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PENSIERI

L’AMORE

L’amore è Dio, Dio è l’universo, e l’universo è amore.

I giovani che non si sono trovati per gran tempo al contatto della società, a cui lo studio e il ritiro hanno conservato qualche cosa di vergine nella loro natura, concepiscono raramente degli affetti colpevoli.

Il loro primo amore è sempre un amore purissimo, talora tutto ideale, sdegnoso di un pensiero che lo contamini, e spinto al puritanismo più rigoroso; oltre a ciò l’amore non sembra proprio che dell’età dell’innocenza – epoca in cui si ama tutto e non si odia nulla – e coloro che non amarono in quell’età, amarono difficilmente nel resto della vita. Vediamo non meno come gli stessi uomini corrotti non si astengano mai dal rendere un omaggio all’amor puro e costante, e tutta l’umanità operi, e parli, e scriva di esso o per esso dacchè è sulla terra, e lo consideri come la religione più nobile e più sublime dell’anima umana; Da tutto ciò parmi poter dedurre una cosa, la natura celeste di questo sentimento.

La maggiore efficacia dell’abitudine apparisce nella durabilità degli affetti. L’amore può sorgere da cause svariatissime, non di rado potenti, ma la sua forza non l’attinge mai che dall’abitudine. È dessa che rafforza i vincoli della famiglia, che accomuna e armonizza caratteri opposti, che conserva alle nostre affezioni, anche cessate, quel non so che di esigente, di doveroso, di inesorabile, a cui ci sottoponiamo senza resistere, ma di cui non sappiamo darci ragione. Molte creature si amarono per tutta la vita, pel solo motivo che ebbero la forza di amarsi da principio per un pajo di mesi: e sentiamo tuttodì esclamare: come abbandonarci? è impossibile, è tanto tempo che ci amiamo!....

Si suol dire che l’amore non mira che al possedimento e che con esso finisce, e non si distingue tra la passione e l’amore. È la passione che si uccide col possedimento, ma l’amore incomincia con esso e perdura. L’una cosa è dei sensi, l’altra dell’anima. Si dovrebbe dire degli amanti: si piacciono – dei coniugi: si amano.

Questo amore che si rafforza col progredire della vita, e sembra tanto più ingigantire quanto più si distacca da essa, ci fa fede della sua continuazione al di là della morte. Il dolore che accompagna il morire, il rimpianto che lo segue, il desiderio che lasciamo di noi morendo sembrano dirci che una sola cosa portiamo con noi dalla terra, l’amore.

LA DONNA

La donna è un capolavoro abortito, il grande errore della creazione.

Le donne non hanno un carattere proprio finchè non amano; non hanno che un istinto provvidenziale di piegarsi, d’informarsi a quello dell’uomo. Per ciò esse sono quasi sempre quali gli uomini le fanno.

Ciò che gli uomini amano ed ammirano sopratutto nella donna, senza saperlo, è la loro fatuità.

La bontà nella donna è debolezza, nell’uomo carattere; però più frequente in quella che in questo.

L’uomo può portare nei suoi affetti, nei suoi doveri, nelle sue azioni, molte forze che la natura non ha dato alla donna. Il difetto essenziale della donna è l’incompletazione, dell’uomo l’esuberanza.

Il legame più potente che ci unisce alla donna è quello della maternità.

Quasi tutti i grandi uomini non hanno sentito potentemente nè gli affetti, nè i vincoli della famiglia, perchè la loro mente e il loro cuore avevano di mira tutta quanta l’umanità. Cristo rispondeva a sua madre: «donna, che v’ha di comune tra me e te?»

Le donne non annettono teoricamente alla loro virtù un atomo di quella importanza che vi annettono gli uomini semplici e coscienziosi. Esse conoscono meglio di noi il valore di ciò che danno. È difficile che un uomo onesto possa essere tanto ammirato e desiderato da esse come un libertino.

La nostra società ha fatto della donna un puro strumento di piacere. Ogni donna non è considerata oggi mai che sotto questo punto di vista. Esse stesse mostrano di non considerarsi sotto un aspetto diverso. Non si pretende da esse nè ingegno, nè virtù, nè amicizia, non si chiede che dell’amore e del piacere. Apprezzamento triste e degradante che esse tuttavia non temono, o non comprendono.

Tutti i mali della società dipendono da ciò, che si amano le donne o troppo o troppo poco.

In molta parte delle donne la resistenza è vanità, o mancanza d’opportunità, o artificio; prova evidente di ciò, che cedono quasi sempre alla sorpresa.

L’ingenuità nella donna è più pericolosa della malizia.

Non vi è uomo sì abbietto, che non vi possa esser donna più abbietta di lui; non vi è uomo sì nobile, che non vi possa esser donna più nobile.

