Il Cane

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Copyright © 2021 Guido Pagliarino – All rights reserved to Guido Pagliarino – Tutti i diritti appartengono a Guido Pagliarino – Opera distribuita da Tektime S.r.l.s. Unipersonale, Via Armando Fioretti, 17 , 05030 Montefranco (TR) – Italia – P.IVA/Codice fiscale: 01585300559

GUIDO PAGLIARINO

IL CANE

ROMANZO

Guido Pagliarino

IL CANE

Romanzo

Distribuzione Tektime - Copyright © 2021 Guido Pagliarino – Tutti i diritti appartengono all’autore

Immagine di copertina: Un esemplare di cane da difesa Bandog. Fonte: Wikipedia L’enciclopedia libera

Nessuna persona realmente esistente o esistita appare in questo romanzo, a parte le figure storiche generalmente note citate e non partecipanti all’azione. I personaggi, i nomi di persona, di enti, ditte e società e di prodotti e i servizi che appaiono in questa narrazione e gli avvenimenti narrati sono del tutto immaginari. È da considerarsi assolutamente casuale e involontario ogni eventuale riferimento a persone reali e, in generale, alla realtà, presente o passata, personale, familiare, professionale o istituzionale.

Indice

Capitolo I

Capitolo II

Capitolo III

Capitolo IV

Capitolo V

Capitolo VI

Capitolo VII

Capitolo VIII

Capitolo IX

Capitolo X

Capitolo XI

Capitolo XII

Capitolo XIII

Capitolo XIV

OPERE BASATE SULLE FIGURE DI VITTORIO D’AIAZZO E RANIERI VELLI

FOTOGRAFIA FUORI TESTO


Cartolina d’antan ritraente l’angolo fra via Garibaldi e corso Valdocco del palazzo in cui aveva sede la Gazzetta del Popolo. Nel basso della foto verso l’estrema sinistra di chi legge, dietro al tronco dell’albero centrale, s’intravedono la scala e il portone dell’ingresso.

Capitolo I

La Gazzetta del Popolo era il più antico quotidiano torinese, nato il 16 giugno 1848 e morto senza più speranza di rinascita il 31 dicembre 1983, dopo anni in cui aveva sofferto cambi di proprietà e problemi economici finendo più d’una volta, per brevi periodi, quasi in coma. Era un foglio rivolto sin dalla fondazione alle classi di piccolo censo, portatore d’uno spirito critico sociale che aveva sempre mantenuto a parte, chiaramente, durante l’età fascista in cui tutta la stampa era stata imbavagliata. In epoca repubblicana, dopo importanti successi, aveva proseguito l’attività, sempre soffrendo avversità sin al suo decesso. La sua redazione, saldamente sindacalizzata, aveva guardato verso la sinistra democratica parlamentare cattolica e laica operando socialmente; per esempio, nel periodo della grande immigrazione a Torino dal meridione d’Italia, aveva favorito l’integrazione dei nuovi torinesi e, negli anni ‘60 e ‘70, aveva realizzato approfondite inchieste sopra gl’infortuni sul lavoro e sull’occupazione giovanile. Il quotidiano era stato l’appassionato concorrente dell’immarcescibile La Stampa, foglio questo che, dopo il conflitto mondiale, aveva sostenuto il centrismo governativo di matrice degasperiana, dal 1963 aveva diretto le proprie simpatie al bianco-rosso dei Governi di centrosinistra del forzato connubio Democrazia Cristiana – Partito Socialista e, nei primi anni ‘70 nei quali questa narrazione si svolge, imperando il clima della cosiddetta contestazione politico-sociale, La Stampa aveva guardato non sfavorevolmente agl’ideali di estrema sinistra: niente di strano, il conformarsi ai Governi in carica e al clima sociale del tempo era ed è cosa consueta per la maggioranza dei quotidiani, cosiddetti indipendenti ma appartenenti a una grande unità economica privata o pubblica1 .

Sin dall’inizio degli anni ‘60 anch’io avevo collaborato alla Gazzetta, ma solo alla pagina culturale e occasionalmente, come giornalista pubblicista, a volte scrivendo l’articolo in corso Valdocco 2, sede del giornale, altre portandovelo già pronto steso a casa. Tuttavia nel gennaio 1973 l’amico direttore m’aveva invitato a collaborare a tempo pieno qual redattore professionista e io avevo accettato. Non s’era trattato della mia prima esperienza all’interno d’una redazione, nei primi mesi del 1968 avevo lavorato alla cronaca subalpina d’un quotidiano genovese del finanziere Angelo Tartaglia Fioretti, il quale m’aveva licenziato dopo non molto per divergenze sociopolitiche2 . Alla Gazzetta ero nel mio ambiente accanto a cattolici progressisti, qualche repubblicano come me e socialdemocratici, per cui avevo accettato l’offerta ben volentieri, trovandomi oltretutto in uno di quei periodi in cui le idee per un nuovo romanzo mi scarseggiavano e un congruo stipendio fisso sarebbe stato il benvenuto, pur avendo da parte una buona somma grazie alla quale non avrei comunque sofferto la fame.

