Za darmo

Dopo il divorzio

Tekst
0
Recenzje
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

XI

Era la vigilia dell'Assunzione; un mercoledì caldissimo e nuvoloso.

Zia Martina filava sotto il portico, e Giovanna, incinta, mondava il grano. Mentre di solito per questa faccenda occorrono due donne, ella doveva compierla da sola, rimescolando il grano nel vaglio per toglierne le pietruzze, e poi mondandolo attentamente sopra un pezzo di tavola posato entro un gran canestro. Giovanna sedeva per terra, davanti al canestro, con a fianco una corba piena di grano color d'oro polveroso: invece d'ingrossarsi, la «moglie dei due mariti», come la chiamavano in paese, s'era dimagrata: aveva il naso un po' gonfio e rosso, gli occhi cerchiati, e il labbro inferiore sporgente pieno di disgusto. Alcune galline arruffate, che di tanto in tanto si scuotevano lasciando per terra molte piume, assediavano il canestro arrivando talvolta a ficcarvi il becco. Giovanna gridava e imprecava per allontanarle, ed esse scappavano un po', ma stavano attente, pronte, con una zampa sollevata, e tornavano all'assalto appena la giovine si distraeva.

Ed ella distraevasi spesso: aveva gli occhi tristi, o piuttosto indifferenti, come di persona egoista che pensa soltanto ai suoi malanni. Caschi il mondo, ella non può occuparsi che di sè e delle proprie cure. Era anche scalza e discretamente sudicia, perchè zia Martina lesinava il sapone.

Le due donne non discorrevano, ma zia Martina teneva d'occhio Giovanna, e quando questa non arrivava a tempo a scacciar le galline, era la vecchia che gridava per allontanarle.

Una volta una delle moleste bestiole ardì salire sull'orlo della corba e piluccarvi dentro.

– Ah! aaah! – gridò zia Martina; Giovanna si volse bruscamente, la gallina starnazzò le ali e volò portandosi addietro un piccolo nembo di grano.

Giovanna ebbe paura che la suocera la sgridasse, (aveva sempre paura di ciò) e si protese per raccogliere i chicchi del grano, lamentandosi.

– Come sono fastidiose!

– Ah, davvero, sono tanto fastidiose, – disse zia Martina con voce dolce: – no, non allungarti così, figlia mia, ti farà male. Vengo io.

Infatti ella lasciò il fuso, andò e raccolse chicco per chicco tutto il grano sparso, mentre una gallina piluccava la lana della conocchia.

– Che tu sii spelata! – gridò la vecchia, accorgendosene: e la fece allontanare, mentre le altre galline procuravano di aiutarla nella raccolta dei chicchi.

Giovanna vagliava il grano, a capo chino, muta, assorta.

Dal portico si scorgeva lo spiazzo deserto, la casetta di zia Bachisia livida nella luce grigia vivissima del pomeriggio nuvoloso: un lembo di paese deserto, i campi gialli deserti, l'orizzonte di metallo.

Nuvole sopra nuvole gravavano sul cielo, piovendo un gran caldo e una quiete troppo intensa. Davanti al portico passò un ragazzo alto e scalzo, che conduceva due piccoli buoi neri: poi passò una donnina, scalza anch'essa, che guardò Giovanna con due grandi occhi chiari; poi passò un cane bianco e grasso, col muso per terra: niente altro interruppe il silenzio, l'afa grave e minacciosa.

Giovanna vagliava e mondava il grano sempre più lentamente; si sentiva stanca, aveva fame ma non di vivande, aveva sete ma non d'acqua, provava un bisogno fisico inesprimibile di qualche cosa introvabile.

Finito il suo lavoro si alzò e scosse le vesti, si curvò e cominciò a rimetter il grano dal canestro nella corba.

– Lascia, lascia, – disse premurosamente zia Martina – ti farà male.

Giovanna voleva portare ella il grano alla macina (una mola girata da un asinello, che macinava un ettolitro di grano ogni quattro giorni), ma la suocera non glielo permise e andò ella stessa.

Rimasta sola Giovanna entrò nella cucina, si guardò attorno, poi frugò qua e là: nulla, nulla, non frutta, non vino, non un sorso di liquore che potesse saziare la brama inesprimibile che la tormentava. C'era solo un po' di caffè ed ella ne scaldò un pochino mettendovi dentro un pezzetto di zucchero che teneva in saccoccia: poi ricoprì con cura il fuoco.

