Za darmo

Dopo il divorzio

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– Credo, – disse l'altra andandosene; e appena rientrata dalle parenti cominciò a raccontare che zia Martina era dolentissima, che aveva sognato la condanna di Costantino ai lavori forzati, e che Giacobbe Dejas (questo Dejas povero era cugino in secondo grado dei Dejas ricchi) doveva entrare al servizio dei vicini.

Giovanna allattava il bambino, guardandolo con dolore, e non sollevò neppure il capo; zia Bachisia invece volle sapere molte cose: se la vecchia Dejas era sola, se filava, se filava al buio, ecc.

– Senti dunque – disse poi a Giovanna – ella verrà forse stasera.

Giovanna non rispose, non si mosse.

– Non odi dunque, anima mia? – gridò la madre stizzita. – Verrà stassera.

– Chi? – domandò Giovanna, come uscendo da un sogno.

– Malthina Dejas.

– Ebbene, che essa vada al diavolo!

– Chi deve andare al diavolo? – domandò dalla porta una voce sonora. Era Isidoro Pane, un vecchio pescatore di sanguisughe, parente delle Era, che veniva a far le sue condoglianze. Alto, con una lunga barba giallastra, occhi azzurri, un rosario d'osso alla cintura, un lungo bastone e un involto in cima al bastone, zio Isidoro sembrava un pellegrino: era il più povero ed il più savio e tranquillo degli abitanti di Orlei. Quando voleva imprecare diceva: —

– Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe!

Egli era stato grande amico di Costantino, col quale tante volte aveva cantato in chiesa le laudi sacre; ed anzi le Era lo avevano designato come testimonio di difesa, perchè nessuno meglio di lui poteva dire le buone qualità dell'accusato; ma era stato scartato. Che mai contava, davanti alla giustizia grande e potente, un povero pescatore di sanguisughe?

Appena lo vide, Giovanna s'intenerì e ricominciò a singhiozzare.

– Sia fatta la volontà di Dio, – disse Isidoro, poggiando al muro il suo bastone. – Abbi pazienza, Giovanna Era, non disperare di Dio…

– Voi sapete? – chiese Giovanna.

– Ho saputo. Ebbene? Egli è innocente, e ti dico che sebbene oggi l'abbiano condannato, domani può risultare la sua innocenza.

– Ah, zio Isidoro, – disse Giovanna, scuotendo il capo, – non credo più alla vostra fiducia. Ci ho creduto fino a ieri, ma ora non posso crederci più.

– Tu non sei buona cristiana; questi sono gli insegnamenti di Bachisia Era…

Zia Bachisia, che vedeva di mal occhio il pescatore, e temeva sempre che egli le lasciasse in casa dei brutti insetti, si volse adirata, e stava per ingiuriarlo, quando entrò un altro uomo, poi delle donne, poi altri uomini ancora.

In breve la casetta fu piena di gente, e Giovanna, sebbene si sentisse stanca anche di piangere, credè suo dovere singultare e strillare disperatamente.

Zia Bachisia attendeva la ricca vicina, ma costei non venne: venne invece Giacobbe Dejas, quel tal servo che doveva contrattare con zia Martina. Egli era un allegro uomo sulla cinquantina, di aspetto comune, piuttosto basso e scarno, sbarbato, senza sopracciglia e senza capelli, con due piccoli occhi obliqui molto furbi e d'un colore incerto tra il verde e il giallo. Da venti anni servo di Basilio Ledda, aveva testimoniato in favore di Costantino raccontando i maltrattamenti che Basilio usava al nipote, e come il vecchio avaro, che malmenava anche i servi e le donne, il giorno prima di morire avesse bastonato e preso a calci lui, Giacobbe Dejas.

– Malthina Dejas ti aspetta, – gli disse zia Bachisia. – Va.

– Che il diavolo le scortichi il naso, io ci andrò, – rispose Giacobbe, – ma ho paura di cadere dalla padella nella brace. Essa è avara più di quanto lo fosse colui.

– Se essa paga, non devi giudicare le sue azioni, – disse una voce sonora.

– Ah, siete lì, zio Isidoro, – disse Giacobbe con voce di scherzo sprezzante. – Ebbene, come vanno i vostri affari? Son ben punte le vostre gambe?

Isidoro si guardò le gambe avvolte in istracci (egli le immergeva nell'acqua stagnante, le sanguisughe vi si attaccavano, e così egli le pescava), poi rispose con dolcezza:

– Questo non deve importarti. Ma non sta bene che tu imprechi la donna della quale mangerai il pane.

