Il Terrore Privato Il Terrore Politico

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Il Terrore Privato Il Terrore Politico
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Guido Pagliarino

Il T errore P rivato

I l T errore P olitico

Romanzo

Copyright © 2017 Guido Pagliarino

All rights reserved

Published by Tektime

Guido Pagliarino

Il T errore P rivato, I l T errore P olitico

Romanzo

Terza E dizione R iveduta e Variata

D istribuit a da Tektime come libro e come e-book

Copyright © 201 7 Guido Pagliarino

Stesura del dattiloscritto tra il 2006 e il 2009

1a Edizione, in formato cartaceo e in diversi formati elettronici, Copyright © 2012-2013 Edizioni GDS

2a Edizione,in formato cartaceo stampato da Create Space e in e-book di vari formati, Copyright © 2016 Guido Pagliarino

Le copertine di tutte le edizioni sono state realizzate da Guido Pagliarino, Copyright © dell'autore

A parte le persone note alla cronaca e alla Storia, i personaggi, le vicende, i nomi e cognomi di persona, le denominazioni di enti e ditte e le loro sedi che appaiono nel romanzo sono immaginari. Eventuali riferimenti a persone reali fisiche o giuridiche e, in generale, alla realtà passata e presente sono involontari.

Indice

Guido Pagliarino Il Terrore Privato Il Terrore Politico Romanzo

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9

Capitolo 10

Capitolo 1 1

Capitolo 12

Capitolo 13

Capitolo 14

Capitolo 1 5

Capitolo 16

Capitolo 17

Capitolo 18

Capitolo 19

Capitolo 20

Capitolo 21

Capitolo 22

Capitolo 2 3

Capitolo 2 4

Capitolo 25

Capitolo 26

Capitolo 27

Capitolo 28

Guido Pagliarino

Il Terrore Privato

Il Terrore Politico

Romanzo

Capitolo 1

Il Mostro dell’Orecchio, come i media l'avrebbero presto soprannominato un po' grottescamente, aveva assassinato per la prima volta in una mattina di fine settembre del 2000, vittima una signora benestante, Maria Capuò coniugata Tron, casalinga cinquantaduenne moglie d’un medico ospedaliero, ammazzata nella loro villetta collinare torinese, in strada Mongreno, mentre il marito Amilcare era di turno e la collaboratrice familiare era uscita per commissioni. La coppia non aveva figli. Il cadavere era stato ritrovato al rientro dalla governante, una filippina regolarmente immigrata, riverso sul pavimento della camera da letto. Come l’autopsia avrebbe accertato, la vittima non era stata violentata né seviziata in alcun modo, ma uccisa sveltamente, anche se in modo atroce, con un colpo secco di punteruolo affondato in un orecchio, perforandole il cerebro. Nessun disordine nella casa.

La Polizia era stata chiamata dal vedovo che, avvertito telefonicamente in ospedale dalla domestica, s’era precipitato a casa da cui aveva composto il 113.

Secondo i primi accertamenti l’omicida, dopo aver scavalcato il muretto che circondava il villino, poteva essersi introdotto nell’abitazione attraverso una delle finestre al piano terra, lasciate aperte in quel fine settembre che godeva ancora d'un clima estivo.

L’assassino, e sarebbe stata l’unica volta, s’era appropriato di gioielli custoditi in un cofanetto entro un comò nella stanza del delitto, per un valore, stimato dall’assicurazione, di trecento milioni di lire, vale a dire d’oltre centocinquantamila euro odierni.

I primi sospetti, considerando il furto, s’erano indirizzati verso la domestica, quanto meno quale possibile basista. La donna, su autorizzazione del dottor Marcello Trentinotti, sostituto procuratore della Repubblica deputato ad armonizzare le indagini sul caso, era stata fermata la mattina dopo, condotta in Questura e interrogata dal sostituto commissario Evaristo Sordi, incaricato delle indagini sul delitto dal competente direttore della Sezione Omicidi della Squadra Mobile, vice questore Giandomenico Pumpo. Il Sordi, come avrebbe relazionato al giudice, aveva rilasciato la donna verso sera per totale mancanza d’indizi.