Ma quel po' di bevanda calda parve aumentarle la sete. Giovanna avrebbe voluto bere un liquore fresco e dolce, che non aveva bevuto mai, che non berrebbe mai. Un'ira sorda e muta la prese; i suoi occhi si animarono. Andò verso l'uscio della dispensa e lo scosse, sebbene lo sapesse chiuso a chiave, e con le labbra un po' livide mormorò un'imprecazione.

Poi uscì; così scalza come era, attraversò lo spiazzo a passi silenziosi, e chiamò sua madre.

– Vieni – disse zia Bachisia dall'interno della cucina.

– Non posso. La casa è sola.

Allora zia Bachisia uscì, guardò il cielo e disse:

– Stanotte piove: farà uragano.

– Ebbene, che piombino tutti i fulmini del cielo! – disse Giovanna con voce rude: poi aggiunse raddolcendosi: – ma sia salvo ciò che io porto in seno…

– Ah! tu sei di malumore, anima mia! Dove è andata la strega? Ho visto che mondavi il grano.

– È andata a portarlo alla macina. Ha avuto paura di lasciare andar me: temeva gliene rubassi.

– Abbi pazienza, figlia. Non sarà così.

– Oh, è così, è così! Io non ne posso più. Che vita è questa? Ella ha il miele sulle labbra e il pungolo in mano. «Lavora, lavora, lavora!» Ella mi incalza come un bue da soma. E pane d'orzo, ed acqua e sudiciume, e buio di sera, e piedi scalzi quanto ne voglio.

Zia Bachisia l'ascoltava impotente a consolarla: d'altronde quelle lamentazioni erano affare d'ogni giorno. Oh, anch'ella, zia Bachisia, era ben scornata: ora doveva lavorare più di prima, ma non si doleva di ciò; solo le dispiaceva lo stato veramente miserando di Giovanna.

– Abbi pazienza, abbi pazienza, anima mia; verranno tempi migliori, l'avvenire non te lo ruba nessuno.

– Ah, che importa? Sarò vecchia, allora, se prima non muoio di rabbia. A che serve star bene quando si è vecchi? Allora non si gode più nulla.

– Eh, no, anima mia, – disse l'altra, con occhi furbi, verdi come due lucciole di notte. – Io godrei bene anche ora. Eh, eh, star senza far nulla; mangiare carne arrostita, pane molle, trote, anguille; bere vino bianco e rosolii e cioccolata…

– Finitela! – gridò Giovanna con spasimo: e raccontò come non aveva trovato nulla da soddisfare la sua indicibile brama.

– Abbi pazienza: è causa del tuo stato: anche se tu trovassi le cose più buone del mondo ed i liquori che beve il re non ti sentiresti soddisfatta.

Giovanna guardava sempre verso il portico, con occhi tristi e con la bocca piena di disgusto.

– Stanotte pioverà, – ripetè la madre.

– Lasciate che piova, dunque.

– Brontu tornerà?

– Sì, tornerà; e stasera glielo voglio dire; ah, sì, glielo voglio dire.

– Che gli vuoi dire tu, anima mia?

– Gli voglio dire che non ne posso più, che se mi ha preso per fargli la serva e null'altro, si è ingannato, e che… e che…

– Tu non gli dirai niente! – disse con energia la vecchia. – Lascialo in pace; anch'egli lavora, anch'egli vive come un servo; perchè vuoi tormentarlo? Egli potrebbe cacciarti via, sposar in chiesa un'altra donna…

Giovanna tremò di spasimo, si raddolcì, le vennero le lagrime agli occhi.

– Egli non è cattivo, – disse, – ma si ubbriaca sempre, puzza d'acquavite come un lambicco, e mi rivolta lo stomaco. E poi si arrabbia senza ragione. Ah, è schifoso, è veramente schifoso. Ebbene, sì, era meglio… ah, era…

– Ebbene, cosa era meglio? – gridò fieramente zia Bachisia.

– Niente.

Sempre così. Giovanna ricordava Costantino, così buono, bello, pulito e gentile, e rimpiangeva il passato. Una tristezza profonda, più amara della morte, le avvolgeva l'anima: e il pensiero della maternità non leniva, anzi accresceva mostruosamente il suo dolore.