– Io mangerò il mio pane, non il suo. Ma questi sono affari nostri. Ebbene, Giovanna, fa coraggio, che diavolo! Ricordi la storiella che ti ho raccontato mentre tornavamo da Nuoro? Fa da savia, via, per questo marmocchio. No, Costantino non morrà in reclusione, te lo dico io. Dammi il bambino.

E si chinò, ma visto che il bambino dormiva, si rialzò e mise un dito sulle labbra.

– Zia Bachisia, – disse (egli dava del voi e dello zio anche ai più giovani di lui), – fatemi il piacere, mandate a letto vostra figlia. Essa non ne può più. Brava gente, – disse poi agli astanti, – facciamo una cosa, andiamocene via.

A poco a poco tutti se ne andarono. Allora zia Bachisia prese lo sgabello dove erasi seduto Isidoro Pane, lo portò fuori e lo pulì: poi rientrò e dovette scuoter Giovanna, caduta in una specie di sonno, per farla andare a letto. La giovine spalancò gli occhi rossi e vitrei, e s'alzò, col bimbo fra le braccia.

– Va a letto, – le impose la madre.

Ella guardò la porta e mormorò:

– Ah, egli non torna; egli non tornerà mai più. Mi pareva di aspettarlo…

– Va a letto, va a letto… – disse la madre, con voce viepiù rauca.

La spinse, prese il vecchio lume d'ottone, aprì l'uscio. La casetta era composta della cucina col solito focolare di pietra nel mezzo ed il forno in un angolo, e due stanze miseramente arredate. Il letto di Giovanna era di legno, alto e duro con una coperta di percalle rosso. Zia Bachisia prese il piccolo Martino, che pianse un pochino senza svegliarsi, e lo depose sul letto, cullandolo con le mani finchè Giovanna si fu coricata.

E quando Giovanna si fu coricata, a testa nuda, con le belle treccie annodate intorno al capo come una antica romana, la madre la coprì con cura e uscì via. Appena uscita lei, la giovine rigettò la coperta e cominciò a lamentarsi incoscientemente. Era rotta dal dolore e dalla stanchezza, aveva sonno ma non poteva addormentarsi completamente: visioni confuse le passavano per la mente; e quasi non bastasse la sua angoscia morale, sentiva, a intervalli, acutissimi dolori ai denti e alle tempia. Ogni volta che questo spasimo l'assaltava, le pareva che le venisse addosso un'ondata d'acqua bollente, causandole un terrore indefinibile. Fu una notte orribile, orribile.

Dalla stanzetta attigua, di cui lasciò l'uscio aperto, zia Bachisia udiva Giovanna lamentarsi e delirare, rivolgendo a Costantino parole d'amore insensato, e minacciando di morte i giurati che l'avevano condannato.

Zia Bachisia vegliava, aveva la mente lucida, la visione netta di tutto ciò che era accaduto e che doveva accadere; e s'arrabbiava contro il dolore di Giovanna, ma nello stesso tempo anch'essa finalmente piangeva.

IV

L'indomani a sera, – un sabato, – Brontu Dejas rientrò di campagna, e appena smontato da cavallo cominciò a brontolare. In famiglia egli brontolava sempre, mentre con gli estranei mostravasi amabilissimo; del resto era un buon diavolo, giovine e bello, molto nero e molto magro, di media statura, con la barba rossa, corta e ricciuta. Aveva bellissimi denti e quando conversava con donne sorrideva continuamente per mostrarli.

Rientrando di campagna, il sabato sera, cominciò a brontolare perchè la madre non aveva acceso il lume nè preparata la cena; e forse non aveva torto, perchè infine egli era un lavoratore, e dopo una settimana di fatica, quando il sabato egli rientrava in paese, trovava sempre la casa buia e squallida come quella d'un pezzente.

– Eh! Eh! Sembra la casa di Isidoro Pane – diceva, scaricando il cavallo. – Accendete dunque il lume, almeno, chè non ci si vede neppure per imprecare. Che c'è da mangiare? – chiese poi.

– Ci son delle uova, ecco, e del lardo, figlio mio, abbi pazienza – disse zia Martina. – Sai che Costantino Ledda è stato condannato a trent'anni?

– A ventisette. Ebbene, queste uova? Quel lardo è rancido, mamma mia; perchè non lo buttate alle galline? Alle galline! – ripetè, stringendo i bei denti per la stizza.

