli altri organi l’effetto dell’Annina. Fu con isforzo che toccai con una mano i piedi nudi. Erano caldi ma subito pensai che con quell’atto non avevo fatto altro che verificare la differenza di temperatura fra le due estremità. Cercai il termometro che doveva trovarsi nel letto stesso e mi ferii la mano su una scheggia di vetro certo proveniente dall’istrumento che doveva essere andato in pezzi durante la crisi. Mi dispiacque; ma era poi certo che se l’avessi trovato intero ne avrei usato? E stetti immoto senza fare alcuno sforzo per liberare il mio letto dalle altre schegge di vetro che dovevano trovarvisi. Mi baloccai per lungo tempo immobile con le mie idee. Pensai: «Dovrei notare subito le mie osservazioni». Ero certo che avrei potuto balzare dal letto e correre a fare le mie annotazioni. Ma non mi mossi. Il pensiero rimase alle annotazioni e m’indugiai a pensare quello che avrei scritto se avessi scritto. Intanto avrei guardato l’orologio per stabilire quanto tempo avesse durato la mia incoscienza. Non lo guardai e mi limitai di constatare che la notte era alta. Sarebbe bastato che alzassi la testa oltre il tavolo di notte per vedere l’orologio ma io non feci un tale sforzo. Restai supino lieto di veder confermata una delle speranze poste nella mia Annina: Io non correvo disordinatamente all’azione e mi compiacqui all’idea che oramai io potevo misurare un abisso senza gettarmivi dentro. L’avrei poi misurato? Il pensiero delle annotazioni continuò a perseguitarmi e senz’alcuna idea di giungere a prendere la matita in mano analizzai i miei sensi. L’orecchio mi parve senz’altro indebolito. Esso sentiva debolmente i rumori che io producevo movendomi nel letto. Passai ad analizzare la mia forza visiva. Mentre al momento di svenire avevo visto la fiamma di gas quale un pezzetto di metallo lucido, ora scorgevo perfettamente che la fiamma era una fiamma ma pure mi parve non illuminasse a sufficienza la stanza. Guardando bene io vedevo un’irradiazione che si prolungava per pochi centimetri intorno alla fiamma aperta, ma non pareva che tutta la stanza fosse illuminata. Nello specchio la fiamma si rifletteva attenuata di poco. Guardai meglio e nell’immagine della fiamma nello specchio scopersi un lieve color azzurrognolo proveniente senza dubbio dalla lastra in cui si rifletteva. Stanco dello sforzo, chiusi gli occhi e m’adagiai. Oh! L’effetto dell’Annina superava ogni mia più ardita speranza! Lo sforzo che costava la percezione di un oggetto era largamente compensato dalla finezza della visione. Io potevo analizzare la più lieve sfumatura di colore. Fino ad allora una fiamma di gas era stata per me gialla con qualche riflesso rosso e azzurra alla base; stupidamente gialla insomma. Ora vedevo che non era così e scoprivo nella fiamma le gradazioni più varie di quei varii toni. Quella fiamma parlava! Rizzai un po’ il collo e fissai nell’oscurità tentando di vedere l’armadio che doveva trovarsi accanto allo specchio. Non subito percepii l’oggetto ma come per mia volontà il mio sguardo divenne più intenso, così l’oggetto – come se io l’avessi chiamato – uscì dalla penombra. L’armadio era una cassa antica, massiccia, barocca, d’epoca pessima, il suo lustro sbiadito, ai fianchi due colonnine pretensiose dai cui fastigi pendevano dei grappoli d’uva. Io non l’avevo mai visto così ed essendo un oggetto che avevo avuto accanto dalla mia prima infanzia fui stupito di scorgerlo sorprendentemente strano. Per la prima volta vidi in esso lo sforzo di linee fatto dal poco destro artista la cui arte barocca era stata resa meno ridicola dall’antichità. Io non ho natura di pittore, tutt’altro, e fui sorpreso dalla delicatezza e finezza del mio occhio. Come tutti gli oggetti sono belli se visti con una forza che superi almeno quella di chi li guarda per moversi fra di loro! Per quanto fosse la prima volta ch’io ricordassi d’aver guardato con tale occhio quell’armadio pure nella visione attuale s’addensarono tutte le visioni ch’io di quell’armadio avevo avuto