Il Terrore Privato Il Terrore Politico

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Capitolo 7

[Da “La Gazzetta Libera”]

Tutti gli uccisi dal Mostro dell’Orecchio

erano stati magazzinieri. Coincidenza?

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Le vittime si conoscevano? Potrebbero

essere a rischio anche loro ex colleghi?

Carla Garibaldi

È tristemente noto che sono arrivate ormai a cinque le vittime del Mostro dell’Orecchio, tutte ammazzate con un acuminato punteruolo piantato nell’encefalo attraverso l’apparato uditivo.

Ricordiamo che si chiamavano Maria Capuò Tron, Giovanna Peritti vedova Verdani, Margherita Piccozza Ferini, Alessandro Cipolla e Mosca Scrofagnocca.

Mentre l’identità e lo stesso profilo psicologico dell’assassino restano purtroppo celati, un particolare nuovo è emerso ieri, da una nostra ricerca negli archivi dell’Anagrafe torinese. Tutti gli uccisi e non solo, com’era già noto alla Questura, la Peritti e la Scrofagnocca avevano esercitato per anni il lavoro di magazziniere. La Capuò Tron aveva smesso di lavorare dopo il matrimonio, com’è risultato dai confronti con le sue successive carte d’identità, dalle quali ella risulta casalinga. La Piccozza Ferini, sempre secondo i documenti, aveva abbandonato il lavoro solo alcuni anni dopo le nozze, forse perché il marito, poi dirigente bancario, era ancora all’inizio della carriera e uno stipendio non sarebbe stato sufficiente. Il Cipolla aveva smesso il lavoro di magazziniere solo quand’era andato in pensione. Quanto alle altre due assassinate, la Scrofagnocca era ancora attiva al momento della morte, presso un magazzino di sanitari, mentre la vedova Verdani, pensionata da circa un anno al momento della morte, aveva tuttavia abbandonato il lavoro di magazziniera molto prima, quando s’era sposata con un commerciante cui aveva poi dato il proprio aiuto.

Anche se può essere solamente un nostro sospetto, ci permettiamo di sottoporre agl’inquirenti alcune domande:

Stabilito che tutti gli assassinati erano stati magazzinieri, in qualche periodo della loro vita avevano forse lavorato nella medesima azienda?

Questa ditta era forse, per tutti e cinque, la fabbrica di porte per docce, chiusa ormai da diverso tempo, dove sicuramente, com’è già noto alla Questura, la vedova Verdani e la Scrofagnocca avevano prestato la loro opera?

Qualora fosse questo il filo rosso che l’assassino ha seguito, altri antichi colleghi delle vittime potrebbero essere in pericolo? Ci sembra questa una domanda vitale.

In merito poi alla matrice satanica dei delitti ipotizzata dal vice questore Pumpo, potrebbero le stesse vittime, in passato, aver avuto a che fare, a qualsivoglia titolo, con quell’ambiente? Se sì, esso sarebbe stato in qualche modo collegato all’azienda in cui lavoravano? E in questo caso, i proprietari avrebbero potuto non esserne al corrente?

carlgari@gazzetta.it

Capitolo 8

“Ho letto il pezzo della tua collega”, m’aveva detto Vittorio, “e sono rimasto un po’ perplesso”.

“Perché s’è attribuito il merito della scoperta all’Anagrafe?”

“No, no, lo sai che te l’avevo detto io stesso, di chiederglielo. Intendevo che, in chiusura dell’articolo, ha azzardato un po’ troppo: anche se non s’esprime con chiarezza, sembra quasi ch’ella insinui che i proprietari della ditta fossero demonisti: potrebbe venirgliene una richiesta di risarcimento per danni morali, sai?”

“Non la teme, è assicurata come lo sono un po’ tutti i giornalisti, me compreso: col nostro mestiere, beccarsi querele non è mica difficile, sai?”

“Già, ma andarsele proprio a cercare…”

Il sostituto procuratore della Repubblica Marcello Trentinotti, forse spinto proprio dall’articolo di Carla, aveva esortato il vice questore Pumpo, e questi il Sordi, a procurargli al più presto i risultati dei controlli avviati presso l’Ufficio di Collocamento. Nel frattempo, aveva dato incarico a un cancelliere di raccogliere, presso gli archivi della Camera di Commercio, tutti i dati relativi alla fabbrica per docce Società Coniugi Corona & Figlio.