Zia Martina rispose tranquillamente:

– Non ne mangiano. Sì, a ventisette anni. Ah, son lunghi ventisette anni! Io sognai che lo avevano condannato ai lavori forzati.

– Ci siete stata voi da quelle donne? Ah! ora saranno contente del loro matrimonio, quelle immonde pezzenti, – diss'egli con curiosità; ma appena la madre ebbe detto che c'era stata, che Giovanna si disperava e si strappava i capelli, e che zia Bachisia le aveva fatto capire d'essersi pentita di non aver affogato la figliuola prima di permetterle quel matrimonio, Brontu si arrabbiò.

– Perchè ci andate, voi? Che avete voi da fare nella tana di quei pidocchi affamati?

– Ah, figlio mio, la carità cristiana tu non sai cosa sia! (Zia Martina, pretendeva di essere caritatevole). C'era anche prete Elias, questa mattina; sì, egli andò da loro per confortarle. Giovanna vuol portare il bambino a Nuoro perchè Costantino lo veda prima di partire; io dicevo che è una pazzia, con questo sole; ma prete Elias diceva di portarlo, e quasi si metteva a piangere.

– Che ne sa lui di bambini? Come tutti i preti egli è un uomo sterile, – disse Brontu, che odiava i preti, perchè un suo zio, parroco del paese prima che da Nuoro venisse mandato prete Elias Portolu, aveva lasciato i suoi beni ad un ospedale. Anche zia Martina conservava rancore per questo fatto, ma sapeva fingere, la vecchia volpe, e ogni volta che Brontu parlava male dei preti, ella si faceva il segno della croce.

– Cosa dici tu, scimunito? – disse, anche questa volta segnandosi. – Tu non sai neppure dove porti i piedi. Prete Elias è un santo. Se egli ti sente parlar male, guai! Egli ha i libri sacri e può maledire i nostri campi e far venire le cavallette e far morire le api.

 

– Allora è un bel santo! – osservò Brontu, poi insistè per avere particolari sulla disperazione delle Era. – Come gridava Giovanna? Cosa diceva zia Bachisia, il vecchio nibbio?

Ebbene, Giovanna piangeva da schiantar le pietre, e zia Bachisia si disperava perchè, oltre il resto, ora l'avvocato e le spese di giustizia l'avrebbero cacciata nuda anche di casa.

Il giovine ascoltava con viso intento, beato, mostrando i bei denti di fanciullo. Nella sua contentezza egli era semplicemente feroce.

– Ecco, – disse poi zia Martina, – Giacobbe Dejas verrà fra poco, per parlare anche con te. Egli voleva cominciare il servizio da domani, ma io gli dissi che aspettasse a lunedì. Ebbene, domani è festa: perchè deve mangiar a ufo?

– San Costantino bello, siete ben stretta (avara) mamma mia…

– Ah, tu sei ancora un bimbo! Perchè sprecare? La vita è lunga, e per vivere ce ne vuole!

– E quelle due donne, come faranno? – chiese Brontu, dopo un po' di silenzio, sedendosi davanti ad un canestro di asfodello, dove zia Martina aveva deposto il pane e le uova.

– Ebbene, andranno a cercar chiocciole! – rispose zia Martina con ironia. Ella aveva ripreso il fuso e filava vicino alla porta aperta. – T'interessano assai, quelle donne, Brontu Dejas!

Silenzio. S'udiva il rotolìo del fuso e il suono dei forti denti di Brontu che masticavano il pane duro: e al di fuori, al di là del portico, lo zirlare dei grilli, e più in là, nella solitudine delle macchie, nella calda oscurità della notte incipiente, il grido melanconico dell'assiuolo.

Brontu si versò il vino, prese il bicchiere e aprì la bocca, ma non per bere. Voleva dire una cosa a sua madre, ma non potè. Bevette: alcune goccie rimasero sulla sua barbetta rossa, ed egli le forbì col dorso della mano, abbassando gli occhi e aprendo ancora le labbra per dire quella cosa. E neppure questa volta potè dirla.

Ed ecco un suono di scarponi nella spianata. Zia Martina, sempre filando, s'avvicinò al figlio, disse che veniva Giacobbe Dejas, prese il canestro ed il vino e li ripose nell'armadio.