La sera calava, grave e grigia come una visione di granito; non un filo di vento ne interrompeva la quiete afosa.

Giovanna andò a sedersi sul muricciolo sotto il mandorlo immobile, e la madre le si mise vicina: per un po' tacquero, poi Giovanna disse, come proseguendo un discorso:

– Sì, certo, come nei primi tempi della condanna. Come allora io sogno ogni notte il suo ritorno e, cosa curiosa, non ho mai paura, sebbene Giacobbe Dejas dica che se Costantino ritorna mi ammazza. Non so, il cuore mi dice ch'egli tornerà davvero; prima non ci credevo, ma ora ci credo. Oh, è inutile che mi guardiate così. Vi faccio io forse un rimprovero? No, no, no. Io piuttosto dovrei temere i vostri rimproveri. Che godete voi del mio stato? Nulla; voi non venite più neppure a trovarmi in quella casa – e sporgeva il labbro per indicar la casa bianca, – perchè mia suocera ha paura che voi portiate via la polvere coi piedi. Io non vi posso dar nulla. Nulla, capite, nulla, neppure il mio lavoro. Tutto è chiuso. Io sono la serva.

– Ma io non voglio nulla, cuore mio. Perchè ti addolori per queste sciocchezze? Io non ho bisogno di nulla, – disse zia Bachisia con voce dolce. – Non pensare a me. Mi affligge solo il debito verso Anna-Rosa Dejas. Io non riuscirò mai a pagarlo; ma ella avrà pazienza.

Giovanna arrossì di stizza, si torse le mani e alzò la voce.

– Sì, questo io voglio dire stasera, a quell'animale immondo; gli dirò: pagate almeno gli stracci che io indosso: pagateli, pagateli, che una palla vi trapassi il cuore.

– Non alzar la voce, non arrabbiarti, anima mia. È inutile, vedi, arrabbiarti. Perchè arrabbiarti? Egli potrebbe cacciarti via.

– Ebbene, che egli mi cacci pur via. È meglio. Almeno lavorerò per me, per voi, non per quella gente maledetta. Ah, eccola che ritorna! – disse poi, abbassando la voce, poichè la figura nera di zia Martina appariva sullo sfondo livido dello spiazzo. – Ora mi sgriderà perchè ho lasciato la casa sola: ella ha paura che le rubino i denari. Ella ne ha tanti, e non li conosce neppure; non distingue i biglietti, e neppure le monete. Ha dieci mila lire, sì, mille scudi…

 

– No, anima mia, duemila.

– Ebbene, duemila scudi nascosti. Ed io non un sorso di bevanda che mi rinfreschi, che mi tolga questo ardore che ho dentro.

– Saran tutti tuoi, – diceva zia Bachisia, – abbi pazienza, sta attenta, quando gli angeli verranno a portarla in paradiso, e saranno tutti tuoi.

Giovanna tossì, si graffiò la nuca, e riprese con cupo ardore:

– Che mi caccino pure, non me ne importa. Ecco, il segretario comunale dice che io sono la vera moglie di Brontu, ma a me sembra di viver con lui in peccato mortale. Ricordate come ci siamo sposati? Di nascosto, al buio, senza un cane, senza dolci, senza niente. Giacobbe Dejas, che egli sia strozzato, rideva e diceva: «ora viene il bello». Ed il bello è venuto.

– Senti, – disse zia Bachisia, con voce bassa ma energica, – tu sei sempre matta. In fede mia, tu lo sei stata sempre e lo sarai sempre… Perchè ti disperi? Per delle sciocchezze. Tutte le nuore povere devono vivere come vivi tu. Verrà anche per te il tempo della raccolta: abbi pazienza, sii obbediente, vedrai che tutto passerà. D'altronde, vedrai che appena nascerà il bambino le cose muteranno.

– Non muteranno affatto. E almeno, almeno… non avessi fatto dei figli! Essi mi legheranno a questa pietra che mi trascina e mi schiaccia. Ebbene, volete sentirlo! Il mio vero marito è Costantino Ledda…

– Tu vacilli, anima mia! Taci, od io ti turo la bocca…

– … e se anche torna io non potrò riunirmi a lui perchè avrò dei figliuoli…

– E io ti turo la bocca! – ripetè zia Bachisia, fremente, alzandosi in piedi, stendendo la mano, come per eseguire l'atto; ma non ce ne fu bisogno, perchè Giovanna vide la suocera attraversare lo spiazzo, e tacque.