Era risultato che non solo due ma tutti e cinque gli assassinati erano stati dipendenti di quell’azienda e, per diverso tempo, avevano lavorato insieme.

La società era stata un’impresa familiare che aveva cessato la propria attività alla metà degli anni ’80. Ne erano stati proprietari madre e figlio, Luigia e Attilio Corona, dopo che il rispettivo marito e padre era deceduto per un ictus verso la fine dei ’70.

Mentre la donna era risultata morta da tempo, il figlio, un uomo di cinquantun anni pensionato per invalidità, dottore in architettura, era stato rintracciato e convocato dal pubblico ministero Trentinotti nel suo ufficio, per essere udito quale persona informata sui fatti. L’appuntamento era stato fissato per il 18 ottobre alle ore 10.

Quella mattina Attilio Corona s’era presentato puntualmente.

Ne era seguita una lunga conversazione col dottor Trentinotti, verbalizzata da un cancelliere.

Grazie alle proprie aderenze in Tribunale, Carla era riuscita a ottenere notizie sul colloquio e, il giorno seguente, era uscito un suo articolo.

Capitolo 9

[Da “La Gazzetta Libera”]

Il Mostro dell’Orecchio

conosceva le sue vittime?

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Avevano lavorato tutte nella stessa società

Carla Garibaldi

Gl’inquirenti hanno verificato e accolto l’ipotesi che in passato il Mostro dell’Orecchio fosse stato in rapporti, sullo stesso luogo di lavoro, con le future vittime. Risulta dagli archivi dell’Ufficio di Collocamento che gli assassinati avevano operato come magazzinieri nella ditta Coniugi Corona & Figlio s.n.c., una piccola società familiare produttrice e distributrice di porte per box doccia, che aveva cessato l’attività nel 1985, causa malattia dei proprietari, madre e figlio.

Mentre la donna è risultata da tempo deceduta, il figlio Attilio Corona, dottore in architettura ma non iscritto all’albo degli architetti, è stato convocato dal giudice dottor Marcello Trentinotti per essere ascoltato come persona informata sui fatti, ed è stato udito ieri mattina.

Il dottor Corona è persona di media statura e di fisico asciutto. S’è presentato in un elegante doppiopetto marrone e cravatta di seta unita d’eguale colore su camicia crema, resti d’una passata agiatezza, avendo egli affermato di vivere assai modestamente, con l’unico reddito d’una pensione d’invalidità concessagli in seguito a un ictus sofferto all’inizio del 1985, non molto prima di ritirarsi dagli affari, non ancora quarantenne. Dimostra tuttavia d’aver superato bene quell’insulto cerebrale.

Egli ha riferito al magistrato che, in seguito all’ictus, la ditta era stata liquidata dalla madre, ormai anziana e con qualche problema di memoria, dunque nell’impossibilità di continuare a gestire da sola l’azienda. L’architetto ha precisato che la cessazione della Coniugi Corona e Figlio era stata purtroppo svolta maldestramente dalla propria mamma e che, per questo, loro due erano rimasti, quasi, in stato di povertà, lei con la pensione artigiana e lui con quella modesta da invalido e la sola proprietà del monolocale in cui tuttora vive. Ha aggiunto che non molto dopo la chiusura, nella donna s’era rivelato in tutta la sua gravità il devastante morbo d’Alzheimer, che già doveva aver fatto capolino al tempo della liquidazione dell’azienda. Fortunatamente, intanto il Corona s’era rimesso abbastanza in salute e aveva potuto assistere la madre fin alla morte di lei, avvenuta nel 1987, per una polmonite che il male cerebrale cronico della donna aveva reso letale nonostante un pronto ricovero. Il dottor Corona, che s’è mostrato ben lucido nel corso di tutta la conversazione col magistrato, su richiesta del medesimo ha poi ricordato e descritto le figure delle cinque vittime del Mostro dell’Orecchio, tutte sue ex dipendenti addette al magazzino materie prime o a quello vendite. Ha affermato in sostanza che nessuna di esse brillava per diligenza. A precisa domanda del dottor Trentinotti, ha risposto che non gli risultava che avessero avuto nemici in ditta, aggiungendo di sua iniziativa che potevano però averne avuti al di fuori, nell’ambiente dell’estrema destra, essendo stati militanti comunisti, com’egli aveva inteso a suo tempo orecchiando loro conciliaboli. Alla richiesta del giudice se non gli fossero sorte perplessità, ultimamente, nel sapere che qualcuno stava ammazzando suoi ex dipendenti, ha risposto che non ne era al corrente non leggendo giornali, per ragioni economiche, e non possedendo un apparecchio televisivo, in quanto non amava la televisione e desiderava, comunque, non sborsare il canone. Ha spiegato, senza remore, che, da quand’era mancata la mamma e, con lei, la materna pensione, egli era rimasto veramente molto povero, per cui risparmiava anche la lira.