dalla mia prima giovinezza. E lo rividi sempre fosco e oscuro quando abitava una stanza mai rischiarata nella nostra prima abitazione a Venezia; una sola finestra cui il sole non arrivava mai causa la stretta Calle su cui guardava. Mastodontico armadio che ricettava allora serio, serio i miei primi vestitini corti. Dentro c’era un forte odore di lavanda che mamma amava molto. Più di una volta lo vidi all’aperto su una grande peatta, dall’aspetto più malandato del solito, varie uve spezzate nei suoi grappoli. Ci mancavano ancora quelle uve ma le ferite di legno giallo apparivano allora in confronto al resto dell’armadio quasi sanguinanti. Non s’erano chiuse ma il tempo aveva intonato il colore anche su di esse. Riposai di nuovo dello sforzo mentre il pensiero non cercava riposo. Tutto quello ch’io avevo sospettato s’avverava: La vita diminuita era capace di concentrarsi meglio in certe direzioni. I fisiologi di un secolo fa dicevano: Metà e più del corpo umano è morta. Io forse aumentavo la parte morta ma intensificavo la vita della parte viva. Persino le mie gambe divenivano più vive se io volevo. La sensibilità mia laggiù era tanto diminuita ch’io non sentivo di avere i piedi nudi né percepivo se poggiassero sulla lana della coperta o sul lino delle lenzuola. Rivolgendo la mia attenzione colà, la sensibilità improvvisamente aumentò e senza guardare, dalla sola sensazione sentii chiaramente la dolcezza della soffice lana. Intanto venne l’alba. La finestra ch’era posta alla parete più lontana da me si fece viva, dapprima discreta, discreta, come se bussasse per poter entrare. Presto divenne la cosa più importante della stanza. Com’era bella, svegliatasi così sotto le tendine rosee. Stanco, cercai il riposo e l’ultima mia impressione visiva fu di nuovo l’armadio che aveva viste tante albe senza essere stato mai osservato tanto intensamente. Subiva ora una luce antipatica, corrotta dal giallo della fiamma a gas. Poi a me parve di non arrivare ad addormentarmi. Il mio cervello continuava a lavorare e non ripeteva soltanto le immagini ch’io avevo avute nella veglia ma creava. Mi trovai così di aver pensati i futuri esperimenti ch’io dovevo fare. Dapprima dovevo vedere se l’Annina nel nostro organismo si sommasse e se fosse stato possibile d’intraprendere delle cure a dosi minime giornaliere nelle quali la dosatura sarebbe risultata da sé con la più semplice osservazione. Poi dovevo indagare se usando il nostro organismo all’Annina risultasse un’abitudine e se quest’abitudine eliminasse la crisi o addirittura ogni effetto. Nello stesso tempo il pensiero a tanto lavoro che dovevo compiere mi faceva soffrire. Eppure dormivo. Non appena il mio pensiero s’animava io mi trovavo del tutto desto tanto era piccolo il passaggio; poi ricadevo in un torpore che non era altro che il sonno ma il sonno lungo, lungo, una mezza veglia; il sonno dell’animale cui avevo tratto l’Annina. Ed io che lo conoscevo, sentivo il desiderio del sonno più profondo, ristoratore e mi pareva che come mi vi avvicinavo qualche cosa o qualcuno me ne allontanasse. A quest’ora, seduto qui al tavolo io so che il tempo fa diminuire l’effetto dell’Annina. In undici ore constatai in me tre stadii. Il primo di cui non so la durata era stato contrassegnato dalla perdita totale dei sensi. Nel secondo ebbi la mente lucidissima ma i movimenti lenti e penosi; anzi lo caratterizzerò così: Niente percezione senza volere. Nel terzo, non ristorato dal sonno perché ad esso non arrivai mi ritrovai capace di un lavoro seguito quale è quest’annotazione. Nella notte intera deve aver persistito in me un offuscamento di coscienza. Tant’è vero che non m’ero fatto un rimorso di aver trascurato le annotazioni per le quali avevo corso tanto rischio. Forse da ciò mi risultò un disagio sordo un malcontento che mi guastò la notte meravigliosa tanto che guardando dietro di me mi appare sgradevole quale la notte di un infermo. Concludo: Per godere del riposo che dà l’Annina, bisogna non averla inventata.