La redazione della Gazzetta era un universo di ticchettanti macchine per scrivere entro una nuvola di fumo di sigarette e di qualche pipa, in cui chiunque, come me, non fosse stato fumatore, se non fosse riuscito presto a mitridatizzarsi avrebbe potuto rimaner asfissiato. Quasi ovunque, a parte forse che nei numerosi bagni, e sempre che le rispettive porte d’ingresso e la porta del gabinetto impegnato fossero ben chiuse, formicolava negli orecchi il brusio delle voci dei giornalisti in sala redazionale o, giù in tipografia, a colloquio col proto e di lui che discuteva col compositore e del compositore che strillava per farsi udire dal proprio apprendista oppure dal tipografo, il quale strepitava con l’aiutante, immersi tutti nel frastuono delle rotative e nel rumore delle linotype: alla Gazzetta del Popolo la composizione delle pagine era ancor a caldo, non erano scomparse le linotype, sebbene già nei primi anni ‘70 in diversi quotidiani fosse subentrato il metodo della fotocomposizione e dell’impaginazione a freddo tramite computer.

L’ottimo direttore m’aveva affidato la cronaca nera affiancandomi per un paio di mesi a un’esperta tutrix, Ada, giornalista investigativa e bella bruna slanciata sulla soglia della quarantina con la quale, già una ventina di giorni dopo, avevo fatto coppia amorosa, su mia proposta e, come sempre accade, per muliebre scelta: m’avrebbe placidamente lasciato a giugno, pur mantenendomi una cordiale amicizia: “Ranieri, sei un po’ troppo individualista, lo sai?” m’avrebbe detto all’alba d’un lunedì nel trilocale che occupava da sola in via Amedeo Avogadro, non lontano dal giornale, nudi sotto le coltri del suo letto alla francese: “Tanto buon erotismo, mio caro, questo sì, ma non sai darmi l’amore.” M’aveva destinato garbo impiegando la parola individualista che riusciva ad attenuare un poco quanto, me l’ero sentita chiaramente, ell’aveva inteso: egoista. In verità proprio egoista non penso d’essere mai stato, sentimentalmente cauto semmai e, a ben vedere, nemmeno da sempre: solo da quand’ero stato scottato, durante buie vicende internazionali che m’avevano coinvolto e gravemente danneggiato nel 1969, da una sensualissima italoamericana di cui m’ero infatuato talmente da progettare d’impalmarmela, risultatami però in breve una sciupauomini sessualmente peregrinante3 . Dopo un po’ di tempo, considerando che l’abbandono di Ada non aveva deteriorato l’affiatamento fra noi, mi sarei figurato, auto assolvendomi, che nemmeno la mia collega fosse stata veramente innamorata di me.

Avevo gradito il lavoro in cronaca nera, non troppo diverso da quello svolto in Polizia fin al 1967 quale investigatore. D’altro canto m’era piaciuto il fatto che anche il grande giornalista, scrittore e molt’altro Dino Buzzati, versatile figura scomparsa solo un anno prima che avevo molto ammirato, fosse stato redattore non solo di terza pagina e di cronaca varia al Corrierone4 ma, con particolare passione, giornalista di cronaca nera. M’era stato evidente perché il direttore m’avesse inserito in nera, pur provenendo io dalla pagina letteraria: aveva ovviamente giocato il mio essere stato poliziotto investigativo per anni e non doveva essere stata estranea alla scelta la citata agghiacciante disavventura, universalmente nota, che avevo sofferto nel 1969, risoltasi in lieto fine, ma con gravi ammaccature fisiche e morali, solo grazie all’intervento provvidenziale del mio unico vero amico ed ex superiore Vittorio D’Aiazzo, vicequestore comandante della Sezione Omicidi e Reati contro la persona della Questura torinese: una vicenda in cui una loschissima, potente figura aveva tramato contro l’Italia e gli Stati Uniti e, nello stesso tempo, contro di me, Ranieri Velli, usandomi quale motore involontario e capro espiatorio del suo disegno criminale. La vicenda era stata raccolta e divulgata dalla cronaca internazionale e aveva causato la mia fortuna di scrittore: ne avevo avuto notorietà e frutti economici grazie a un saggio che avevo scritto in tempo reale sulla vicenda, tradottomi nelle principali lingue occidentali e pubblicato vendendo quasi un milione di copie nel mondo; poi, lasciata da parte la giovanile poesia dalla quale avevo avuto i miei primi successi, ma ovviamente non guadagni, avevo sfruttato la fama raggiunta stendendo romanzi su alcune delle passate indagini di Vittorio D’Aiazzo e mie, libri che avevano venduto bene e dai quali erano state tratte le sceneggiature di alcuni film di successo5 .