Purtroppo, secondo voci dal Tribunale, non pare che la deposizione di Attilio Corona potrà essere utile alle indagini sul Mostro.

carlgari@gazzetta.it

Capitolo 10

Vittorio pensava che, al fine di studiare più a fondo il caso del Mostro dell’Orecchio, potesse essergli utile una conversazione con Attilio Corona. S’era adoperato quindi per avere l’indirizzo dell’architetto. Del tutto ovviamente, l’aveva cercato anzitutto sulla guida, ma il Corona non doveva avere telefono fisso e, comunque, il suo nome non figurava sull’elenco. D’altra parte, non era stato possibile a Vittorio d’ottenere l’informazione in Questura, in quanto la legge sulla privacy, in vigore ormai dal 1997, non consentiva agl’inquirenti, e nel caso particolare al Sordi cui Vittorio s’era rivolto, di fornire dati anagrafici di testimoni. Il commissario avrebbe sicuramente fatto un’eccezione per Vittorio ch’era, in fin dei conti, suo collaboratore di fatto, ma il vice questore Pumpo aveva da poco ricordato ai dipendenti le norme sulla privacy, con una circolare perentoria, per cui quando il mio amico aveva telefonato a Evaristo chiedendogli l’indirizzo del Corona, il commissario aveva preferito negargli la risposta.

 

Era stata Carla Garibaldi a individuare, immagino tramite un’agenzia d’investigazioni, di cui talvolta si serviva, e a rivelarmi la residenza dell’architetto, che io avevo telefonato subito a Vittorio. In paga, egli mi aveva invitato a cena al solito ristorante.

Quella sera, tra la prima e la seconda portata, m’aveva detto: “La mansarda di Attilio Corona si trova a un tre chilometri da qui, sotto la parrocchia di San Taddeo, di cui è parroco quel don Giulio Colamonti di cui…”

“…di cui aveva scritto Carla nel suo articolo sul demonismo”.

“Sissignore, hai buona memoria, proprio quel prete che s’era preso un esaurimento nervoso, a dire poco, per colpa di satanisti che l’avevano aggredito”.

“Spuntano di nuovo fuori le sette demoniache, in qualche modo”.

“Già, però, fin a prova contraria, io non penso che don Colamonti abbia ancora a che fare con quella gente, credo che da decenni faccia il parroco e basta. Un’altra cosa: gli ho telefonato un paio d’ore fa, presentandomi come questore senza dirgli che sono ormai in pensione, e gli ho chiesto di ricevermi; lui ha accettato: cercherò di sapere cosa sappia del suo parrocchiano Corona, poi cercherò di parlare suo tramite al medesimo”.

Vittorio aveva ancora un discreto passo, nonostante i suoi ottantun anni sonati, e il mattino dopo s’era recato a piedi all’incontro.

Com’egli m’avrebbe riferito, insospettito nel vedersi innanzi un uomo in evidente età di pensione il sacerdote gli aveva chiesto: “È lei il questore D’Aiazzo?” calcando la voce sulla parola questore e non invitandolo a sedersi, nonostante tre cassapanche correnti, l’una dietro l’altra, lungo una delle pareti dell’anticamera quadrangolare, al piano terreno, dove l’aveva accolto.