Zia Martina camminava e filava, e s'avvicinò lentamente alle due donne.

– Al fresco? – disse, guardando sempre il suo fuso girante.

– Bel fresco! Si muore dal caldo. Ah, stanotte però pioverà, – rispose zia Bachisia.

– Pioverà certo. Purchè non tuoni: io ho tanta paura dei tuoni. Il diavolo scarica i suoi sacchi di noci, allora. Speriamo che Brontu torni presto. Che faremo da cena, Giovanna?

– Ciò che volete.

– Tu stai lì? Non ti farà male? Forse ti farà male.

– Che volete che mi faccia?

– L'aria della sera è sempre nociva. È meglio star dentro; così, intanto preparerai da cena. Ci son delle uova, figliuola mia, uova con pomi d'oro. Ebbene, preparale per te e per tuo marito; io non ho appetito. Ah, davvero, – proseguì, rivolta a zia Bachisia, – non ho appetito, tutti questi giorni. È il tempo, forse.

– È il diavolo che ti fora la schiena: è l'avarizia che non ti permette di mangiare, – pensò l'altra. Giovanna taceva e non si muoveva, assorta in un cupo sogno.

– Domani avremo il panegirico, dunque, alle undici: è un'ora incomoda, in verità. Ci andrai tu, Giovanna? Gli altri anni lo facevano alle dieci.

– Io non andrò, – rispose Giovanna con voce monotona. Ella, ora, si vergognava di andare in chiesa.

– Sì, a quell'ora fa assai caldo; è meglio che tu non vada. Ma, se non mi inganno, piove, – disse poi zia Martina, e tese la mano. Una grossa goccia d'acqua sporca cadde e si sparse sui peli del dorso livido della sua mano. Tic, tic, tic, altre goccie caddero sul mandorlo immobile e per terra, scavando piccole buche sulla rena dello spiazzo. Nello stesso tempo il cielo parve rischiararsi, mandando una luce giallognola: sullo sfondo delle nuvole bronzee passava una grande nuvola gialla a macchiette d'un giallo più scuro, che pareva una enorme spugna pregna d'acqua.

Le donne si ritirarono, e subito cominciò a piovere dirottamente, ma una pioggia dritta, sonora, d'una violenza solenne, senza vento nè tuoni, che durò dieci minuti soltanto, ma allagò il paese.

– Oh Dio, o San Costantino, o Santissima Assunzione! – gemeva zia Martina. – Se Brontu è per via s'inzupperà come un pulcino.

E guardava disperatamente il cielo, ma non smetteva di filare, mentre Giovanna cominciava a preparar da cena. Ascoltando il fragore della pioggia anch'essa sentivasi inquieta, non per il marito, ma per qualche cosa di indefinibile come un pericolo ignoto. Ad un tratto il chiarore giallo che aveva accompagnato la pioggia si fuse ad una luce azzurrognola che veniva dall'occidente: la pioggia cessò di botto, le nuvole s'aprirono, si divisero, se ne andarono, le une sulle altre, le une dietro le altre, come gente che si disperde dopo una grande riunione; per l'aria rinfrescata si diffuse un bagliore glauco, un odore di terra e di erbe secche bagnate, e risuonarono canti di galli che credevano fosse l'alba. Poi silenzio. Zia Martina filava sempre nel portico, nera sullo sfondo glauco del crepuscolo; Giovanna accendeva il fuoco, curva sul focolare, quando udì un nitrito venire per l'aria con un tremore che le si comunicò stranamente: tremando ella si rialzò e guardò fuori. Brontu tornava ed ella aveva paura; di che? di tutto e di niente.

Nella casetta di zia Bachisia s'era acceso un punto giallo, e scorgevasi la vecchia ricacciar con una scopa di ginestra l'acqua che aveva inondato il limitare. L'orizzonte, dietro i campi giallognoli, pareva una linea di mare, verde tranquillo; e su tutte le cose, anche sull'orizzonte, dominava il mandorlo, bagnato, stillante. A fianco del mandorlo, all'ultimo barlume del giorno, apparve Brontu sul suo cavallo; entrambi, cavallo e cavaliere, neri, fumanti, lenti, come gonfiati e resi pesanti dall'acqua che li inzuppava.