A che scopo dolerci delle donne? Noi possiamo mostrare loro di conoscerle, di saperle apprezzare nel loro valore, di tenerle anche in ispregio; esse sono tuttavia ben certe che noi le ameremo sempre.

Nelle religioni di tutti i paesi, nelle tradizioni di tutti i popoli la prima notizia che si ha della donna accenna ad una seduzione. Le tradizioni bibliche sono in ciò piene di molta sapienza. La prima donna si fa sedurre, la prima volta, dal più vile degli animali, da un rettile.

L’essenza di tutti i libri, di tutte le tradizioni, di tutte le storie, si riduce a questo: una moglie che inganna il marito, un marito che inganna la moglie, o una moglie e un marito che si ingannano a vicenda.

Gli uomini portano una maschera – le donne due.

Le donne hanno interesse a mostrarsi incapaci di sentire l’amicizia; mettono gli uomini nella necessità di non chieder loro che dell’amore.

FELICITÀ E DOLORE.

Gli uomini non ripongono mai la loro felicità in ciò che sono, ma in ciò che sperano di divenire; e non so se sia per questa illusione che essi non possono mai raggiungere la felicità, o se, appunto perchè sanno di non poterla mai raggiungere, la ripongono volentieri in questa illusione.

Per quanto ci è dato argomentare dalla festività e dalla quiete apparente di tutti gli animali, il dolore morale sembra retaggio esclusivo dell’uomo. E suo retaggio esclusivo sono quindi il riso ed il pianto; d’onde parci poter dedurre che il sorriso non sia meno delle lacrime un’espressione del dolore.

Vi è sempre nel fondo del cuore una segreta malinconia che ci sforza a piangere. Se gioja v’è, o apparisce, è la socievolezza che la produce come la scintilla l’attrito, ma è una gioja fugace com’essa: – ogni uomo che è solo e triste. Non bisogna osservar l’uomo nella società, dove la società stessa e l’orgoglio nostro impongono la dissimulazione, dove dalla dimenticanza altrui si è tratti a dimenticare sè medesimi, ma è duopo osservarlo quando egli è solo, quando pensa, opera, parla, medita, cammina, e si agita come un essere che soffre, e che espia. Io non so se la infermità della mia natura che mi ha tolto sì per tempo ogni gioja, mi tragga ora in inganno, ma io non conobbi mai cosa più triste del sorriso umano, e l’allegria degli uomini fu sempre tal vista che mi strinse il cuore di pietà e m’indusse talora alle lagrime. Il dolore mi parve sempre più vero, più naturale, e aggiungerei quasi, più sereno.

Una prova che gli uomini ripongono l’importanza della loro felicità, delle loro piccole soddisfazioni, e perfino le esigenze del loro orgoglio e del loro amor proprio, in un grado più o meno favorevole di comparazione colla felicità e colle esigenze dell’orgoglio degli altri, è questa: che le calamità pubbliche non sono mai sì gravi a sopportarsi come le calamità private, e che le offese collettive sono tenute in nessun conto o lievissimo, le personali acerbamente vendicate o con molta umiliazione sofferte.

Gli uomini giocano colla loro felicità come i fanciulli, perduta la rimpiangono come uomini.

L’idea della felicità negli uomini non può esser derivata che dalla memoria d’un bene trascorso o dal presentimento di un bene avvenire – in una vita antecedente o in una vita futura – giacchè non vi è nulla quaggiù d’onde essi abbiano potuto attingere questo concetto.

Pochi e grandi dolori fanno l’uomo grande, piccoli e frequenti l’impiccioliscono; un fiotto lava la pietra, una serie di goccie la trapassa.

Allora si ha incominciato realmente a soffrire, quando si ha imparato a tacere il proprio dolore.

LA VITA

Secondo l’ordine naturale delle cose nessuno muore ad un tratto, ma la natura (ove non le sia fatta violenza) ci distacca essa medesima dalla vita come un frutto maturo; ed è sì valente in questa bisogna che spesso ce ne infastidisce per modo da farci anelare alla morte come ad una dolcezza o ad una grazia. In ciò ella raggiunge due scopi: apparecchia noi a morire, e colle noie e colla pietà che inspiriamo altrui in quello stato, dispone gli altri a sopravviverci senza dolore.

Quella misteriosa espiazione che tutti sentono di subire nella vita, diventa sempre più attiva e più travagliosa, quanto più la vita stessa si avvicina al suo termine – o sia che l’espiazione affretti e addolori di più il termine della vita, o che il volgersi più rapido della vita al suo fine rincrudisca esso stesso la espiazione.