“Sì, precisamente sono un questore emerito, cioè in pensione, ma sempre attivo come consulente della Polizia”.

“Ah, ecco”.

“Come le avevo detto al telefono, sono stato inviato per avere informazioni sul dottor Attilio Corona, suo parrocchiano, e possibilmente per essergli in seguito presentato”.

“Lei a quale dirigente fa riferimento in Questura?”.

“Al sostituto commissario Sordi”.

“Capito. Solo un momento per favore, e intanto s’accomodi, se vuole”.

Vittorio, piuttosto stanco per la passeggiata, aveva accolto l’invito. Aveva capito che l’altro intendeva verificare la sua identità in Questura, e aveva sperato che il Sordi fosse in ufficio, dispiacendosi di non averlo avvisato prima.

Il parroco era tornato una decina di minuti dopo e s’era seduto sorridente accanto al mio amico. Evidentemente Evaristo, o qualcuno del suo ufficio, aveva sostenuto la tesi di Vittorio. Il prete non ne aveva però detto nulla, aveva riferito piuttosto d’aver chiamato al telefonino Attilio Corona suggerendogli di venire a parlare direttamente col questore, dato che viveva nei paraggi: doveva aver stimato preferibile che fosse direttamente l’interessato a colloquiare, riservandosi lui, come padrone di casa, d’intervenire, all’evenienza, in veste di arbitro.

Nell’attesa, forse solo per far passare i minuti necessari ma apparendo a Vittorio un po’ indiscreto, don Colamonti gli aveva rivelato ch’egli stesso aveva fatto dono al Corona del cellulare, scegliendolo fra rimanenze, ormai obsolete perché di notevole dimensione, in liquidazione presso un vicino negozio, e ch’era sempre lui a pagargli le ricariche, essendo l’architetto uno dei membri del Consiglio Pastorale e della San Vincenzo e venendo utili, a volte, contatti telefonici. Il parroco aveva poi preso a parlare banalmente del tempo e, poco dopo, avevano sonato alla porta.

Come ci s’aspettava, era Attilio Corona.

Il mio amico s’era alzato e Don Giulio aveva fatto le presentazioni. Vittorio s’era un poco stupito della vigorosa stretta di mano dell’architetto e aveva pensato che il passato ictus si fosse sostanzialmente risolto, sebbene restasse sul Corona, quale testimonianza dell’insulto cerebrale, una smorfia fissa sull’estremo sinistro della bocca.

Don Giulio aveva preso la parola: “Ora, questore D’Aiazzo, lei potrà chiedere personalmente all’amico Attilio; se però non le spiace, solo alla mia presenza”.

“Certo, reverendo; come le avevo anticipato ero venuto anche per essere introdotto all’architetto, e la ringrazio per aver stretto i tempi”.

Il parroco aveva fatto un cenno d’approvazione col capo e aveva invitato i due a sedersi, quindi s’era scostato d’alcuni metri, restando in piedi a portata d’orecchio: “Prego, parlino liberamente”.

“Senta, architetto…”

“…solo dottore, lo preferisco, questore D’Aiazzo: non sono mai stato iscritto all’albo, perché per la mia attività d’impresa non sarebbe servito”.

Capisco. Senta, dottor Corona, la domanda potrebbe apparirle un po’ personale, ma può riguardare la nostra ricerca: mi pare che lei sia abbastanza in forze, però non ci risulta che abbia mai più lavorato dopo l’ictus, sebbene lei viva piuttosto… mi perdoni… dimessamente”.

Silenzio.

“Mi scusi ancora, come mai non aveva pensato d’intraprendere, con la sua laurea, la libera professione, quando s’era rimessa in salute? Magari anche solo come assistente in uno studio tecnico: così, tanto per arrotondare”.

“Non avrei potuto”.

“Sì, dottor D’Aiazzo, è così”, s’era messo di mezzo don Colamonti, temendo forse chi sa quali sospetti verso quel suo parrocchiano che doveva sentire come amico e protetto. S’era rivolto al Corona: “Posso dire io, Attilio?”

L’altro aveva fatto sì con la testa.