Entrando, Giacobbe s'accorse dell'atto della vecchia e pensò che ella nascondesse il vino per non offrirgliene un bicchiere; ma era troppo uomo di mondo (così egli diceva) per offendersi, e si avanzò sorridente e lieto.

– Scommetto, – disse, portandosi un dito al naso – scommetto che parlavate di me.

– No. Parlavamo di quel povero Costantino Ledda.

– Ah, sì, povera creatura! – disse Giacobbe, facendosi serio. – E dire che è innocente! Innocente come il sole! Nessuno meglio di me potrebbe affermarlo.

Brontu si mise in posa, accavalcando le gambe, rovesciandosi un po' indietro e mostrando i denti come faceva con le donne.

– Le opinioni sono varie! – disse con voce nasale. – Mia madre, per esempio, ha sognato che lo avevano condannato alla morte.

– O no, Brontu, cosa dici! Ai lavori forzati!

– Bè, fa lo stesso. Parliamo di noi.

– Parliamo di noi, – disse Giacobbe, accavalcando anch'egli le gambe.

Parlarono e conclusero l'affare del servizio di Giacobbe, poi i due uomini uscirono assieme, e Brontu condusse il nuovo servo alla bettola. Giacchè egli non era avaro, e se qualcuno andava a trovarlo a casa non gli dava un bicchiere di vino per non irritare la madre, ma poi lo conduceva alla bettola, dove si mostrava splendido. Quella sera fece bere tanto Giacobbe e tanto egli stesso bevette, che si ubbriacarono.

Usciti poi nello stradale buio e silenzioso, dove spandevasi il profumo aspro dei campi inariditi, ripresero a parlare di Costantino, e Brontu disse crudelmente che era contento della condanna.

– Va' al diavolo! – gridò Giacobbe. – Tu sei un uomo senza cuore.

– Ebbene, sì, sono un uomo senza cuore.

– Perchè Giovanna non ti ha voluto, tu ti contenti della morte di un tuo simile, anzi di qualche cosa peggiore della morte?

– Egli non è morto, e non è mio simile, e Giovanna Era son io che non l'ho voluta. Se l'avessi voluta, ella mi avrebbe leccato la suola delle scarpe.

– Bum! Bada che cadi, uccellino di primavera. Tu sei bugiardo come una serva.

– Io? Io… non… sono… una… serva! – gridò Brontu, staccando le parole. – Se tu mi ripeti una cosa simile, ti prendo per il cocuzzolo e ti ammazzo.

– Bum! Ti ho detto che cascavi per terra, uccellino di primavera! – gridò anche Giacobbe.

Le loro voci risuonarono nella notte silente; ma poi tacquero e tutto fu di nuovo silenzio. In lontananza, al brillare delle stelle, che incoronavano di fiori d'oro i profili di sfinge delle montagne nere, l'assiuolo batteva sempre il suo grido melanconico.

E ad un tratto Brontu si mise a piangere; uno strano pianto d'ubriaco, senza lagrime nè singhiozzi.

– Ebbene, che hai? – chiese l'altro a voce bassa. – Sei ubriaco?

– Sì, sono ubriaco. Ubriaco di veleno, che tu possa morire affogato, avanzo di galera!

L'altro si offese, perchè non era stato mai non solo in carcere, ma neppure colpito da una contravvenzione, e fu preso da un vago timore. Disse, sempre piano:

– Tu diventi matto; che hai, perchè parli così? che ti ho fatto io?

Allora l'altro si sfogò, lamentandosi come se gli facesse male qualche membro, e disse che amava Giovanna come un pazzo, e che aveva sempre pregato il diavolo perchè Costantino venisse condannato.

– Si pigli pure la mia anima il diavolo, non mi importa nulla, tanto io non credo a lui! – disse poi; e rise, con un riso stridente e fanciullesco, più desolante del pianto di poco prima. – Io sposerò Giovanna.

Giacobbe si meravigliò, ma dimostrò una meraviglia ancor maggiore di quella che realmente sentiva.

– Io sono come un uomo affogato! – disse. – Come, perchè, cosa vuol dire tutto ciò? Come tu puoi sposare Giovanna?

– Farà divorzio, ecco tutto. Ebbene? C'è una legge che alle donne, il cui marito è condannato a molti anni di reclusione, permette di riprendere marito.

Giacobbe aveva già sentito parlar di ciò, ma nessun caso di divorzio legale e tanto meno di nuovo matrimonio erasi ancora avverato in Orlei; tuttavia per non mostrarsi stupido disse subito:

– Ah, sì, lo so. Ma è peccato mortale. Giovanna non vorrà.