Giorni dopo un nuovo delitto l’aveva discolpata del tutto, prospettando la diversa pista dell’assassino seriale.

Benché pensionato fin dal 1984, il mio caro e unico amico Vittorio D'Aiazzo, questore emerito, s’era voluto occupare del caso, di concerto con la Polizia in veste d'informale consulente, così come già aveva fatto, dopo il proprio pensionamento, per alcuni casi particolarmente interessanti. Il 30 aprile del 2001 Vittorio avrebbe compiuto ottantadue anni, ma l'età non gli aveva fatto perdere la verve. Non si trattava soltanto, per lui, d’un intrigante passatempo onde sentirsi ancor attivo, ma d’un “servizio di bene agli altri” come mi aveva detto una volta, “servizio che voglio continuare a svolgere per contribuire a rendere un po’ meno ingiusta quest’amorale società e, magari, un po’ meno infelice il mio prossimo”: era una delle sue maniere per obbedire a quel precetto d’amore che aveva cercato d’attuare, immagino, in tutta la sua vita e, di sicuro, da quando l’avevo conosciuto negli ormai lontani anni ’50 del sanguinario e insanguinato XX secolo che stava ormai per chiudersi senza promettere alcun miglioramento per il millennio veniente.

Ammiravo la fede esistenziale del mio amico, che ben poco aveva a che fare con la religione, se con tale parola s’intenda convenzionalmente la sudditanza e il servizio, colmo d’obblighi liturgici, a un Dio potentissimo e pretenzioso, immune dalle sofferenze umane: era una fede che s’esprimeva concretamente nel fare il bene agli altri, sull’esempio del martoriato suo Maestro evangelico che, secondo Vittorio, aveva espresso nel mondo l’amoroso sentire dello stesso Dio. “Ovviamente”, m’aveva detto una volta, “quando una persona percorre, per quanto può, la via dell’amore verso il prossimo, è impossibile che questa non continui anche dopo la morte, nell’Eterno Amore”. Purtroppo, diversamente dall’amico io non ero e non sono credente; dico purtroppo perché, non essendo più giovane, penso spesso, più che nel passato, alla morte con la sua putrefazione e, se solo il niente c’è dopo l’ultimo respiro, all’inutilità tragica della vita. Tuttavia era stato proprio tal pessimistico sentire a condurmi, sin da giovanetto, a quello stesso desiderio di giustizia che animava il mio amico, anche se per me si trattava d’una giustizia che poteva essere solo terrena; e convinto com’ero che nella tragedia cosmica in cui avevo parte, fosse almeno indispensabile la piena solidarietà fra gli umani secondo l’etica, per me intramontabile, che ha in onore ogni persona, provavo sdegno altissimo verso coloro che accorciavano coscienti il bene della vita altrui, di già tanto breve, e verso i violenti in genere che tormentavano i pochi anni concessi sulla terra agli umani; e mi trovavo del tutto d’accordo con Vittorio quando mi diceva che, sin dagli anni ’60 del XX secolo, il vivere civile s’era vie più abbrutito nell’affievolimento e infine nella perdita, in molti, dei tradizionali ideali filosofico-sociali o religiosi, onde la vita di quelle stesse persone s’era resa puro esercizio del proprio egoismo, secondo quella che il mio amico chiamava la regola del faccio quanto mi pare se mi sembra conveniente.

 

Vittorio aveva fatto rapida carriera fin ai primi anni '70, promosso vice questore in età ancor giovane, poi più nulla, ingiustamente; solo nel giorno del collocamento a riposo era asceso automaticamente, come previsto dai regolamenti, al superiore livello, e alla pensione, di questore.

Il mio amico non aveva né famiglia né prossimi parenti: vedovo lui da gran tempo, senza figli, e scapolo io, parimenti solitario, ci sentivamo come fratelli.