Le due donne uscirono sullo spiazzo, dando in esclamazioni di dolore, ma di un dolore forse un po' ironico. L'uomo, però, non parve badare a loro.

– Diavolo, diavolo, diavolo… – mormorava. Trasse il piede dalla staffa, lo sollevò. – Diavolo, diavolo, al diavolo chi ti ha cotto… – E fu in piedi, tutto bagnato. – Ecco, ora arrangiatevi, – disse irosamente, avviandosi alla cucina. Le due donne dovettero scaricare il cavallo, poi Giovanna rientrò e subito Brontu chiese da bere, per asciugarsi.

– Cambiati, – ella disse.

Ma egli non voleva cambiarsi; voleva soltanto bere per asciugarsi – ripeteva, – e si arrabbiò perchè Giovanna insisteva. Poi finì col fare tutto ciò che essa volle; si cambiò, non bevette, e in attesa della cena si asciugò accuratamente i capelli con uno straccio e li pettinò.

– Che acqua, che acqua! – ripeteva. – Un mare addirittura. Ah, questa volta mi ha ben rammollito la crosta. (Fece una risatina). Come va, Giovanna? Va bene, eh? Tanti saluti da Giacobbe Dejas. Egli ti può vedere come il fumo negli occhi.

– Tu dovresti frenargli la lingua, – disse zia Martina. – Così tu sii buono a mangiare come sei buono a farti rispettare da queste immondezze di servi.

– Io gli frenerò altro che la lingua! Intanto stasera voleva ritornare. No, rimani lì e crepa. Tornerà domani mattina.

– Ah, domani mattina! Ma neppure domani mattina! Ah, figlio mio, tu ti lasci derubare impunemente. Sei buono a nulla.

– Dopo tutto, – diss'egli, alzando la voce, mentre continuava a pettinarsi, – domani è l'Assunzione, e Giacobbe è nostro parente. Finitela. Ecco, Giovanna, ora son bello.

Le sorrise, mostrando i denti. Era bello infatti, pulito, coi capelli lucenti. Giovanna si sentì intenerire; ed egli si mise a cantarellare una canzonetta puerile che i bimbi cantano quando piove.

 
Proghe, proghe,
s'achina cochet
e' i sa icu6.
 

Poi cenarono tutti lieti e contenti: zia Martina, con la scusa che non aveva appetito, mangiò pane, cipolle e formaggio, – cibo del quale, d'altronde, ella era ghiotta, – ma ciò non ruppe la buona armonia della cena. Dopo cena Brontu volle che Giovanna uscisse con lui a far due passi, e andarono a zonzo, senza meta, per le viuzze deserte del paesello: il cielo s'era fatto limpidissimo, qualche stella filante lanciava il suo filo d'oro sull'orizzonte di cristallo, e nell'aria ondeggiava l'odore dell'erba secca e delle pietre bagnate. Le viuzze erano piene di rena e di fango, ma Giovanna usava le gonne cortissime e le scarpe così grosse che traevano un eco metallico dalle pietre. Brontu se la prese sotto braccio e cominciò a raccontarle delle bugie, come usava spesso per divertirla.

– Zanchine (era uno dei contadini che lo servivano) ha trovato, sai che cosa ha trovato? Un bambino.

– Quando?

– Ma oggi, credo. Zanchine sta estirpando un lentischio quando sente gnuè, gnuè. Guarda. È un bambino di pochi giorni. Ciò poco male; ma ora viene il bello. Ecco una piccola nuvola avanzarsi per l'aria e piombare, ingrandendosi, su Zanchine e rapirgli il bambino. Era un'aquila… Sì, quest'aquila doveva aver rubato il bambino in qualche posto, lo aveva nascosto nella macchia, e vedendo Zanchine che toccava il bambino è piombata, e…

– Va! – disse Giovanna. – Io non ti credo più.

– Che tu possa vedermi ricco se non è vero…

– Va! Va! Va! – ella ripetè un po' irritata. Brontu sentì ch'ella, invece di divertirsi, diventava di malumore, e le chiese se aveva fatto cattivi sogni. Ella ricordò il sogno avuto, e non rispose. Così giunsero all'altra parte del paese, cioè vicino alla casetta di Isidoro Pane. Uno spettacolo di dolcezza indescrivibile copriva la terra: la luna s'affacciava come un grande volto d'oro sull'oriente d'un celeste argenteo; e la terra nera, gli alberi bagnati, le casette di schisto, le macchie e tutta la pianura selvaggia, fino alle ultime linee dell'orizzonte, brillavano come animate da un sorriso pieno di lagrime.

