La Tragedia Dei Trastulli

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“So solo l’inglese: vuol dire merdosa?”

“No: rompipalle. Fatto è che, per la vecchia, l’azienda è una figlia, anzi persino qualcosa di più, e i figli carnali e assieme a loro la nuora, li vuole tutti al servizio degli affari: ha viziato il primogenito e continua a farlo, ma vuole il contraccambio da lui, l’ho capito bene da parole che gl’indirizza certe volte, frasi sul tipo: È la ditta che ti mantiene e io ti ho dato sempre tutto quello che volevi e tu mi devi dare sempre retta.”

“Brr… meglio un impiego sottopagato che star sotto una madre così.”

“Eh, sicuramente. Insomma, per un motivo o per l’altro, questionano tutti, a parte il geometra che però, del tutto eccezionalmente, quando evidentemente non ne può più, urla a squarciagola: Smettetela balenghi! Allora tacciono tutti meno la moglie che, imperterrita, continua; e lui s’arrabbia ancora di più e aggiunge in piemontese: Piàntla-lì, ciula brüsca22 ! Ho pronunciato bene, Ran?”

“Benissimo, anche la ü di brüsca.”

“Già, già”, aveva sorriso faceto, socchiudendo gli occhi per fingere di compiacersene. Poi, di nuovo serio: “Le uniche che se ne stanno zitte, anche se sono piccole e, loro sì, avrebbero diritto di far strilli ogni tanto, sono Ida e Aurelia, le figliolette: chi sa cosa provano dentro in mezzo a quei litigiosi.”

“Che pure tu sopporti, Vittorio.”

“Eh sì, non ho mai battuto con un martello contro il muro divisorio, anche se l’avrei fatto chi sa quante volte, se non fosse che ci si vede col geometra all’ANPI e siamo… beh, no, stavo per dire amici, ma non è vero, l’amicizia è cosa preziosa e rara, no diciamo che siamo sodali di lotta e io non voglio litigarci.”

…e sei una pasta d’uomo, m’era venuto in animo.

Capitolo III

È bene che, a questo punto, prima ch’io prosegua con la narrazione, disegni, sia pur a rapidi tratti, il periodo storico italiano in cui la nostra vicenda si svolge, non solo per presentarne l’ambientazione, ma soprattutto in quanto certi eventi e luoghi di quegli anni furono causa prima di vicissitudini e drammi dei nostri personaggi.

La popolazione di Torino e dintorni s’era ingrandita dall’inizio degli anni ‘50, causa l’immigrazione da altre regioni, soprattutto meridionali, di famiglie in cerca di lavoro. L’accrescimento s’era velocizzato durante il cosiddetto boom economico, fin a oltre seicentomila nuovi residenti: Torino era divenuta metropoli, un milione d’abitanti e, con le località della prima cintura, quasi due milioni. Gl’immigrati miravano a essere assunti, di gran preferenza, alle catene di montaggio FIAT, poderosa società ch’era ancora quasi interamente torinese, potente in città più di sindaco, assessori e consiglieri comunali. Alla FIAT e a molte altre imprese, numerose delle quali satelliti della prima, quei lavoratori servivano, eccome; non erano state però preparate abitazioni per i loro nuclei familiari, né dalla FIAT, né da aziende sue satelliti, né dal Comune, solo dalla fine degli anni ‘60 si sarebbe provveduto a costruire quartieri periferici popolari. Era così sorta, alzata da quelle stesse misere persone trapiantatesi a Torino, una miriade d’improvvisate baraccopoli, sia nei sobborghi della città, sia in diverse sue zone, mentre solo i meno sfortunati avevano trovato riparo in dimore del centro, soprattutto nella zona di Porta Palazzo entro piccoli alloggi e in soffitte di palazzi di ringhiera settecenteschi, alcuni fatiscenti. Questa massa umana, assunta al lavoro accontentandosi di salari molto bassi, aveva fatto da carburante potente al cosiddetto miracolo economico italiano, o boom che dir si voglia. Tale boom, nondimeno, non era proseguito ininterrottamente: nel 1963 aveva avuto pausa l’euforico quinquennio, come l’avrebbe definito l’anno seguente l’ipercritico deputato repubblicano Ugo La Malfa, uomo della sinistra non marxista stimatissimo da mio padre, repubblicano storico23 , così come, sul suo modello, lo scrivente Ranieri Velli.