– È questo che mi affligge, Giacobbe Dejas! Vuoi tu parlargliene? Sì, parlagliene domani.

– Sì, proprio domani! Come sei stupido, Brontu Dejas. Sei ricco ma sei stupido come una lucertola. Eppoi sei ancora più stupido. Tu che puoi sposare una donna pura, ricca, una fanciulla simile ad una rosa rugiadosa, tu vuoi sposare quella donna lì. In verità mia c'è da ridere per sette mesi…

– Ebbene, che tu possa ridere fino a spaccarti come il frutto del melograno! Io la sposerò! – disse Brontu, arrabbiandosi di nuovo. – Nessuna donna è come lei. Io, vedi, io la sposerò!

– E sposala, uccellino di primavera! – rispose l'altro ridendo. Anche Brontu si mise a ridere; e risero assieme per lungo tratto di via, finchè videro un uomo alto, con un lungo bastone, venire loro incontro a passi silenziosi.

– Zio Isidoro Pane, avete fatto buona pesca? – gli chiese Giacobbe. – Sono ben punte le vostre gambe?

– Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe, – disse l'altro, avvicinandosi. – Che odore di acquavite! Ah, devono aver rotto qualche barile, qui!

– Tu vuoi dire che noi siamo ubriachi? – chiese Brontu, minaccioso. – Tu non ti ubriachi perchè non hai con che; allontanati o ti ammazzo. Ti schiaccio come una rana…

Il vecchio fece una risatina soave e si allontanò.

– Stupido, – disse Giacobbe a bassa voce. – Egli può farti l'ambasciata; è amico di Giovanna.

– Ebbene, – cominciò a gridare Brontu, volgendosi e scuotendo le braccia, – vieni, vieni! Vieni qui, ti dico, Sidore Pane, che ti morsichi il cane!

Rise della sua rima ben riuscita, ma Isidoro non si fermò.

– E dunque! – gridò ancora l'ubriaco, balbettando un po', – ti dico di venire! Ah, tu non vuoi venire, piccolo rospo? Ti ho detto…

Ma Isidoro s'allontanava a passi silenziosi.

– Non dirgli così, che modo è questo? – mormorò Giacobbe.

Allora Brontu cambiò metodo.

– Fiorellino, vieni! Vieni chè ho da parlarti. Dirai a quella donna tua amica… ebbene, sì, a Giovanna, che se fa divorzio io la sposo.

Allora il vecchio si fermò di botto, si volse, chiamò con voce sonora:

– Giacobbe Dejas!

– Che volete, anima mia? – chiese il servo con voce sarcastica.

– Fallo ta…ce…re! – disse Isidoro in tono di severo comando.

Non seppe perchè, Giacobbe provò un brivido nel sentire quella voce e quelle due parole, e tosto prese il padrone per il braccio e lo trascinò via, mormorandogli:

– Sì, sei uno stupido. Che modi sono questi? Ti comporti come un montone, uccellino di primavera…

– Non me l'hai detto tu?

– Io? Tu vacilli. Io non sono matto.

E andarono via uniti, barcollanti: nel portico dei Dejas trovarono zia Martina che filava ancora, al buio. Ella s'accorse tosto che il figlio era ubriaco, ma non gli disse niente, perchè sapeva che contrariandolo, quando egli si trovava in quello stato, montava in furore: soltanto quando Brontu le chiese del vino, ella rispose che non ce n'era.

– Ah, non c'è vino in casa Dejas, la più ricca del paese? Come siete avara, mamma mia! – Egli cominciò a urlare. – Io non farò scandali, no, ma sposerò Giovanna.

– Sì, sì, tu la sposerai, – disse zia Martina per calmarlo. – Intanto coricati e non gridare, perchè se essa ti sente non ti vuole.

Egli tacque, ma volle che Giacobbe spiegasse e stendesse per terra due stuoie di giunco, vi si coricò e volle che il servo gli si coricasse vicino. Zia Martina lasciò fare per non irritarlo, e così Giacobbe invece che al lunedì prese servizio il sabato sera.

V

Circa quindici giorni dopo, una domenica mattina, tutti i nostri personaggi si trovarono riuniti alla Messa officiata dal prete Elias che, dicevano quelli del paese, quando celebrava pareva avesse le ali.