I due giovani passarono rasente alla casetta del pescatore, e udirono la voce di Isidoro che cantava. Brontu si fermò.

– Andiamo, – disse Giovanna, tirandolo per il braccio.

– E aspetta! Anzi voglio battere a quella che sarebbe la sua porta.

– No! – ella disse, fremendo. – Andiamo, andiamo. Andiamo o ti lascio solo…

– Ah, è vero, tu ti sei bisticciata con lui. Ma io no. Io batto alla sua porta.

– Ed io me ne vado.

– Egli canta le laudi di San Costantino, quelle che gli diede il Santo in riva al fiume… ah, ah, eh! – disse Brontu raggiungendola. – È matto quel vecchio.

Ella sapeva chi aveva composto quelle laudi, e si sentì triste e irritata. Brontu la riprese sotto braccio, e ricominciò a raccontare frottole ed a scherzare: era di buon umore, ma doveva rider da solo perchè Giovanna taceva costantemente.

Qualche persona che li vide passare, udendo gli scherzi ed il riso di Brontu, pensò che, dopo tutto, Giovanna era una donna ben fortunata. Ed ella intanto pensava a Costantino.

XII

L'indomani verso le dieci cominciarono in chiesa le funzioni religiose. Cominciavano così tardi perchè s'era dovuto aspettare l'arrivo di un giovine sacerdote nuorese, amico di prete Elias, che veniva per fare, gratis, un panegirico al popolo di Orlei. Questo panegirico costituiva un grande avvenimento: quindi alle dieci la chiesetta era già gremita di folla variopinta. Già la chiesa per sè stessa vibrava dei più vivi colori: fascie d'un turchino stridente solcavano le pareti rosee; il pulpito era in legno giallo, i santi, dalle nicchie rosee, splendevano biondi e rossi come santi teutonici. Soltanto San Costantino, il santo Protettore, vestito da guerriero, aveva un viso bruno e severo; e nel paese esisteva la leggenda che quest'antica statua, alla quale si attribuivano dei miracoli, era stata scolpita da San Nicodemo.

Dalla porta spalancata su uno sfondo d'azzurro abbagliante penetrava un torrente di luce violenta che passava sulla folla inondandola di pulviscolo luminoso. In fondo l'altare restava quasi buio, nonostante un'M di ceri ardenti, le cui fiammelle immobili parevano freccie d'oro sorgenti da bastoni di legno bianco. Prete Elias celebrava la messa; ed il suo piccolo amico, in camice di merletto, e con un visetto bruno da bambino furbo, cantava a gola spiegata. Il popolo si meravigliava che il piccolo prete cantasse pur dovendo far la predica; molti erano venuti apposta per sentirlo, e tutti, poi, a dir la verità, ascoltavano la messa con poca divozione, chiacchierando e guardandosi curiosamente a vicenda. Bisogna però aggiungere che un caldo soffocante e innumerevoli invisibili insetti molestavano la folla. Ad un tratto prete Elias, dopo aver cantato il Vangelo, volse al popolo il viso pallido e tranquillo, e le sue labbra si mossero.

Giusto in quel momento apparve sull'azzurro fiammante della porta la figura di Giacobbe Dejas. Il suo viso satirico aveva un'aria trionfante.

 

Vedendo che il sacerdote parlava, il servo si fermò sul limitare della porta, con la lunga berretta nera fra le mani; ma non udì niente. Allora si avanzò e domandò a bassa voce ad un vecchio dalla barba gialla:

– Cosa ha detto?

– Io non ho sentito, – rispose il vecchio irritato. – Fanno chiasso come si trovassero in piazza.

Un giovine, roseo, dai capelli neri dritti e dal naso greco, si volse, guardò Giacobbe, e vedendolo vestito a nuovo, pulito, trionfante, sorrise malignamente.

– Ecco, – disse, – credo che prete Elias abbia detto che l'altro prete ora fa il panegirico.

– L'hai sentito tu? – chiese il vecchio irritato.

– Io non ho udito niente.