Il parroco aveva proseguito: “L’ictus ha lasciato postumi, anche se non evidenti, e proprio per questi Attilio ottenne la pensione d’invalidità: gli capita, ancor oggi, di perdere conoscenza, senz’avvisaglie. Può succedere in due modi, come ho constatato io stesso: o che egli semplicemente svenga, rischiando di contundersi se non c’è nessuno accanto a trattenerlo dallo stramazzare, oppure che per un certo tempo resti in istato di estraniazione, pur rimanendo in piedi e continuando a interagire col mondo”.

“Vale a dire senza perdere i sensi, ma non essendo presente a sé stesso”.

“Sì, e non avendone poi alcuna memoria, come se fosse caduto in trance. I casi peggiori sono forse proprio questi, perché potrebbe farsi anche più male, persino restare ucciso se, per esempio, essendo in strada finisse sotto un’auto o un tram”.

“I medici cosa ne dicono?”

“Nessuna cura”, aveva ripreso la parola l’interessato.

Gli aveva chiesto Vittorio: “Dopo che torna in sé, lei non rammenta nemmeno qualcosina, che so, anche solo un flash d’immagini o un quid di suoni?”

“Dopo esser tornato dal rapimento, come lo chiamo io, non ricordo assolutamente niente. Lei capisce che mi sarebbe impossibile conservare un lavoro; ci avevo provato, sa? dopo la morte di mia madre, impiegandomi presso un geometra, ma… insomma, era stato un dramma. M’ero dimesso io stesso, per non mettere in imbarazzo il principale e i colleghi. A parte queste cose personalissime, questore D’Aiazzo” – aveva calcato su personalissime mentre, per un attimo, gli occhi gli erano divenuti non belli – “io non so quanto possa servire, a loro della Polizia, parlare con me dei delitti di quell’assassino seriale: quello che so sulle vittime, l’ho già detto al pubblico ministero. Comunque, sono disposto a risponderle, ma lei mi chieda con precisione”: aveva parlato in tono deciso, come l’uomo abituato a dar ordini che doveva essere stato ai tempi della sua attività d’impresa.

“Com’erano i vostri rapporti col personale?”

“Non erano soddisfacenti. Come avevo già detto al giudice, il personale era negligente, sebbene noi facessimo appieno il nostro dovere di legge”.

“Quei cinque uccisi dal Mostro erano solo negligenti, oppure indisciplinati o… persino qualcosa di peggio? Sappiamo ch’erano anni di contestazione durissima nelle aziende”.

“Senta, questore, magari le dico prima qualcosa sulla mia famiglia, così capirà meglio”.

“Casata ottima!” non s’era trattenuto il parroco.

“Ti ringrazio, don Giulio. Ebbene, questore, mio padre, orfano di padre artigiano morto in un incidente sul lavoro, aveva dovuto iniziare a lavorare all’età di dodici anni, come apprendista e poi come muratore presso uno zio, piccolo artigiano edile. Però suo desiderio era salire e, stringendo i denti, aveva studiato da geometra frequentando una scuola serale. Nonostante gli ostacoli, era giunto al diploma a soli diciannove anni. Ne era seguito un impiego municipale conquistato per concorso. L’aveva però dovuto lasciare quasi immediatamente, perché era stato chiamato alle armi con la propria leva. S’era ormai in guerra ed egli aveva servito in Sicilia in una delle batterie costiere, come sottotenente di complemento. Nel luglio 1943, durante lo sbarco anglo americano, era stato fatto prigioniero con tutto il suo reggimento e relegato in un campo del Texas, da cui era stato rimpatriato solo a fine guerra, riprendendo, com’era nel suo diritto, il proprio posto nel Comune di Torino. Era stato all’inizio del 1947 che mio padre aveva conosciuto mia madre, durante una serata a casa di comuni amici. Mamma diceva ch’era stato immediato l’innamoramento fra papà e lei, seguito dopo breve tempo dalla decisione di sposarsi. Intanto mio padre aveva cambiato lavoro, assunto come direttore tecnico dalla piccola azienda che sarebbe divenuta quella di famiglia. Mia nonna paterna era ormai morta, fin dai primi giorni di guerra, mitragliata per strada dal pilota d’uno di quei caccia-cecchini francesi che la propaganda fascista chiamava con dileggio i Pippo, ma che facevano non poco male agl’innocenti civili. Anche la nonna materna era rimasta uccisa in guerra, sotto il gran bombardamento di Torino nella notte fra il 12 e il 13 luglio 1943, quando mia madre aveva da poco compiuto i vent’anni. Solo il nonno materno, direttore di banca, era sopravvissuto al conflitto, ma era poi mancato d’infarto l’anno successivo al matrimonio dei miei e mia madre ne aveva ereditato un discreto patrimonio: era il 1947. Due anni dopo, ero appena nato io, il proprietario della ditta dove lavorava papà aveva deciso di cederla e, grazie al capitale della mamma e a mutui bancari, i miei genitori erano subentrati. Gente seria, tutta dedita al lavoro e incapace di sperperare, s’erano fatta meritatamente una buona fortuna, restituendo i prestiti e poi investendo nell’azienda, creando posti di lavoro e, a mano a mano, impiegando denaro pure in qualche appartamento. Avevano sempre e solo lavorato duro e avrebbero meritato elogi e, mai e poi mai, attacchi dai dipendenti, ch’essi tenevano doverosamente in regola e che pagavano puntualmente, a differenza di certi concorrenti. Invece, dal 1976 l’azienda era stata aggredita dal personale, nel disprezzo per i sacrifici continui dei miei genitori. Ovviamente contrariavano pure me, anzi anche di più perché avevo avuto quella che si usa dire la pappa fatta”.