L’espressione miracolo economico s’era spenta, l’entusiasmo degl’industriali e dei commercianti era calato di molto e quindi era caduto, mentre gli occupati nell’industria e nei servizi avevano preso a preoccuparsi, sotto minaccia di licenziamento o di già licenziati, avendo ormai iniziato a gustare un certo benessere, integrando i loro consumi primari con beni durevoli, pagati a rate con cambiali, quali il frigorifero, la lavatrice, il televisore, con formidabili affari per le industrie produttrici e i negozi di quei prodotti, come ad esempio l’esercizio commerciale della famiglia Trastulli che noi conosciamo; e non pochissimi lavoratori avevano osato permettersi l’acquisto a rate di un’auto, di norma una piccola FIAT 600 o una FIAT 500 piccina, piccina. Molti lavoratori avevano iniziato anche a godere d’almeno un paio di settimane di vacanza agostana in una pensioncina, di solito della vicina Liguria, mentre quasi tutti coloro che, sopra una gora di cambiali, erano proprietari di un’utilitaria o, addirittura, d’una FIAT 1100, avevano affrontato ogni agosto, coraggiosamente, famiglia al completo nella maggior parte dei casi stipatissima in un’utilitaria, il lungo viaggio, alla media di 70 chilometri all’ora, fin al proprio lontano borgo natio, esultanti di potersi mostrare all’arrivo sopra l’auto guadagnata col proprio apprezzato lavoro alla catena: di montaggio, ovviamente, non si fraintenda.

Negli anni precedenti il 1963 molti imprenditori, basandosi sull’indebitamento piuttosto facile e sulle paghe molto basse, avevano ingrandito la loro attività, a volte enormemente rispetto all’originaria dimensione, tanto che diverse imprese artigiane s’erano ampliate al livello industriale con numerosi dipendenti, anche centinaia; nondimeno, senza che i titolari avessero la preparazione economica adeguata per operare non a braccio, come nella loro precedente piccola o minima dimensione, ma con accortezza prevedendo, caso per caso, le possibili conseguenze delle loro iniziative e considerando la possibilità d’inattesi fattori estranei contrastanti24 . Non avevano capito, fra altre cose, che i salari bassi avevano di molto favorito la loro ascesa. Quando i lavoratori, dopo anni di lotte sindacali, avevano finalmente ottenuto significativi aumenti, erano iniziate difficoltà per tutte le aziende, osticità assai gravi, in primo luogo, per le attività improvvisate, pur non restandone esenti le antiche, collaudate e ben dirette aziende, in quanto i rapporti fra ditte produttrici di beni e ditte fornitrici di servizi sono catene collegate, a loro volta, a quelle dei settori creditizio, assicurativo, consultivo; in altri termini, si tratta d’una rete d’affari tra fornitori di materie prime e fonti d’energia, produttori di servizi e beni, distributori degli stessi, e tale rete è connessa a propria volta agli studi di consulenza, alle banche, alle assicurazioni.