Io sono Ranieri Velli detto Ran, giornalista e scrittore e, negli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo, collaboratore, col grado di vice brigadiere, dell’allora commissario Vittorio D’Aiazzo nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza.

Ero il più giovane dei due, veleggiavo soltanto, si fa per dire, verso i sessantotto, compleanno il successivo 1° d’agosto 2001. Come Vittorio già godevo di pensione, pur non avendo smesso l’attività d’opinionista sulla stampa quotidiana: nel più lontano passato, quando ancora non c’erano le facoltà di Scienze delle Comunicazioni e pure un non laureato, dopo il debito praticantato, poteva accedere alla carriera di giornalista, avevo lavorato alla gloriosa Gazzetta del Popolo, quotidiano torinese che, fra sospensioni e riprese nel suo ultimo decennio di vita, aveva cessato del tutto le pubblicazioni il 31 dicembre 1983; quindi ero passato ad altro foglio, La Gazzetta Libera, fondato l’anno successivo, niente a che fare con l’antecedente quotidiano omofono, anche se creato anch’esso come contraltare torinese dell’immarcescibile La Stampa che, in sostanza, significava FIAT: grazie alle sovvenzioni d’un gruppo economico che ne aveva interesse, la novella Gazzetta, sebbene non fosse mai arrivata alla buona tiratura della precedente, era giunta viva al XXI secolo.

Se Vittorio era il mio unico amico, egli godeva invece di più di un'amicizia, pur se tutte meno profonde. Anche Evaristo Sordi poteva dirsi amico di Vittorio pur non avendolo frequentato nella vita privata. Anni prima era stato suo aiutante nella Sezione Omicidi della Squadra Mobile dopo che io, suo predecessore, e scrittore part time, avevo presentato le dimissioni per dedicarmi interamente alla scrittura. Evaristo era giunto al massimo della carriera per un non laureato, alla funzione d'ispettore superiore sUPS vale a dire di sostituto Ufficiale di Pubblica Sicurezza, detto comunemente “sostituto commissario” ricoprendone le funzioni. Di non molto più giovane di me, non era lontano dalla pensione. L'uomo portava importanti baffi da tempo grigi e aveva ancora, nonostante gli anni, una gran quantità di capelli, parimenti sale e pepe. Era figura prospera, tanto quanto lo era quella del mio amico Vittorio il quale tuttavia, a differenza d’Evaristo, non era uomo d’elevata statura. Ero io il più alto dei tre e di molto, quasi un metro e novanta, e inoltre magrissimo da sempre anche se, disgraziatamente, negli ultimi anni m’ero un poco ingobbito, a causa della mia pessima abitudine, comune alle persone torreggianti, di chinarmi verso i molti interlocutori di statura minore, cominciando dallo stesso Vittorio.

Vittorio aveva saputo del primo crimine da un telegiornale della sera e, la mattina seguente, ne aveva letto con calma sul nostro quotidiano, in un articolo della capo redattrice di nera Carla Garibaldi, mia collega nubile sulla quarantina, una donna sul metro e settantacinque che, a causa d’eccessivo body building, “svolto quotidianamente” come m’aveva detto, aveva braccia e polpacci, e probabilmente cosce, un po’ troppo muscolosi per i miei gusti d’uomo della vecchia guardia. Era inoltre obiettivamente imbruttita da prognatismo mandibolare e da un naso troppo piccolo per la conformazione del suo viso notevolmente largo. Era peraltro persona di grande cultura e dal carattere franco e schivo, con la quale mi trovavo bene, a differenza che con certi spocchiosi del nostro giornale.

C’era stato mio tramite, come già per casi passati, uno scambio di notizie fra Vittorio e Carla e viceversa, con vantaggio di lei, tutto sommato, perché l’amico godeva, di solito, d’informazioni di prima mano in quanto sovente visitava in Questura il Sordi. Questi aveva già avuto, in casi precedenti, suggerimenti decisivi dal pensionato questore, per cui non era solo per deferente simpatia che soleva accoglierlo nel suo ufficio e, a volte, sui luoghi stessi dei delitti e ascoltarne i pareri. Anche nel caso del Mostro dell'Orecchio, ben volentieri, s’era tenuto Vittorio vicino.