Se ciascuno guardasse con imparzialità agli avvenimenti della propria vita, e ne indagasse e ne ricordasse le cause, e a quelle sapesse poi riferire con giustizia le conseguenze che ne derivarono o presto o tardi nel tempo, vedrebbe che tutto era successo pel suo meglio, e che ogni cosa era ordinata ad un fine da una volontà altamente provveditrice e benefica. Ogni uomo osservatore ha potuto riconoscere da sè questa verità nel corso della sua esistenza. – È cosa assurda il supporre che mentre tutto succede per leggi fisse e immutabili, la sola vita dell’uomo proceda a caso, quasi non avesse di sè e delle sue opere un fine. Bensì il caso non sussiste in natura; e per quelle opere che dipendono dalla sua volontà, e per la applicazione di quelle che non ne dipendono, ogni uomo è mastro della propria fortuna.

 

Le rivoluzioni più notevoli della vita avvengono verso la sua metà, come in quell’epoca in cui ella cessa di posarsi in un presente durevole, e distaccandosi dal passato, si libra un istante sulla sommità della sua curva, e si precipita verso l’avvenire. Allora l’ordine dell’esistenza è invertito; tutto ciò che era salito discende, tutto ciò che soleva imporsi subisce, tutto ciò che soleva subire s’impone; l’azione e la passività si scambiano; vi è un mondo che si distacca da noi e un mondo che ci si avvicina, e se fino allora si era stati amati e protetti, d’allora innanzi bisogna amare e proteggere. Quale di queste due metà della vita sia più dolce e serena, o meno faticosa non so: in una le dolcezze del piacere e quella vaghezza di spensierirsi che è propria della giovinezza, nell’altra le gioie più nobili del sacrificio e dell’abnegazione – l’una e l’altra accettabili forse, e forse meglio quest’ultima. Ma sciagurati coloro che, avanti che la natura lo esigesse, giovani ancora o fanciulli, sono stati gettati dall’isolamento o dall’abbandono nella seconda metà della vita, senza aver gustato dell’altra quelle dolcezze che sole possono confortarci di questa.

Tutto il meraviglioso dei sogni consiste in quell’ignoranza della verità, e in quell’impotenza di criterio che ha luogo per ciascuno in quello stato. Lo stesso può dirsi di quel dolce sognare dei fanciulli ad occhi aperti, e di quell’eterno vaneggiare e fantasticare che molti uomini semplici e immaginosi fanno anche in età più avanzata. Da ciò parmi poter dedurre che se la verità ed il senso pratico della vita rendono più leciti e più nobili i nostri piaceri, ne rendono però il numero più ristretto, e le varietà e le circostanze più castigate; e talora li inaridiscono per modo che non possiamo trarne altro conforto che quello di poter dire: sono veri!

LA FEDE

Non si arriva alla fede che per una sola via, per quella del dolore.

I prosperi e i fortunati sono raramente, o male, uomini religiosi. Gli sventurati soltanto corrono a gettarsi ai piedi degli altari e cercano nella speranza d’un’esistenza futura un compenso ai mali di questa. Io mi sono spesso rivolto una domanda angosciosa: È l’agiatezza che rende i prosperi ingrati alla divinità, o è la sventura che ha creato ai miseri il bisogno di fabbricarsi questa chimera e di credervi? La fede – poichè ella è solo degli infelici – non sarebbe che un inganno creato dalla sventura?

Volete raffermarvi per sempre nella fede della divinità e dell’immortalità dell’anima? Sforzatevi di trovare argomenti per non credervi. O giusta o fallace è questa la via per cui tutte le intelligenze ragionatrici sono giunte alla fede.

Che cosa è questa forza che dubita, che interroga, che ragiona dentro di noi: Dove si va? d’onde si viene? che cosa vi è oltre la morte? Rivolgetevi queste domande in un cimitero. Le tombe hanno risposte piene di ribrezzo e di angoscia.

PENSIERI DIVERSI

Non tutte le ingratitudini che si commettono dagli uomini debbono imputarsi esclusivamente alla loro volontà. Occorrono molte circostanze nella vita, in cui la natura o la società ci costringono ad essere ingrati, e sono assai rari quei casi in cui noi possiamo emettere un giudizio sincero e coscienzioso sopra un atto d’ingratitudine; poichè è questa fra tutte le azioni dell’uomo quella che è mossa da cause più molteplici e più imperscrutabili.

Mi avviene talora di trovare una data, un nome o un pensiero, o inciso su corteccia di albero, o scritto su parete o su margine di libro, come troverei una croce o una lapide che mi additasse una solitaria sepoltura, ma con una commozione più dolce e più confortante.

La grandezza è solitaria. Si direbbe anzi che la solitudine è condizione della grandezza. Tutte le intelligenze superiori, tutte le nature superiori sono isolate – l’aquila vive sola, il leone solo.