Erano iniziati i fallimenti ed erano divenuti sempre più numerosi di mese in mese. Si sarebbero succeduti, ancor più gravi, ben oltre il 1964, anno peraltro dell’acme della crisi nel quale gli utili d’impresa e professionali e i redditi familiari sarebbero stati colpiti ancor più gravemente dall’incauto aumento dell’imposizione fiscale sulla benzina e da una novella tassazione sull’acquisto di automezzi, balzelli voluti da politici ben poco esperti di scienza delle finanze: quelle imposte sconsiderate avevano ovviamente aumentato i costi dei trasporti commerciali e, dunque, avevano ancor più gravato sull’intera economia. Il male maggiore era però venuto dai collegamenti di credito-debito fra le aziende e dalle azioni legali delle banche che, avendo prima concesso fidi con larghezza agl’imprenditori, avevano iniziato non solo a ridurre drasticamente le nuove aperture di credito e l’ammontare dei prestiti già accordati, ma ad aumentarne il costo percentuale e, peggio, a chiedere di rientrare ai clienti morosi, tante volte senza successo: come avrebbe potuto infatti una ditta rimborsare un prestito se troppi dei suoi clienti non le pagavano le forniture? Pericolosamente avversa era diventata nel 1964 la congiuntura, parola questa che, nel linguaggio popolare, era divenuta semplicemente e famigeratamente La Congiuntura intesa come sinonimo di crisi mentre, in realtà, quel vocabolo non significa stagnazione o recessione ma andamento degli affari, che può essere negativo, positivo o stagnante. All’inizio del triennio era stata stagnazione, innescata da una riduzione degl’investimenti dovuta al noto aumento dei salari e degli stipendi e al pesante innalzamento dei tassi d’interesse sui prestiti bancari, incrementi che avevano ristretto il capitale disponibile per gl’investimenti in acquisti di materie prime, fonti d’energia, merci, macchinari e via seguitando; peggio, il fenomeno era stato anche più grave perché, già nel 1963 ma soprattutto nel ’64 e nel ’65, non pochi grossi imprenditori avevano indirizzato abbondante parte dei loro capitali liquidi, quando non l’intero, verso certi Paesi stranieri, paradisi bancari, per ripararvi da guai la loro posizione economica e la loro stessa persona in caso di bancarotta. Dalla stagnazione s’era scivolati alla recessione: meno investimenti, meno produzione, meno scambi commerciali, meno trasporti, meno lavoro e dunque licenziamenti, perciò meno salari e stipendi e meno consumi con minori ritorni di denaro alle imprese; per molte di queste, investimenti nulli, ulteriore minore produzione, altri licenziamenti: un circolo vizioso in cui erano intervenuti fallimenti tra loro collegati, il più delle volte non innescati dai fornitori-creditori, desiderosi della salvezza dei clienti-debitori cui, anzi, andavano normalmente rinnovando cambiali su cambiali che avrebbero provato a scontare ancora una volta in banca per finanziarsi, ma attizzati proprio dalle banche che, implacabili, essendo i loro crediti privilegiati per legge, avevano preso a tempestare il mondo imprenditoriale di istanze di fallimento.

 

Relativamente ai negozi e agli esercenti ambulanti dei generi di prima necessità e a molte delle famiglie di lavoratori loro clienti, in precedenza queste ultime avevano pagato gli acquisti quotidiani in unica soluzione, a fine settimana una volta incassato il salario operaio, a fine mese dopo aver intascato lo stipendio impiegatizio. Subentrata la recessione, in diversi nuclei familiari uno o più membri s’erano trovati disoccupati, per cui quelle famiglie avevano preso a rimandare i pagamenti, almeno in parte, al mese seguente e, nel contempo, avevano ridotto gli acquisti all’essenziale; poi, accumulato debito su debito, non avevano più saldato.

D’altra parte, i gruppi familiari che avevano comprato beni durevoli, a rate con patto di riservato dominio firmando le solite cambiali, televisori, lavatrici e altri elettrodomestici, o addirittura un automezzo, al momento della crisi avevano lasciato cadere in protesto quelle farfalle cambiarie e sofferto il sequestro del bene. A loro volta, le imprese fornitrici degli esercizi commerciali s’erano ritrovate impagate da molti loro clienti, dato che gli stessi non avevano più avuto il denaro per saldare gli acquisti alle scadenze previste. Se i primi non saldati erano stati i fornitori dei commercianti, per secondi erano venuti i commessi di questi, tutti o in parte licenziati; infine, non pochi esercizi avevano abbassato le serrande, o per ritiro dagli affari, quand’erano riusciti prima, avendo risparmi domestici, a saldare tutti i debiti, o, più sovente, per fallimento.