Giacobbe andò avanti, ficcandosi fra gli uomini, che si voltavano a guardarlo. Improvvisamente un gran silenzio si fece nella folla: gli uomini si ritirarono verso le pareti; le donne sedettero per terra. E nel mezzo della chiesa, nel fiume di luce perlata che la attraversava, apparve una specie di letto di legno azzurro, vigilato da quattro angioletti rosei con le ali verdi che parevano quattro farfalle. Entro questo letto, sopra cuscini di broccato, posava distesa una piccola Madonna con gli occhi chiusi. Anelli d'oro, orecchini e collane brillavano sul suo vestito di raso bianco. Era l'Assunta.

Sul pulpito apparve il visetto bronzino e furbo del piccolo prete. Giacobbe Dejas lo guardò fisso, poi si volse di fianco, parando l'orecchio destro per sentir meglio.

– Abitanti di Orlei, fratelli e sorelle, – disse una voce infantile ma sonora, – chiamato a farvi un piccolo discorso in questo giorno solenne, io…

A Giacobbe piacque questo esordio, ma siccome ci sentiva benissimo anche senza parar l'orecchio, tornò a voltarsi e cominciò a esaminar la gente ed a parlare fra sè, pur non perdendo una parola della predica.

– Ecco là Isidoro Pane; che il diavolo gli tiri le orecchie, è vestito di nuovo anche lui. Che pensi ad ammogliarsi anch'egli? Eh, oh! Quel giovinetto rosso, là in fondo, ha riso di me, vedendomi allegro e vestito di nuovo, perchè si dice che io voglia prender moglie. Ebbene, e se la voglio prendere? Che vi importa, cani rognosi? Non la posso prendere? Ho una casa, ora, e del bestiame7. Ed anche voi avete del bestiame, ma soltanto in testa. Eh, eh! Mia sorella morrà senza eredi, che Dio la benedica, eccola là; è piccola e rosea e lucente come una pupattola. Chi direbbe che è più vecchia di me? Essa vuole che io mi ammogli. Sta benissimo, mi ammoglierò; ma con chi? Io sono di difficile contentatura; eppoi ho paura. Ho paura, ho paura, con questa nuova legge; che il diavolo vi scortichi, uomini della giustizia, chi oramai si può più fidare nel mondo? – Ecco là il mio giovine padrone, eccolo là, col suo viso di peccato mortale. Che viene a fare qui? Perchè non lo bastonano? Perchè non lo cacciano via come un cane? Ed anche quell'uccello rapace di sua madre, la vecchia cavalla, è lì, è lì! Perchè non li cacciano via?

« – Ah, – pensò poi, – è giusto; se si dovessero cacciar via tutti coloro che hanno peccato, la chiesa resterebbe vuota. Ma quelli lì! Ah, quelli lì! Io li odio, io li bastonerei a sangue. Eppure io non sono cattivo, ecco, oggi son tornato tardi perchè prima ho riparato i danni che l'acquazzone di ieri sera ha recato all'ovile. Poi son tornato: trovo Giovanna che prepara il pranzo: è sporca, sofferente, melanconica. Per lei non c'è festa. Madre e figlio sono usciti: ella, la serva, rimane in casa e lavora. Ben ti sta, crepa, donna perduta! Eppure mi fa pietà quella donna, ecco, che Dio mi assista, mi fa pietà. Io le ho detto delle male parole: ella non rispose. Eppure, dopo tutto, ella è la padrona ed io il servo. Uccellino di primavera, che colpa ne ho io se ti insulto? Non ti posso vedere, eppure mi fai pietà, ecco tutto. Oh, ascoltiamo ciò che predica questo prete che sembra un passero. Sì, un passero che canta sul nido, eccolo là».

– Fratelli, sorelle carissimi, – con quel molle dialetto logudorese che somiglia allo spagnuolo, diceva il giovinetto sacerdote agitando le piccole mani pallide, – la fede in Nostra Signora è la più sublime ed ideale delle fedi. Ella, la soavissima donna, figlia, sposa e madre di Nostro Signore, salì al cielo, radiosa e fragrante come nuvola di rosa, e siede gloriosa fra gli angeli e i serafini…

– Ecco là prete Elias, – pensava Giacobbe, volgendo verso l'altare i suoi occhietti obliqui che nella luminosità della chiesetta parevano di metallo, – eccolo là con le mani giunte, eccolo là quel prete di latte cagliato. Egli non sa far altro che predicar la bontà; eppure egli possiede i libri sacri e potrebbe fulminare la gente. Ah, se egli avesse minacciato Giovanna Era! Pare che egli sogni, ora…

– … nessuno mai disse di non aver ottenuto la grazia chiesta con vera fede a Nostra Signora Santissima. Ella, il giglio delle valli, la mistica rosa di Gerico… – proseguiva il piccolo predicatore, ritto sul pulpito giallo.