La prudenza è la maschera dell’astuzia. – O nessuna delle due è virtù, o entrambe.

Comprendere la vanità e il ridicolo delle cose del mondo è somma sapienza; riderne è somma forza.

Strana cosa! Gli uomini piangono spesso del ridicolo.

La giustizia di sè è nell’istante, quella degli uomini nel tempo, quella di Dio nell’eternità.

I pensatori e i filosofi di tutte le epoche e di tutti i paesi parlano dei loro tempi, come di tempi eccezionalmente scellerati. È logico arguire che gli uomini siano stati scellerati in ogni tempo.

Diffidate degli uomini che non hanno passioni.

Confessare altrui i proprii difetti è assai meno doloroso che confessarli a sè stessi.

La malignità è cattiveria impotente.

Come gli uomini usano nell’età che precede o tocca la giovinezza, ed anche nell’età adulta, se rozzi, adoprare in ogni cosa la violenza, e farsi ragione da sè colla forza del braccio, ed ogni loro ambizione e coscienza di giustizia riporre nella maggiore o minore virtù di quello, così le nazioni giovani, o tralignate se adulte, costumano di fare; nè sanno altra cosa ambire che un esercito poderoso, nè d’altro curarsi che delle arti di guerra, nè in altro modo tutelare le leggi e la libertà che colla violenza e col sangue. L’una cosa l’infanzia degli uomini rivela, l’altra l’infanzia delle nazioni. Ma come quelli l’età e gli ammonimenti correggono, queste le tradizioni correggeranno ed il tempo; benchè l’esistenza dei primi sia breve e ci sia dato avvertirlo coll’esperienza, delle altre indefinita, nè possiamo dedurlo che dal senno nostro e dalle leggi immutabili dell’universale progresso.

L’abitudine è una seconda potenza di creazione inerente all’uomo. Negli animali, e nelle cose che pure la posseggono, è passiva; ma l’uomo solo la subisce e la dirige ad un tempo. Non vi ha natura sì salda che non possa venire da essa piegata; molte ve ne sono che ella abbatte, ricostruisce, trasforma. Onde vien detto che l’abitudine è una seconda natura; e io penso che in essa sia riposto uno dei mezzi più potenti della perfettibilità umana; e nella coscienza che abbiamo di lei, e della sua forza, e della facoltà di governarla, la maggiore responsabilità delle nostre opere e dei nostri divisamenti.

L’egoismo che sembra essere una forza speciale dissolvente, è invece una forza eminentemente socievole e conciliatrice. Tutti gli uomini sono egoisti, e non lo sono mai tanto che in ciò in cui sembrano esserlo di meno, nei loro affetti. Lo stesso amore, che è quella tra le passioni che li avvicina e li accomuna di più, e quella che apparisce più scevra di questo interessamento esclusivo di sè medesimi, non è che un egoismo più esigente e più raffinato. Egli è che le leggi della vita e della società sono costituite saviamente per modo che nessuno può giovare all’interesse proprio senza giovare a quello degli altri, e quanto è più attivo in ciò per sè stesso, altrettanto lo è per altrui – simile a quelle ruote d’un ordigno, ciascuna delle quali non può muoversi per sè sola, ma, una volta mossa, è d’uopo che trascini col suo ingranaggio tutte le altre e ne sia trascinata ad un tempo.

L’amore fino alla media età della vita è ascendente, da essa in poi discende. Si abbandona la famiglia nella quale si era nati, e se ne forma e se ne ama una nuova; si amavano i genitori, ora si amano i figli; si prediligono ai vecchi i fanciulli; e si cerca fuori della sfera delle nostre prime affezioni un elemento d’amore più vergine e più durevole. È perciò che la vecchiezza si accosta alla gioventù, e questa alla vecchiezza; e i giovani preferiscono in amore le donne adulte, e gli adulti amano di preferenza le giovani; e tutte queste forze dell’amore si completano a vicenda, dando o ricevendo, secondo che vi è di esuberanza o difetto. Ma ciò che v’è di crudele in questa legge è quell’abbandono e quell’apatia a cui la natura ha condannato la vecchiaja. Difficilmente l’amore dei figli perdura fino alla vecchiezza dei genitori, e avviene quasi sempre che questo affievolirsi dell’affetto, o le esigenze d’interessi materiali, o le cure di una nuova famiglia li separino in quegli anni sì bisognosi di conforti e di amore. Triste destino di quell’età infelice della vita che l’egoismo crescente dell’epoca mostra di peggiorare ogni giorno, e cui la civiltà (o ciò che noi vogliamo indicare con questa parola) non ha ancora trovato mezzo di rimediare.