Come Vittorio e io avremmo saputo, s’era ritrovata nel fortunale recessivo, con cambiali di clienti in protesto e difficoltà a saldare i fornitori, anche la vecchia e famosa ditta di via Garibaldi Trastulli Televisori Elettrodomestici Apparecchiature Musica , dei cui titolari, dopo quel Natale del ’61, io m’ero dimenticato del tutto, ma che presto sarebbe tornata sul proscenio della mia vita: per motivi di sangue.

Capitolo I V

L’annus orribilis del triennio ’63-65 era stato il 1964, non solo per l’aumento della pressione fiscale, per le fughe enormi di capitali verso l’estero, per i numerosissimi fallimenti di aziende e per la disoccupazione vieppiù crescente, ma perché, nei mesi da marzo alla metà di luglio, era stata appesa con un filo sul capo dei cittadini l’affilata, pubblica minaccia d’un colpo di Stato.

Non solo la crisi ma anche quel piano eversivo, sia pur questo di riflesso, avrebbe contribuito alle disgrazie della famiglia Trastulli.

Come, solo tre anni dopo, fonti pubbliche avrebbero comunicato al pubblico, fra gli obiettivi del disegno sovversivo non ci sarebbe stata la cancellazione della Carta costituzionale; tuttavia, se pur così era stato, non di certo esiguo s’era rivelato il proposito dei cospiratori, in quanto avevano mirato all’eliminazione dalla scena politica di parlamentari comunisti e socialisti e al blocco violento di numerose, articolate riforme sociali che stavano per essere espresse dal Governo in carica, di centrosinistra a differenza di quelli degli anni ‘50 e dei primissimi ‘60 composti da elementi di centro o di centrodestra25 : il Partito Socialista Italiano, marxista, era stato ammesso a pigiare bottoni di comando accanto all’abituale forza di maggioranza, la Democrazia Cristiana, o meglio alle sue correnti di sinistra divenute predominanti.

Responsabile del piano sovversivo era stato l’allora Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, ex partigiano azzurro monarchico, insignito dalla Repubblica, per meriti resistenziali, d’una medaglia d’argento, di tre croci di guerra al merito e di molti encomi solenni e, nel 1955, elevato al delicatissimo ufficio di capo dei servizi segreti, che aveva mantenuto per circa sette anni prima del nuovo incarico.

Il 25 marzo 1964 egli aveva riunito nella capitale i dipendenti generali comandanti delle tre divisioni dell’Arma e i generali di brigata loro aiutanti di campo, e impartito ordini dettagliati sul piano, con l’ingiunzione di tenersi pronti a muovere le loro truppe armate in qualunque momento, non appena ricevutone il suo comando. Era stata prevista l’occupazione delle prefetture, delle principali questure della nostra Pubblica Sicurezza, delle sedi RAI-TV, dei partiti politici marxisti, dei giornali che li appoggiavano e, addirittura, erano stati predisposti, per oltre settecento figure pubbliche fra politici del Partito Comunista e del Partito Socialista, sindacalisti socialcomunisti della CGIL e intellettuali sostenitori o simpatizzanti della sinistra, l’arresto e il trasferimento in campi di concentramento in Sardegna allestiti su aree militari vietate al pubblico.