 

N e l periodo storico in cui si svolge questa mia memoria i cronisti di nera s i trovavano sovente a scrivere di concerto co n redattori e commentatori politici, ché sin dalla fine del decennio precedente sanguinosi reati terroristici s’erano affiancati a i delitti privati .

Il terrorismo italiano era stat o un fenomeno sociopolitico involutivo, anche se accesosi entro un processo di maturazione della visione sociale nato verso gl’inizi del decennio e riguardante non solo il mondo aconfessionale, ma l’universo cattolico: gli anni f ra l’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II nel 1962 e l’anno 1970 avevano vie più responsabilizzato buona parte dei c redenti , f ra l’altro affinando il concetto evangelico che l’operaio ha diritto alla sua mercede : lo sciopero non era stato più considerato l’omissione d’un dovere ma un sacrosanto diritto. I conflitti col mondo imprenditoriale avevano dunque assunto una doppia colorazione sia n e lle menti dei lavoratori sia n e lle organizzazioni sindacali , le laiche e classiste CGIL e UIL, di cultura politica comunista, socialista e socialdemocratica, e la cattolica CISL che, nel difendere economicamente operai e impiegati, si basava su l valor e cristiano della persona, incommensurabile secondo la Chiesa p er la quale ogni essere umano è creat o a immagine e somiglianza di Dio. L e rivendicazioni e gli scioperi avevano accomunato classisti e umanisti. Anche l a degenerazione terroristica del malcontento sociale aveva riguardato entrambi i mondi e aveva co ntemplato casi di passaggio dal cattolicesimo al marxleninismo rivoluzionario armato , com’era avvenuto per Renato Curcio e la moglie Margherita Cagol fondatori, co l comunista Alberto Franceschini, del la più importante organizzazione di lotta armata di estrema sinistra , le Brigate Rosse, i quali non solo provenivano dal mondo cattolico ma, essendo ormai comunisti, s’erano sposati in chies a .

Comunque la quotidiana vita degl’italiani continuava nonostante il pandemonio terroristico ormai sfrenato e non mancavano eventi festosi come, 10 aprile 1973, l’inaugurazione del nuovo Teatro Regio di Torino. Per decenni nell’area di piazza Castello, sulla quale aveva risonato in passato, per due secoli, la gloria musicale dell’originale Teatro Regio edificato nel 1740, c’erano stati solo più i suoi ruderi, causa un incendio devastante divampato nella notte fra l’8 e il 9 febbraio 1936; ma finalmente, dopo anni di lavori, il teatro era risorto e la serata d’inaugurazione del nuovo Regio era ormai prossima. Sarebbe stata di gran gala, naturalmente, alla presenza del Presidente della Repubblica Giovanni Leone col suo seguito romano e delle più alte personalità e i primari dirigenti cittadini e regionali. In scena, l’allestimento sontuoso del melodramma verdiano “I vespri siciliani”, con la regia dei grandissimi cantanti Maria Callas e Giuseppe Di Stefano.

Sebbene l’avvenimento fosse da alta cronaca mondana e, apparentemente, non riguardasse noi della nera, il direttore aveva voluto che Ada e io fossimo tra i cronisti invitati “perché”, ci aveva detto, “c’è sempre il pericolo che i soliti gruppi di esaltati provochino uno dei loro scompigli davanti al teatro, o peggio. Se dovesse succedere, voi due di corsa6 in un bar a telefonarcelo per la finestrella di prima pagina, poi al volo qui per i vostri articoli in cronaca. Chiaro?”

Ada doveva essere in vena d’umorismo e, con voce soave, gli aveva risposto ritmicamente: “Siamo noi sempre pronti alla bisogna.”

Io, di tutt’altro umore, infastidito dalla possibilità di finirmene in mezzo alla violenza di squinternati volgar marxiani7 o, peggio, esploso da una vigliacca bomba neofascista, gli avevo solo restituito un rassegnato “Chiaro”. C’erano davvero pericoli di pesantissimi disordini e non nascondo che m’era stata più che bastante l’avventura nerissima del 1969 dalla quale avevo contratto, e mi rimarrà a vita, uno shock post traumatico per il quale, ancor oggi dopo tanto tempo, giunto ultrasettantenne nel terzo millennio, a volte il ricordo del dolore inflittomi mi rispunta improvviso in animo e m’invade la mente, quasi come se stessi subendo di nuovo quelle torture.

L’ottimo direttore m’aveva sorriso: “Non me la dai a bere, Ranieri, lo so che andarci ti secca e ne so pure il motivo; però è da farsi! Oh, ovviamente, tu cravatta nera e tu, Ada…”

“...sì, Giorgio, io abito lungo: nell’armadio ho il solito, che va benissimo ogni volta con buona pace degli affari degli atelier .”