“Era stata un’ingiustizia, Attilio”, gli era stato solidale don Giulio, avvicinatosi di più, ponendogli la mano destra sulla spalla sinistra; e così Vittorio aveva notato che il prete non era mancino.

Il mio amico aveva chiesto all’architetto: “Quando, precisamente, lei era entrata in azienda?”

“Alla fine del 1975, a ventisei anni. Fino ad allora avevo vissuto la parte migliore della mia vita, sino a quando cioè, laureatomi in architettura e svolto il servizio militare, ero stato associato in ditta dai miei. Con l’aggravarsi in generale della protesta sociale, anche da noi gli attacchi erano divenuti duri, e, peggio, s’erano ulteriormente appesantiti dopo che avevamo assunto, quasi contemporaneamente, due elementi negativissimi: Maria Capuò, la nana come la si chiamava tra di noi, ché credo non superasse il metro e quarantacinque, e Giovanna Peritti, la Pasionaria di Mirafiori com’ella stessa si vantava d’esser chiamata dai suoi compagni di partito. Erano presto divenute le caporione dei contestatori della nostra vulnerabile aziendina familiare. A causa dei sistematici attacchi del personale, il morale di noi tre proprietari s’era sempre più depresso. In piena protesta aziendale, la mia sofferenza e quella di mia madre s’erano aggravate, e di molto, perché era morto mio padre, per un ictus, provocato indirettamente, ne sono certo, da quella Giovanna Peritti: il giorno prima della sua morte, così lui ci aveva poco dopo riferito, papà le aveva dato una disposizione e lei, senza neppur ascoltarlo sin in fondo, l’aveva insultato dicendogli: ‘Vecchio scemo, cosa ne capisci tu che sei un fascista?!’ dandogli una spinta che, essendo lui piuttosto anziano, l’aveva buttato a terra. Non c’erano stati testimoni, ovviamente, anche noi eravamo di là, in ufficio, la donna era furba e se l’era cavata senza pagare pegno: mancando testimoni sarebbe stato inutile denunciarla, anzi dannoso, e senza denuncia non era stato possibile mandarla via, a causa dello Statuto dei Lavoratori”.

 

“Avevate dunque molti dipendenti”.

“No, questore, ma più di quindici sì, purtroppo, numero oltre il quale lo Statuto imponeva di fornire la cosiddetta giusta causa per poter licenziare: anche alle aziendali familiari come la nostra”.

“Quanto personale avevate, di preciso?”