Il 26 giugno 1964, un venerdì, era intervenuto un fatto nuovo: la crisi di Governo, caduto per un contrasto, forse pretestuoso, sulle sovvenzioni alla scuole private, che i democristiani volevano e i socialisti osteggiavano. La maggior parte dei giornali non di partito, la cosiddetta stampa indipendente che a quei tempi, di norma, non simpatizzava per la sinistra26 , aveva definito assai negativamente il Presidente del Consiglio dimissionario Aldo Moro, capo della corrente della sinistra democristiana, e aveva indicato come uno sfacelo le azioni governative dei ministri socialisti. Era stato il momento in cui il piano sovversivo avrebbe potuto prendere le mosse. Il leader storico del Partito Socialista Italiano, Pietro Nenni, ne era stato messo in guardia, non improbabilmente dagli statunitensi, aveva riunito all’istante i notabili di partito e li aveva informati d’aver udito nel sottofondo della crisi un tintinnio di sciabole; e a questo punto i socialisti erano scesi a patti. Il progetto sovversivo era caduto, le tre divisioni dei Carabinieri e le rispettive brigate erano rimaste inerti e il 17 luglio 1964 era stato varato un diverso Governo Moro, sempre col Partito Socialista che, però, aveva accettato d’eliminare tutti i punti drastici del suo programma innovativo, precedentemente dichiarati assolutamente essenziali; ancora una volta, la politica s’era rivelata l’arte del possibile27 . Il piano di colpo di Stato era stato accantonato giusto alla metà di luglio, un attimo prima della sua attuazione, essendosi considerato il costituendo nuovo centrosinistra assai meno innovatore del precedente e sicuramente, come si sarebbe saputo, essendo del tutto mancata l’approvazione degl’influentissimi Stati Uniti d’America i quali, diversamente dagli eversori, consideravano positivamente il centrosinistra, quale strumento per isolare i comunisti: il Partito Comunista Italiano, in effetti, era stato e rimaneva assai contrario alla partecipazione dei socialisti al Governo, avendo mirato per il futuro, ben diversamente, a un Governo di pura sinistra socialcomunista. Sarebbe poi corsa un’ulteriore, insistente voce, che lo Stato della Città del Vaticano, informato dall’ambasciatore statunitense del piano sovversivo, si fosse mosso per bloccarlo, forse con segrete minacce di scomuniche a certi potenti cattolici di destra della Democrazia Cristiana: la Santa Sede e il relativo Stato erano in quegli anni assai considerati e sovente ascoltati negli ambienti politici e militari italiani e la notizia era tutt’altro che inverosimile, anche perché la Chiesa, sotto l’allora regnante Papa Paolo VI, uomo della sinistra cattolica, era stata ben favorevole all’ammissione dei socialisti al potere esecutivo.

Negli stessi giorni, quattro uomini politici di centro destra erano deceduti per infarto, quasi l’uno di seguito all’altro, coincidenza ben insolita anche se non del tutto impossibile

Di questi fatti e d’attinenti fatterelli i cittadini sarebbero stati tenuti all’oscuro dalle autorità per molto: forse per evitare al popolo ormai superflue spinte all’angustia? Sicuramente con autoritario disprezzo del diritto all’informazione.

Nemmeno Vittorio e, come lui, nessuno nel nostro Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza aveva avuto sentore del progetto eversivo; e lo stesso doveva esser stato negli altri reparti di Polizia28 : il piano era stato magistralmente mantenuto segretissimo.

Solo nel 1967 la notizia sarebbe sfuggita e, raccolta dal settimanale L’Espresso, sarebbe stata da questo divulgata il 14 e il 21 maggio di quello stesso anno con un’inchiesta giornalistica, divenendo di pubblico dominio. Si sarebbe saputo, fra l’altro, che solo nel dicembre 1965 e non prima, al termine cioè d’un duraturo periodo d’indecisione dei vertici politici, il Comandante Generale dei Carabinieri ed ex comandante dei servizi segreti era stato rimosso dal suo incarico; e sarebbe corsa voce, verosimilmente per informazioni dell’onnipresente agenzia di spionaggio statunitense CIA, che se quel generale di corpo d’armata era apparso l’ideatore del piano eversivo, questo poteva esser stato voluto da certi importanti uomini politici della destra democristiana29 .