 

Qui anche queste annotazioni tanto imperfette sono interrotte. Si picchiava con forza al mio uscio ed una voce profonda d’uomo echeggiava: – Ma, insomma, dormi o sei morto?

Aprii la porta ed entrò il dottor Clementi dalla cui faccia niente trapelava che avesse potuto far sospettare la gravità della notizia ch’egli mi apportava. Era affannato e irato perché, come poscia appresi, mi chiamava così da oltre mezz’ora. Io sono stato sempre un po’ distratto ma non tanto da non udire a pochi passi di distanza la voce stentorea nel dottor Clementi.

Visto che quando il pubblico conoscerà questa mia memoria io sarò morto, è da ritenersi che il dottor Clementi sarà allora da lungo tempo dimenticato. Non dico ciò perché egli sia più vecchio di me ma perché egli è un individuo ch’io chiamo un morituro. L’esuberanza sua di vita deve fargli percorrere ben presto la via che per altri, dotati di organi moderatori più potenti, è più lunga. Egli si scalda anzi si scalmana per tutto e per tutti. S’occupa anche di politica – a quanto mi dicono – e vi spreca un’attività enorme. Io lo conosco per aver lavorato per due anni quale suo secondario all’ospedale. Mi parve d’aver passato quei due anni interi sotto un ponte ferroviario su cui fossero corsi pazzamente, su e giù, dei treni sterminati. Com’è rumoroso quell’uomo! Intanto per lui ogni suo malato è una sua propria, strana avventura che tocca solo a lui, e ne parla, ne parla, ne parla. Ammetto che sia capacissimo quale medico (ed è perciò che gli affidai mia madre) ma solo per troppa esuberanza di vita, egli prende, veh!, dei granchi. Quando vede l’ammalato il primo giorno, comincia subito a diagnosticare e diagnostica il secondo, il terzo e il quarto giorno finché l’ammalato guarisce o muore. E anche dopo egli diagnostica e studia e almanacca e assiste alle sezioni cadaveriche. Se la sua diagnosi era giusta egli ne parla tanto che pare ne sia più sorpreso di tutti. Se era fallata la racconta tuttavia ad amici e nemici che lo deridono per questi suoi difetti e più ancora per la sua precipitazione di parola per cui è sempre costretto ad usare di frasi che si ripetono: – Faccio un passo indietro… – e poi: – Riassumendo… ma devo prima spiegarvi… – e così via. Si può dire di lui che non è un fanfarone solo perché è uno scienziato. Quando entra in una casa quale consulente, il medico di casa trema. Il dottor Clementi non intende certo di far del male a nessuno ma visto che ogni malato per lui ha tre malattie almeno, è difficile che il medico di casa abbia parlato di tutt’e tre.

Io trasalii vedendolo entrare in camera mia quella mattina a quell’ora. Il mio primo pensiero fu questo: La provvidenza m’invia la persona che più di tutti abbisogna di Annina. E pensai di raccontargli della mia scoperta e di pregarlo di farne una prova su lui. Contemporaneamente ebbi varie idee. Fra altre quella di provare l’Annina su un pazzo agitato, la prova sarebbe stata più concludente che sul dottor Clementi… ma di poco.

Il dottore non mi lasciò parlare. Con uno sforzo che dovette costargli parecchio, soppresse l’ira provata per non avergli io risposto più presto. Prese un’aria di commiserazione che non presagiva niente di buono. Pareva tentasse di consolarmi prima di darmi una cattiva nuova. La piccola figurina nervosa s’appoggiava quasi su di me. Aveva alzate le braccia e poggiate le mani sulle mie spalle per segnare un abbraccio che causa la differenza di statura non era possibile.

– Tu non sai nulla dunque? Hai un sonno tu! – e mi guardò con invidia.

Sorrisi ricordando ch’egli dormiva bensì intensamente ma non più di sei ore per notte e pensai: «Troverò ben io il modo d’allungarti il sonno!»

Come poté poi avvenire che restassi sempre alla mia idea apprendendo che circa un’ora prima mia madre era caduta per terra con un grido acuto di dolore e di spavento e che il dottor Clementi accorso parlava di aneurisma passivo dandomi delle speranze ch’egli evidentemente non divideva? Ma io non caddi svenuto io stesso né mi slanciai alla stanza di mia madre pieno di dolore e di speranza a porre il mio orecchio medico, reso più acuto dall’affetto filiale, sul petto materno a ricercare se l’orribile squarciatura fosse realmente avvenuta. No! Mia madre e il suo e il mio affetto erano dimenticati del tutto ed io non ricordavo altro che quel cuore colpito da esuberanza di vita.

Mi volsi alla cameriera che aveva accompagnato il dottore alla mia stanza e che s’era arrestata alla porta in attesa di ordini: – Mia madre s’è adirata con qualcuno questa mane?

La cameriera confermò: Il macellaio ubriaco già a quell’ora, a certi rimproveri di mia madre aveva risposto con impertinenza e mia madre s’era agitata fortemente. Mezz’ora più tardi era stata presa dall’attacco.