Ma la gente cominciava a stancarsi; le donne, raccolte per terra come ranuncoli e papaveri sparsi al suolo, s'agitavano, si voltavano, non davano più retta: il giovine prete capì e terminò la predica benedicendo quel popolo di pastori che aveva ascoltato la parola di Dio pensando ai propri affari ed a quelli degli altri.

Allora prete Elias si scosse dal suo sogno e riprese la celebrazione della messa. Egli soltanto e Isidoro Pane, forse, avevano ascoltato intensamente la predica; e finita la messa il pescatore cominciò a cantar le laudi con la sua voce sonora, che sembrava un torrente d'acqua limpida scorrente fra le balze solitarie, rosee di fiori di musco.

Il giovine predicatore ascoltava estatico quella voce sonora e intonata, e la figura di Isidoro, di quel vecchio dalla lunga barba e dagli occhi dolci, col rosario d'osso intrecciato alle dita nodose, gli ricordava certe figure di pellegrini del Both che egli aveva visto a Roma.

Lo volle conoscere, e prete Elias fermò il pescatore all'uscita di chiesa. Giacobbe guardava: vedendo l'amico fermo coi sacerdoti ne provava un'invidia da non dirsi. Lo attese in mezzo alla piazza e gli disse:

– Che una palla vi trapassi le ghette, cosa vi hanno detto quelli lì?

– Mi volevano a pranzo con loro, – disse Isidoro non senza una certa vanità.

– Ah, vi volevano a pranzo con loro? Uccellino di primavera, siete diventato un personaggio, a quanto pare! Ecco, venite con me…

– Dai Dejas?.. Mai! – disse Isidoro, spaventato.

– No; oggi io non mangio le patate di quelle pelli del diavolo. No. Io mangio in casa mia! Venite.

Lo portò a casa della sorella. Era mezzogiorno passato: il sole bruciava le straducole ove il fango s'era disseccato; gli alberi svaporavano sull'azzurro ardente del cielo e degli sfondi selvaggi. La gente tornava a casa; il passo pesante dei pastori risuonava sui ciottoli, i bimbi vestiti a festa guardavano dai muricciuoli; dalle porte spalancate si scorgevano interni scuri di cucine dove riluceva, come medaglia enorme, qualche casseruola di rame. Spire di fumo giallognolo serpeggiavano sull'aria ossidata; il suono straziante di un organetto usciva a tratti da un cortile, di solito disabitato, e pareva un suono che sgorgasse di sotterra, prodotto dallo strumento di una vecchia fata melanconica.

Tutto il paesello aveva una insolita aria di festa, eppure quell'aria di festa, quelle porticine spalancate, quelle spire di fumo, quei bimbi impacciati nei vestitini nuovi, quel suono d'organetto, le casette senz'ombra, in quell'ora di luce ardente, avevano qualche cosa di supremamente melanconico.

Giacobbe condusse il pescatore dalla sorella, e pranzarono assieme. La donnina, vedova e senza figli, adorava il fratello, anzi lo chiamava ancora «fratellino mio». Del resto ella amava tutto il prossimo, e i suoi occhi, un po' obliqui, di colore incerto, liquidi e puri come due piccolissimi laghi illuminati dalla luna, parevan gli occhi di un bimbo lattante. Ella non ignorava il male, ma si spaventava al solo pensiero che gli uomini potessero commetterlo. Uno dei suoi più grandi dispiaceri era stato il divorzio e il nuovo matrimonio di Giovanna, un po' sua figliuola di latte, alla quale tuttavia aveva prestato i denari per il corredo. Suo fratello la burlava sempre.

– Ecco il nostro amico Isidoro che vuol prender moglie: è venuto per consigliarsi con te, – le disse.

6Piove, piove,l'uva maturae il fico…
7Molti servi, in Sardegna, possiedono bestiame per conto loro; e lo mescolano a quello del padrone, – col quale in tal modo diventano soci, – o lo affidano ad altro pastore, col quale dividono la rendita.