Sempre dopo il maggio 1967 e in grazia degli articoli de L’Espresso, sarebbe stata finalmente costituita sulla vicenda una commissione parlamentare d’inchiesta. Le sue conclusioni? Avrebbe sancito essersi trattato d’un piano d’emergenza speciale a tutela dell’ordine pubblico, “una deviazione deprecabile” ma non un tentativo di colpo di Stato.

FOTOGRAFIA FUORI TESTO

La prima pagina del numero 21 del 21 maggio 1967 della rivista L’Espresso


Capitolo V

Aristide Trastulli, uscito dal suo negozio alle 19 di sabato 18 luglio 1964 per una breve, solitaria passeggiata prima di cena, era sparito.

I primi telefoni da tasca erano ancora di là da venire, i suoi famigliari non avevano potuto provare a rintracciarlo chiamandolo. Già verso le 22 la moglie e i due figli avevano denunciato la sparizione in Questura: la legge italiana del tempo, contrariamente a quelle di altri Stati, non riteneva necessario che, prima di poter procedere alla segnalazione della sparizione d’un famigliare o parente a un corpo di Polizia, fosse trascorso un certo numero di ore o addirittura di giorni, infatti considerava che maggiore sarebbe stata la possibilità di trovare la persona se ci si fosse mossi il prima possibile.

Il funzionario di turno preposto a raccogliere la denuncia, un certo brigadiere Pitrini, dopo aver fatto accomodare il trio davanti alla propria scrivania, aveva chiesto: “A casa c’è qualcuno?”

Aveva risposto Arturo: “Sì, mia moglie con le nostre bambine.”

“Suo padre potrebbe esser tornato mentre loro venivano qui. Per prima cosa è bene controllare. Numero di telefono?”

Avutolo, l’aveva composto sul disco combinatore dell’apparecchio che aveva sullo scrittoio, passando subito la cornetta alla signora madre.

Aveva risposto Clodette, deludendola: “No, purtroppo non c’è. Nemmeno ha telefonato.”

La suocera aveva sospirato e, senza congedarsi dalla nuora, aveva reso il ricevitore al brigadiere.

Il funzionario aveva riagganciato, di seguito aveva ordinato a un agente del suo ufficio, un certo Bianchini, di telefonare a tutti i pronto soccorso torinesi chiedendo se un Aristide Trastulli vi fosse stato ricoverato.

L’agente aveva eseguito. Tempo dopo, avrebbe comunicato al brigadiere che non risultava nessuno con quelle generalità.

Nel frattempo il brigadiere aveva chiesto ai denunzianti se avessero portato foto dell’uomo.

“Sì, ci abbiamo pensato: due fotografie”, gli era venuto dalla signora Iride. Aveva cavato dalla propria borsa un’istantanea a colori del marito, a figura intera, e una sua fototessera in bianco e nero, sorella di quella applicata alla sua carta d’identità. Le aveva allungate al brigadiere.

Il Pitrini le aveva posate sul proprio scrittoio e aveva ordinato all’agente dattilografo che gli sedeva poco distante, pronto a battere i tasti della propria macchina: “Queste te le prendi dopo e le alleghi alla pratica. Cominciamo a scrivere.” Aveva chiesto ai denuncianti: “Quando hanno visto per l’ultima volta lo scomparso?”

 

La madre: “Poco dopo le 19, subito dopo la chiusura del nostro negozio…”

“…situato?”

“La ditta Trastulli è in via Garibaldi, quasi in piazza Statuto, una trentina di metri prima.”

“Ah, sì, un negozio con molte vetrine, l’ho presente.”

“Sì. Dicevo che mio marito è uscito subito dopo la chiusura, passando dal retro assieme ai commessi, mentre noi, come ogni sera, ci siamo soffermati per chiudere il conto cassa e per controllare che tutto fosse a posto, prima d’andarcene. La maggior parte delle volte andavamo via con lui in auto, a conti fatti, ma stasera ci ha detto che, per farsi venir appetito, voleva far quattro passi lungo il suo solito breve percorso.”

“Me lo delinei, dovremo cominciare a cercarlo in quelle vie.”