“Ne soffrono di certo amaramente”, le aveva zufolato il capo in divertita ribattuta a ll’ endecasillabo di lei.

La serata d ell ’inaugurazione si sarebbe svolta senz’incidenti ? L ’occasione era davvero ghiotta per gli eversori .

FOTOGRAFIA FUORI TESTO


Prima pagina del quotidiano Corriere della Sera del 13 dicembre 1969, giorno successivo a quello della strage di piazza Fontana a Milano. Fonte “prima La Martesana”, articolo La strage cinquant’anni dopo (1969-2019), pagina web https://primalamartesana.it/cronaca/bomba-al-cuore-sono-passati-50-anni-dalla-strage-di-piazza-fontana/

Capitolo II

Come s’era potut i finire nell’ agghiacciante babele degli anni che sarebbero stati definiti di piombo ?

N e l 1968 , dopo precedenti isolati episodi di protesta giovanile, la scontentezza politica e in molti casi la rabbia di tanti ragazzi s’era espress a con forza attraverso manifestazioni di piazza, per lo più d i studenti non tutti in realtà preparati politicamente, non pochi di loro semplici utopisti o ppure marxisti immaginari , come li avrebbe definiti nel 1975 chi il marxismo ben conosceva 8 , e non tutti su posizioni di sinistra ma, in parte, pseudo nietzschiani o fascist eggianti quando non fascisti . Tali dimostrazion i non erano state fisicamente violente a gli inizi, ma erano state incalzate da altre che avevano causato danneggiamenti e feriti . Poi la società italiana aveva dovuto subire le canagliate stragiste d’ estrema destra e le azioni omicide d i gruppi armati di sinistra : L’ eversione neo fascista, o ner a , aveva praticato , contro la mentalità progressista , un terrorismo bombarolo, iniziando la propria criminosa attività n el 1969 con un ordigno esploso , durante l’orario di ricevimento clienti, nel la filiale in piazza Fontana della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Giamm ai però gli stragisti av rebbero indic ato la loro identità ideologic a, peraltro intuibil mente d’ estrema destra anche se c’era no stat i funzionari di Polizia che, agl’inizi , aveva no sospettato e perseguit o anarchici. Q uesta tipologia d eversori lasciava appositamente nell’incertezza il fine delle stragi, rivolte ad anonimi cittadini ammazzati in massa a caso; ma l’intento era ben intuibile , pur se a propria volta non dichiarato: terrorizzare l a popolazione e indurla a richiedere un Governo forte, dittatoriale, che ponesse fine al disordine. P er apparente assurdo, era pur u tile a tale scopo , anche se di certo nolente, l’azione allarmante del terroris m o di sinistra. Quest ultimo era per la maggior parte esercitato da lle Brigate Rosse, ben strutturat e e militarmente armat e, pur non mancando affatto molte organizzazioni minori che operavano episodicamente come, ad esempio , la Lotta Armata per il Comunismo, i Nuclei Armati Potere Operaio, il Gruppo XXII Ottobre, i GAP Gruppi d’Azione Partigiana -Esercito popolare di liberazione . Diversamente da loro, l e Brigate Rosse, o B.R. come i mezzi di comunicazione sovente le chiamavano , già nei primi tempi avevano agito con frequenza e su ampia scala in Lombardia, Liguria e Piemonte. Nell’immediato, purtroppo , l a pericolosità delle B.R. era stata sottovalutat a dai mezzi di comunicazione. M olti media le avevano oltretutto definit e sedicenti, non pochi giungendo a sostenere che si trattava di fascisti desiderosi di lordare l’immagine del comunismo: evidentemente, l’ideale de gl’ intellettuali democratici comunisti , di gran lunga preponderanti in quegli anni su quelli non marxisti , non poteva accettare le azio ni d i violenti sovversivi d’estrema sinistra e dunque , passionalmente , respingeva con sdegno ch e provenissero da individui della sinistra marxiana . Non era ancor a chiaro che il punto di vista ideologico del movimento eversivo principale e dei gruppuscoli suoi analoghi era invece fermamente di sinistra: sinistra rivoluzionaria. Q uei terroristi rossi ritenevano che, finita la seconda guerra mondiale , l’oppressione nazifascista fosse stata rimpiazzata da quella de l mascherato, ma non meno micidiale, potere economico imperialis ta delle multinazionali, ragion per cui fosse indispensabile la continuazione del la lotta armata partigiana, un prosieguo della Resistenza che avrebbe dovuto, in primo luogo, smontare violentemente gli apparati istituzional i d oppressione del proletariato , per a ccendere poi una rivoluzione nazionale liberatoria .