– A che serve – interloquì il dottor Clementi. – Tu sai bene che parlare di rottura spontanea del cuore è un modo di dire che manca di base scientifica. La rottura è sempre la conseguenza della degenerazione – Vedendomi impallidire aggiunse con una carezza paterna: – Non perdere il coraggio. Io piuttosto che fare una diagnosi ho sentito il pericolo – Poi ricordò che oltre che suo cliente ero suo collega. Non volle ammettere di poter sbagliarsi e si corresse con vivacità come se rispondesse a qualche oppositore anziché a se stesso: – Io dico che si tratta di una rottura di piccole dimensioni al ventricolo sinistro ma spero ancora di poter ingannarmi. E del resto parlerò al collega Walther. Si parla tanto in quest’epoca della possibilità di cucire il cuore…

Io conoscevo l’operazione orribile che non aveva avuto buon esito che una o due volte e non ammisi neppure per un momento la possibilità di permetterla. Quando entrai da mia madre il mio piano scientifico era fatto; la cura doveva consistere in iniezioni a dose lievissima di Annina ripetute giornalmente. Il mio contegno causa l’intima mia freddezza e l’idea che mi dominava tutto fu esitante tanto che mi meravigliai ch’essa non se ne accorgesse. Non piansi. Celai i miei aridi occhi con la mano e mi lasciai cadere ginocchioni accanto al letto.

 

Essa alzò lentamente il braccio e, restando supina, mi porse la mano che baciai. – Io muoio, figlio mio! – mormorò.

– No! No! Madre mia! – urlai e una specie di singhiozzo m’interruppe. Appariva quale un singhiozzo ma io sapevo perfettamente che il mio respiro non era intralciato da altro che dalla speranza di salvare una vita con l’Annina.

Il caso di mia madre era tipico. Un grido, un solo grido ed essa – se io non intervenivo – correva precipitosamente alla morte. Se anche avessi dubitato della diagnosi del dottor Clementi, mi sarebbe toccato di convincermi al solo vedere mia madre. L’Annina era stata inventata in tempo. Io sapevo quale efficacia potesse avere il ghiaccio ch’era stato posto sul petto di mia madre. Ci voleva altro per domare quel cuore! Sta bene! Prima di rompersi era degenerato, ma perché era degenerato? Evidentemente perché prima che la pressione fosse arrivata a spezzarlo, era riuscita a degenerarlo. Era escluso che si trattasse di una degenerazione grassa. L’organismo di mia madre era tanto povero di adipe! Era la prima volta ch’io mi scoprissi più complicato ancora dello stesso Clementi.

Singhiozzavo sempre! Se avessi avuto un dolore sincero a quell’ora, sentendo singhiozzare anche mia madre, nel timore di danneggiarla con un’emozione troppo viva, avrei saputo fingere e quietarmi. Così invece continuai a singhiozzare finché il dottor Clementi che m’aveva seguito non si chinò su me e non mormorò al mio orecchio: – Collega! Volete dunque uccidere vostra madre?

Allora mi fu facile di quietarmi; abbracciai mia madre dicendole sorridendo che m’ero commosso tanto al sentirla dichiararsi prossima a morire.

Non v’è dubbio! L’Annina oscurava nel mio organismo il sentimento e il dolore. Non era stato previsto ch’essa avrebbe diminuito l’attrito? La mia vita ridotta dal potente moderatore non bastava che a tener lucido il mio cervello e a mala pena il sentimento di me e per me. Essendo io un individuo sano ma non dei più forti, ebbi sempre marcato nel mio organismo il carattere della rapida combustione. Ebbi sempre, cioè, le mani calde ed un’esuberanza di sentimento che mi faceva soffrire al solo veder soffrire una bestia. Invece ora mi mancava il dolore persino assistendo alla rappresentazione di quello che, vicino o lontano, era pure il mio destino. La previsione della morte esisteva allora in me soltanto quale la conclusione di un sillogismo… forse errato anche quello.

Eppure questa freddezza non era scompagnata da un sentimento di decadenza non dissimile da quello che deve avere chi s’abbrutisce in un vizio avvilente. Guardavo al mio passato d’altruismo come ad un’altezza irraggiungibile oramai per me. E pensavo: «Peccato che ho preso l’Annina precisamente poche ore prima che mia madre ammalasse!» Ricordo che assursi a mio giudice. Guardavo la faccia di mia madre oramai né dolce né fiera ma abbattuta tanto che si vedeva pronta a ricevere la maschera ippocratica e mi dicevo: «Se un altro figlio fosse al tuo posto e se io ne indovinassi i sentimenti, che cosa gli direi?» Risposi schiettamente a me stesso che gli avrei dato del cane! Sempre così: Cervello lucido e sentimento annebbiato.