“Uscendo da noi in via Garibaldi, svolta a sinistra in corso Valdocco, poi svolta a destra in via del Carmine, va avanti fin a piazza Savoia, svolta a destra in via della Consolata, quindi, sempre dritto, imbocca corso Siccardi, infine gira a destra in via Cernaia e arriva a casa nostra, che è quasi all’altezza di corso Palestro.”

“Mi ha detto che la passeggiata non è un fatto del tutto eccezionale.”

“Esattamente, brigadiere, una e talvolta due volte alla settimana capita. Ci ha detto uscendo che ci saremmo visti a casa per cena, lo diceva tutte le volte, per abitudine. Abitiamo tutti assieme in due appartamenti comunicanti, noi, i figli, la nuora e le nipotine. Quando siamo rientrati, lui non era arrivato.”

“A che ora?”

“Erano le 20 e qualcosa, diciamo le 20 e 10. Era inusuale che non ci fosse ancora, ma non stranissimo, era già successo due volte in passato, in entrambe aveva incontrato un caro amico che abita in via del Carmine, il generale dei Carabinieri Amedeo Ronzi di Valfenera, ed erano andati a sedersi a un tavolino d’un caffè, non so quale, per prendersi un aperitivo assieme e fare due chiacchiere: nessuna delle due volte aveva pensato di telefonarci dal caffè, lui è fatto così, brigadiere. Abbiamo lasciato passare un’oretta. Ormai, eravamo molto preoccupati, è ovvio. Così abbiamo pensato di comunicarvi senz’altro la sparizione, ma prima abbiamo ancor voluto telefonare ai nostro commessi per sapere se avessero notato, uscendo con lui, in che direzione Aristide avesse preso a camminare, nel caso stavolta avesse cambiato percorso: poteva esser utile alle vostre ricerche.”

“Avete fatto bene, Dunque?”

“Due di loro non erano in casa….”

“…quanti sono i commessi?”

“Quattro.”

“Continui, signora.”

“Il telefono del primo ha squillato…”

“…nome e indirizzo?”

“Mario, Mario Rollini, abita in corso Francia, vive solo, almeno secondo il foglio di famiglia che i dipendenti ci rilasciano per gli eventuali assegni familiari. Non so a che numero abiti, in ditta l’abbiamo, ma a memoria non ricordo, so che è quasi in piazza Bernini.”

“Va bene, non importa, lo troviamo noi. Quindi?”

“Dicevo che il suo telefono ha squillato a vuoto.”

“Gli altri?”

“Ho chiamato per secondo Cesare, Cesare Chiodi di preciso. Abita in via Don Bosco con la moglie. C’era, ma mi ha detto di non aver fatto caso a quale direzione avesse preso mio marito. Il terzo commesso, Amilcare Nobis, invece lo sapeva, l’aveva visto dirigersi proprio verso corso Valdocco e io avevo capito che aveva preso la solita strada. Nemmeno Umberto c’era, intendo Umberto Ronzi di Valfenera che è figlio del generale amico di mio marito: Marta, la sua mamma, era a casa da sola e m’ha riferito che il marito sarebbe rientrato tardi, perché aveva dovuto trattenersi al suo comando di brigata e, quanto al figlio, l’aveva chiamata da un bar informandola che non sarebbe rincasato subito.”

“Motivo?”

“Perché avrebbe mangiato in pizzeria con un compagno dell’ultimo anno delle superiori incontrato per strada, uno ch’era stato suo amico e s’era trasferito a Milano dopo il diploma: era solo di passaggio a Torino e avevano deciso, sul momento, di fare una breve rimpatriata mangiandosi assieme la pizza.”

“Quel vostro Umberto ha un diploma di maturità, a quanto ho capito.”

“Sì, è ragioniere, l’assumemmo tre anni fa per un favore al padre.”

“Come contabile?”