“Diciotto, in quel periodo: mai stati una grossa impresa. Era stata quell’ingenua di mia madre a condurci oltre il confine dei quindici lavoratori. La mamma, senza conoscere la legge né informare mio padre e me, nel 1976 aveva assunto contemporaneamente, per di più senza chiedere informazioni su di loro, un apprendista operaio, bravo ragazzo peraltro, un certo Piero, e tre individui che si sarebbero ben presto rivelati sovversivi, Maria Capuò, Giovanna Peritti e Ruggero Rigoletti; così la mamma, povera donna, aveva portato irresponsabilmente il nostro organico da quattordici a diciotto elementi. Poi quel Rigoletti, dopo aver combinato i suoi bravi disastri, s’era licenziato, e… ah, sì! anni dopo avrei saputo ch’era diventato un brigatista rosso e che l’avevano arrestato e condannato, e credo che sia tuttora in galera…”

“…hmm…”

“…proprio così; ma a parte questo, dopo le sue dimissioni il personale era sì sceso, ma restando purtroppo di diciassette elementi, sempre troppi, lo Statuto restava in vigore; ed esso stabiliva anche il diritto dei dipendenti all’organizzazione interna aziendale, il che significava continui confronti fra noi e il comitato sindacale”.

“Chi faceva parte del comitato?”

“Si trattava proprio dei cinque ammazzati dal Mostro; no, aspetti, prima c’era stato quel Rigoletti, non Alessandro Cipolla che gli era subentrato quando l’altro s’era dimesso”.

Era intervenuto don Colamonti, con tono ed espressione preoccupati: “Attilio, tutte ’ste cose sono davvero utili?”

“Perché, forse…”

“…eh, sì. Sei un brav’uomo, ma stai rischiando ingiustamente di far pensare male di te”. Il parroco s’era indirizzato a Vittorio: “Sono il confessore d’Attilio, le assicuro che è una bravissima persona e che non porta rancori a nessuno”.

“Non lo metto in dubbio, reverendo”, aveva mostrando noncuranza il mio amico, e s’era indirizzato all’ex imprenditore: “Prima lei aveva detto di suo padre morto di ictus…”

“Sì, che il giorno dopo l’angheria subita da Giovanna Peritti era mancato di ictus. Mia madre e io eravamo rimasti soli a contrastare la violenza dei nostri ribelli casalinghi, io ormai molto depresso, la mamma coi nervi scossi fin quasi all’isteria; e credo che proprio questo avesse portato la poveretta all’Alz… perché la mamma era poi stata aggredita dal morbo d’Alzheimer”.

“Ci era noto”.

“Penso che anche mamma, come me, si fosse ammalata per colpa di quegli agitatori. Era una situazione psicologica sconvolgente perché la ditta era ormai in difficoltà economiche, il che avrebbe richiesto la piena collaborazione del personale, se non altro per tentare di raggiungere un pareggio di bilancio, mentre quei signori ci facevano la forca…

Colpi di tosse insistititi di don Colamonti.

“…sì, sì, don Giulio, tu hai ragione, ma uno che, come me, non ha mai fatto male al prossimo non deve temere la verità”.

“Hmm…” era solo venuto da don Colamonti, ma con un’espressione assai simile a quella della maschera della tragedia greca.

“Questore”, aveva continuato il Corona come se il sacerdote avesse, al contrario, approvato sorridente, “quei signori c’infliggevano qualsivoglia azione che potesse arrecarci danno, purché non rischiassero di scontarla. Ad esempio, rovinavano nascostamente merce pronta per la spedizione, oppure ci calunniavano con clienti e fornitori, e in questo era specialista la nana; oppure arrivavano volutamente in ritardo al lavoro un giorno sì e uno no, tutti d’accordo, sia le due caporione sia coloro che le seguivano, cioè quasi tutti; e poi, con futili scuse, ecco scioperi interni a singhiozzo, improvvisi e anche soltanto di poche ore, ma di gran danno soprattutto quando c’erano ordini urgenti da evadere: si voleva farci perdere clienti. Infine, quegli agitatori maltrattavano verbalmente e con spintoni i pochi colleghi che non erano determinati contro di noi, sino a ridurli all’obbedienza, ed erano giunti ad aggredire fisicamente uno di loro, Piero: poveretto, di cognome quel bravo giovane faceva Mèrdon, come lo pronuncio io e come lui per primo si presentava calcando sulla vocale e, ma i colleghi lo chiamavano, ghignando, Merdòn, con l’accento sulla o, e questo insulto già gli era stato inferto dai compagni dell’orfanotrofio dov’era cresciuto: se n’era sfogato una volta con mio padre il quale, essendone stimato, molto lo teneva in considerazione, anche perché Piero, proprio come aveva fatto lui, con doppia fatica seguiva un corso superiore di studi alla sera, dopo il lavoro. Quel giovane era forse l’unico che davvero non fosse nostro nemico, il migliore dei nostri dipendenti, e lo ricordo con piacere: grazie al cielo, qualche figlio della luce c’è, dopotutto, fra tanti figli delle tenebre.