L'amico, a volte, passava pure a trovare un altro suo ex dipendente, il vice questore Giandomenico Pumpo il quale, dopo un periodo da commissario capo alla direzione d’uno speciale reparto che s’occupava di gruppi magici, esoterici, pseudo-religiosi e satanici, la SAS, Squadra Anti Sette, sedeva allo stesso posto ch’era stato del D’Aiazzo. Pur se meno suo amico del Sordi, anche il Pumpo si lasciava strappare talora dal vecchio poliziotto qualche notizia utile alle proprie parallele indagini.

Capitolo 2

Il secondo delitto era occorso cinque giorni dopo l’uccisione della Capuò Tron, ormai ottobre: vittima Giovanna Peritti vedova Verdani, pensionata sessantenne che viveva sola in un alloggio in corso Agnelli ereditato dal marito. Aveva una figlia, ma sposata e residente ad Asti. Proprio questa ne aveva scoperto il cadavere, poco dopo le 22 dello stesso giorno dell’omicidio: ella usava telefonare ogni sera alla mamma, e quella volta non aveva avuto risposta, sebbene il telefono avesse trillato molte e molte volte dalle 19 e 30 in poi; e poco dopo le 21, la figlia, preoccupata assai ben sapendo che la madre mai usciva di casa col buio, era saltata in macchina ed era venuta a Torino. Giunta circa un’ora dopo dinanzi al palazzo della mamma e avendo sonato inutilmente al citofono, grazie alle chiavi di riserva che aveva con sé era entrata, era salita e aveva aperto l’appartamento materno, chiuso col solo mezzo giro come avrebbe poi detto alla Polizia, e accesa la luce, aveva fatto la raccapricciante scoperta della genitrice a terra cadavere nell’ingresso, con la bocca spalancata in una smorfia di dolore, gli occhi sbarrati, sangue e materia cerebrale fuoriusciti da un orecchio e un largo ematoma sulla testa.

Si sarebbe stabilito che l’ecchimosi era stata causata da un pesante vaso domestico calato sulla testa, sul quale l’anatomopatologo avrebbe trovato tracce del cuoio capelluto della vittima. Il medico avrebbe stabilito inoltre che, sicuramente, la morte era stata dovuta a un punteruolo passato per l’orecchio fin a bucare l’encefalo.

La figlia della morta, che a stento aveva fatto in tempo a lasciarsi cadere sopra una sedia, vi era venuta meno. Ripresa conoscenza, verso le 22 e 10 com’ella aveva appurato all’orologio da polso, benché ancora sotto shock era riuscita a telefonare al 113.

Verso le 23 avevo avvertito per cellulare Vittorio del nuovo omicidio, esaudendo la sua richiesta d'informarlo di possibili sviluppi dei quali fosse giunta notizia al giornale. Del nuovo delitto m’aveva detto Carla Garibaldi poco prima, dalla sua postazione-computer, quando le ero passato accanto diretto alla mia scrivania. Ne aveva appena avuto notizia telefonica da un collaboratore che, di regola, alla sera e nelle prime ore della notte stazionava nell’atrio della Questura assieme a colleghi dell’altro quotidiano cittadino e delle televisioni, per ricevere notizie di nera. Di seguito il vice di Carla era accorso cogli altri sul luogo del delitto, per riferire novità alla sua principale.

Vittorio aveva il numero del cellulare di Evaristo Sordi, da lui aveva saputo che il funzionario si trovava sul luogo del delitto e che la salma non era stata ancora rimossa, in attesa dell’imminente arrivo e dell’autorizzazione del pubblico ministero Trentinotti al trasferimento in obitorio per la necroscopia. L’amico aveva ottenuto dal Sordi d’essere ammesso nell’alloggio della morta confondendosi coi giornalisti.