“No, come commesso. La contabilità la tiene mio figlio” – aveva indicato Clemente –: “Umberto ha il diploma ma preso col minimo dei voti a ventidue anni, dopo diverse bocciature, per cui non solo non aveva poi superato l’esame per l’ammissione all’Accademia Allievi Ufficiali di Modena, come suo padre avrebbe voluto, ma non gli era riuscito nemmeno di trovare un qualsiasi impiego ad altezza diploma. Bisogna però dire che come venditore è bravo, ha una buona parlantina.”

“Chi sa che delusione, per il padre, non vederlo indossare la divisa come lui.”

“Senza dubbio, brigadiere, conosco bene il generale, mio marito e io cooperammo con lui nella lotta di Liberazione.”

“Lei era partigiana, signora?”

“Sì. Il generale aveva chiesto a mio marito se avesse un posto da commesso per il figlio, e allo stupore d’Aristide che lo sapeva ragioniere, gli aveva rivelato come stavano purtroppo le cose: Umberto, fallito il concorso d’ammissione all’Accademia, aveva dato quello interno d’una banca, un istituto di diritto pubblico, per cui per entrare si deve superare un concorso, ed era stato bocciato. Così pure alle Poste. Alla FIAT, poi, non era stata presa nemmeno in considerazione la sua domanda scritta d’assunzione, nemmeno gli avevano risposto. Così…”

“…così il generale aveva pensato a voi. L’indirizzo preciso di quella famiglia?”

“Vivono in via del Carmine, in un bel palazzo quasi di fronte alla chiesa, l’appartamento è di loro proprietà, molto grande, coi soffitti alti quattro metri, al piano nobile, io non ci sono mai stata ma lo so da mio marito ch’è invitato sovente a cena dal generale e dalla moglie. Comunque, in ditta abbiamo il numero della via: il nostro Umberto abita coi genitori.”

“Lo troviamo noi. No, piuttosto, hanno ancora qualche notizia utile al ritrovamento?”

“No”, avevano risposto all’unisono i tre.

“Mi dicano però in che stato d’animo fosse lo scomparso oggi e negli ultimi giorni.”

Aveva parlato la signora Iride: “Diciamo… che non era molto in forma.”

“Più precisamente?”

“Era agitato e si sentiva debole: siamo inquieti.”

“Cause dell’agitazione e dell’astenia potrebbero essere preoccupazioni sul lavoro?”

“Oh, no, il lavoro va benissimo.”

“Pure in casa tutto bene?” aveva ancora chiesto: “Scusi la domanda, è necessaria: litigi?”

“No, no, ci mancherebbe altro” Va tutto bene.”

“Quindi non hanno idea dei motivi dell’inquietudine del loro congiunto?”

Assieme: “No”. “No. “No”.

Anche le sparizioni erano di competenza della nostra Sezione omicidi e reati contro la persona, potendo implicare fatti di sangue, perciò il giorno seguente, prima di smontare, il brigadiere Pitrini aveva portato, secondo la prassi, nell’ufficio del commissario capo D’Aiazzo e mio l’esposto dei Trastulli, insieme a un paio d’altre denunce della notte, perché all’arrivo il superiore li smistasse a commissari suoi dipendenti.

Io ero già in ufficio e il collega, lasciata sulla scrivania di Vittorio la sua pila di cartelle e indicatami con l’indice destro quella in cima, m’aveva detto: “Questi qua stanotte hanno denunciato la scomparsa del marito e padre, però non mi sembravano granché tesi. La moglie ha affermato ch’erano inquieti, e può anche darsi, ma a me non è parso che lo fossero granché. Non so, forse è stata solo una mia impressione falsa, in effetti c’è gente che sa trattenersi esternamente, mentre dentro soffre moltissimo. Però penso sia bene dirlo al capo. Io sto smontando, glielo riferisci tu?”

“Sì.”

Aveva ancor voglia di parlare: “Sarò forse maligno, ma mi sa che quelli sono interessati ai loro affari d’oro più che alla scomparsa del famigliare.”

“Te l’hanno detto loro che fanno affari d’oro?”

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