Aveva osservato Vittorio: “Una volta maggiorenne avrebbe potuto chiedere agli uffici anagrafici il cambio di cognome; ed è strano che non l’avessero già fatto i suoi genitori”.

“Dovevano essere poveri ignoranti, certo la famiglia era d’infima estrazione sociale, come lo stesso Piero aveva confidato una volta, con amarezza, a mio padre: il suo papà era stato manovale generico, sovente disoccupato, la mamma, pensi un po’ lei! La custode d’un gabinetto pubblico il che, a causa del cognome ch’ella aveva acquistato per matrimonio, la sottoponeva a pesanti lazzi da parte delle vicine, una casa di ringhiera a Porta Palazzo, sa? gente incolta la quale, e anche di questo Piero s’era sfogato una volta con mio padre, diceva di lei cose come: ‘La Merdòn fa onore al suo nome, lavora nei cessi!’ – ‘Speriamo per lei che non ci caschi dentro, se no, se tirano l’acqua, addio Merdòn’: erano frasi che il bimbo aveva sentito direttamente, soffrendone allo spasimo. Penso che anche per tali cose avesse voluto salire grazie agli studi. A ben maggiore sua sfortuna, era rimasto orfano d’entrambi i genitori assai presto, sugli undici anni, per un autobus di linea che li aveva investiti mentre attraversavano a braccetto corso Regina Margherita, nei pressi di casa, senza colpa dell’autista peraltro, essendo essi fuori dalle strisce, per cui neppure c’era stato un risarcimento al figlio. Il bambino era stato semplicemente ricoverato in orfanotrofio. Dopo la licenza di terza media, si era verso la metà degli anni ’70, come nella prassi i superiori gli avevano cercato un lavoro, perché provvedesse al proprio mantenimento in istituto, nel quale doveva restare fino alla maggiore età, che da non molto la legge aveva abbassato dai ventuno ai diciotto anni. Gli avevano trovato un posto da noi, come apprendista operaio: se muniti di diplomino di terza media era consentito infatti, con speciale autorizzazione dell’Ufficio di Collocamento, di accedere al lavoro già dopo i quattordici anni compiuti anziché, come nella regola, dopo i sedici: era per non lasciare i giovani più intelligenti, ma che non proseguivano la scuola, a far nulla per due anni, col rischio di ricevere danno dall’ozio. Poiché il giovane amava la cultura e ambiva salire, avrebbe continuato ben volentieri a tempo pieno i suoi studi, se l’orfanotrofio gliel’avesse consentito, ma non era previsto dal regolamento; dunque, grazie al salario che solo in parte doveva versare allo stesso orfanotrofio, ottenuto il beneplacito del direttore, che aveva la patria potestà su di lui, Piero s’era iscritto e mantenuto a una scuola serale, corso per maestri elementari che, in quegli anni, era ancor solo quadriennale. A parte questo, forse perché abituato alla rigida disciplina del collegio, il giovane si mostrava con noi ben educato e obbediente e, come ho detto, sempre arrivava puntuale al lavoro, anche perché non aveva affatto idee sovversive: ci aveva detto d’essere un demoliberale come il suo direttore. Penso che anche per questo fosse malvisto dai nostri rivoluzionari e, immagino, pure perché continuava a studiare con la prospettiva di salire: dietro l’ideale rivoluzionario, signor questore, certe volte si nasconde la mera invidia. In cambio, e lo intuivo da certe occhiate che lanciava a quei colleghi, anch’egli li disistimava, se addirittura non li detestava”.

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