Non aveva mai avuto patente e viaggiava per la città in tram, parsimoniosamente; ma data l’ora e l’urgenza, quella volta aveva preso un taxi. Era stata tuttavia una perdita di tempo e denaro, infatti era giunto sul pianerottolo innanzi all’alloggio della defunta quand’ormai s’erano mossi tanto i giornalisti, compreso il vice di Carla, che il medico legale, il giudice e il commissario; questi aveva preso con sé, sull’auto di servizio, la figlia della morta, per raccoglierne ufficialmente e verbalizzare in Questura la testimonianza. Il cadavere era di già in viaggio verso l’obitorio. Rimanevano solo due agenti che stavano mettendo i sigilli alla porta e la vice sovrintendente che li comandava e che, conoscendo il D’Aiazzo, l’aveva salutato con cordialità; forse non l’avrebbe potuto, ma gli aveva anche offerto un passaggio sulla propria pantera fin alla Questura, ch’egli s’era ben guardato dal rifiutare, considerando la prossimità della stessa alla sua abitazione e l’ora ormai tarda.

Il giorno dopo Vittorio, durante la sua solita passeggiata sotto i portici di via Cernaia, corso Vinzaglio, corso Vittorio Emanuele e viceversa, sul ritorno aveva avuto idea di fare una sosta in Questura. Aveva chiesto del commissario Sordi, sperando che fosse in sede.

C’era e l’aveva ricevuto.

Senza preamboli, Evaristo gli aveva detto: “Ieri sera avevo dovuto andar via prima del tuo arrivo… eri venuto, no?”

“Sissignore”.

“Mi spiace, Vittorio, ma prima che tu giungessi il giudice ci aveva dato l’ordine di sgombrare e sigillare. Non avevo potuto aspettarti, dovendo andar via cogli altri e portarmi al seguito la testimone del ritrovamento, la figlia della morta, per mettere subito nero su bianco la sua deposizione”.

“Nessun problema. Se vuoi, dimmi qualcosa di ’sta figlia”.

“Nessun sospetto su di lei, anzi pare proprio, dalle testimonianze di vicini di casa della madre e, inoltre, di vicini della figlia interrogati poco fa dai nostri di Asti, dov’ella vive con marito e due bambini, che le due andassero d’amore e d’accordo; anzi, figlia e genero invitavano sovente la mamma a casa loro, venendo lei o lui a prenderla in auto qui a Torino, per non farla andare su e giù in treno, e poi riportandola a fine giornata”.

“Capito. Deve aver sofferto molto quella povera signora”.

“Sì, era affranta. A parte questo, se ieri notte non ti ho potuto attendere, in paga ti dico adesso tutto quanto so. Anzitutto che, diversamente dal caso Capuò Tron, l’omicida è entrato dalla porta e non da una finestra, dato che, come sai, l’alloggio è al terzo piano. Inoltre, che stavolta non è stato sottratto nulla, almeno secondo la figlia della morta: forse l’assassino è stato disturbato da qualcosa prima di frugare e rubare e si è eclissato in fretta tirandosi la porta dietro, che è rimasta chiusa col solo scatto; ma la notizia forse più importante riguarda il profilo della vittima: ho controllato nei nostri archivi se la Peritti Verdani fosse incasellata e ho trovato registrazioni su di lei… nell’ufficio DIGOS”.

“Ah, però! Hm… mentre la prima vittima…?”

“No, niente, la Capuò Tron era un angioletto, povera donna, mai avuto a che fare con noi a nessun titolo. Invece la Peritti era di ben diversa pasta, almeno per il passato, ché poi doveva essersi data una calmata. Nei primi anni ’70, non ancora coniugata Verdani, era stata operaia alla FIAT che l’aveva minacciata di licenziamento più volte a causa di gravi intemperanze sindacali verso colleghi non comunisti e contro il caporeparto, anzi, più che di intemperanze, parliamo pure di eccessi filo rivoluzionari: quella Peritti era conosciuta nell’ambiente marx-leninista col soprannome di Pasionaria, come la vecchia Dolores Ibarruri della guerra civile spagnola, precisamente la Pasionaria di Mirafiori. Gli avvertimenti da parte della proprietà erano stati propedeutici al licenziamento che però, per il cosiddetto Statuto dei Lavoratori1 , doveva avere giusta causa, com’era definita, cioè in caso di contestazione da parte del licenziato doveva esserci un motivo di licenziamento riconosciuto valido da un giudice del lavoro”.

 

“Per tempi ordinari sarebbe stata, tutto sommato, una buona legge, ma non per quegli anni rivoluzionari”.

“Sì, Vittorio, infatti in quel tempo, come sai, solo per casi veramente estremi i giudici del lavoro riconoscevano la giusta causa, e la Peritti era pressoché intoccabile. Solo alla metà degli anni ’70 la proprietà era riuscita finalmente a sbatterla fuori, dopo una sentenza favorevole, in grazia d’un fatto più grave dei precedenti: durante una delle tante violente proteste davanti ai cancelli dello stabilimento, lei aveva colpito fisicamente il proprio caporeparto, ch’ella stessa e altri facinorosi avevano obbligato con la forza a partecipare: tutt’altro che nuova a prodezze del genere, la Pasionaria gli aveva mollato due colpi con l’asta della bandiera rossa che stringeva in pugno, uno sulla spalla e l’altro, assai più grave, sulla testa, e l’aveva mandato all’ospedale svenuto e col cuoio capelluto lacerato; purtroppo per lei, quella volta aveva compiuto la bella impresa davanti a un nostro plotone in servizio d’ordine, che l’aveva fermata, non senza difficoltà peraltro, come risulta dal verbale in archivio, e l’aveva portata qui in Questura dove s’erano prese le sue generalità ed era stata denunciata per resistenza. Era stata poi querelata dal caporeparto e, fra una cosa e l’altra, s’era presa una condanna, sia pure con la condizionale, e inoltre la sua liquidazione, su istanza del legale del ferito, era stata posta sotto sequestro ed era servita a risarcire la vittima; ma soprattutto, con gran soddisfazione, la proprietà aveva potuto sbattere fuori quella novella Ibarruri. I nostri della DIGOS avevano continuato a tenerla d’occhio ovviamente, erano gli anni del terrorismo e la Peritti aveva proprio il profilo giusto per essere sospettata di simpatizzare per Brigate Rosse e compagnia. Risulta pure dall’archivio che, dopo un breve periodo di disoccupazione, era stata assunta come magazziniera in un’azienda artigianale produttrice di porte per docce e che, qualche anno dopo, s’era sposata con un commerciante ambulante di frutta e verdura, benestante, ed era andata ad aiutare il marito in piazza: da quel momento, sorridi! da comunista ch’era stata, era divenuta, notoriamente, democratica cristiana”.

“Non c’è molto da sorridere, Evaristo, si sa come funzionano gl’ideali in molte persone; ma dimmi una cosa: tu escluderesti una vendetta politica di qualcuno? Forse di qualche ex compagno, visto che lei aveva saltato il fosso?”

“Una vendetta dilazionata? Mah, non la si può escludere del tutto, però una punizione politica rimandata per così tanti anni non mi pare molto probabile e, oltretutto, l’omicidio s’è svolto come quello della Capuò Tron ch’era invece una pacifica borghese: dà proprio l’impressione d’essere opera dello stesso maniaco perfora-cervelli”.

“Non si può però escludere del tutto che il secondo assassino sia un altro e abbia fatto apposta ad ammazzare nella stessa maniera per deviare i sospetti”.

“Lo so, abbiamo pensato anche a questo, ma siamo dell’idea di seguire anzitutto l’ipotesi d’un unico maniaco, e se ci saranno altri casi simili, ne avremo la conferma”.

“Purtroppo, bisognerebbe aggiungere”.