Mancava solo Giovanna, e mancava per due ragioni: anzitutto perchè la disgrazia accadutale imponeva un certo duolo, che la costringeva a non mostrarsi fuori di casa, tranne che il bisogno di lavorar fuori non glielo imponesse; e poi perchè ella era caduta in una specie di atonia che le impediva di muoversi, di uscire, di lavorare, di pregare. Già, buona cristiana ella non era stata mai: soltanto prima del dibattimento di Costantino aveva fatto qualche voto, come quello di recarsi a piedi, scalza, a capelli sciolti, fino ad una lontana chiesa di montagna, e se Costantino veniva assolto, di trascinarsi sulle ginocchia dal punto ove appena scorgevasi la chiesa, fino alla chiesa stessa, cioè per due chilometri circa.

Ora non pregava, non parlava, non mangiava. Anche il bimbo le era diventato quasi indifferente, e zia Bachisia doveva nutrirlo con latte e pane masticato per tenerlo su. Qualcuno diceva che Giovanna stava per impazzire, ed infatti, se ella usciva dalla sua atonia, durante la quale stava ore ed ore accoccolata in un canto con gli occhi vitrei fissi nel vuoto, era per dare in escandescenze, strapparsi i capelli, urlare parole insensate. Dopo il suo ultimo colloquio con Costantino, al quale aveva portato il bimbo, ella non pensava ad altro che alla scena avvenuta, e la ripeteva ad intervalli, con l'accento incosciente dei monomaniaci.

– Egli era là e rideva. Era livido e rideva. Dietro l'inferriata. Malthineddu si attaccò all'inferriata e lui gli toccò le manine. E rideva. Cuore mio! Cuore mio! Non ridere così, che mi fai male, tanto lo so che il tuo riso è il riso dei morti. E i guardiani stavano lì come arpie. Prima erano buoni questi guardiani di carne umana, ma dopo, dacchè Costantino è condannato, son diventati cattivi. Cattivi come cani. Malthinu nel vederli aveva paura e piangeva. E il padre rideva, capite? Il bambino, la creatura innocente, piangeva: capiva che suo padre era condannato e piangeva. Cuore mio! Cuore mio!

Zia Bachisia sbuffava, non ne poteva più, e diceva:

– In verità mia, tu sembri una creatura di due anni, Giovanna, anima mia. Ha più giudizio tuo figlio di te, sciocca.

E minacciava persino di bastonarla; ma tutto, preghiere, conforti, minaccie, tutto riusciva inutile.

Intanto da Nuoro giunse notizia che in attesa dell'appello Costantino era stato trasportato alle giudiziarie di Cagliari; poi venne una sua lettera breve e triste. Diceva d'aver fatto buon viaggio, ma che a Cagliari si soffocava per il caldo, e che certi insetti rossi ed altri di vario colore lo tormentavano notte e giorno. Mandava un bacio al bambino, pregando Giovanna di allevare Martineddu nel santo timor di Dio. E salutava anche il suo amico Isidoro.

Finita la Messa, zia Bachisia attese che il povero pescatore terminasse di cantare con la sua voce sonora le laudi sacre, per passargli i saluti di Costantino.

 

Prete Elias rimase inginocchiato sui gradini dell'altare, pregando, col volto pallido estasiato; Isidoro continuava a cantare, ma la gente cominciò ad andarsene.

Davanti a zia Bachisia passò zia Martina col suo passo fiero di cavalla vecchia ma ancora indomita: passò Brontu, vestito di nuovo, coi capelli lucidi di grasso (egli parlava male dei preti, ma la domenica andava alla messa) e passò Giacobbe, con un paio di calzoni di tela nuova, rude, non lavata, che puzzavano ancora di bottega.

Isidoro continuava a cantare.

La chiesa finì col restare quasi deserta ed egli cantava ancora. La sua voce sonora risuonava fra le bianche pareti polverose, sotto il tetto composto di travi e di canne, fra gli altari umili, coperti di rozze tovaglie, adorni di fiori di carta, su cui guardavano melanconici santi di legno colorato.

Quando zio Isidoro finì di cantare non c'era più nessuno tranne il sacerdote e un ragazzo che finiva di smorzare i lumi, zia Bachisia e un vecchio cieco.

Isidoro dovette ripetere da solo il ritornello delle laudi, poi si alzò, depose il campanello del quale si serviva per segnare le poste del rosario, e s'avviò. Zia Bachisia l'aspettava vicino alla porta; uscirono assieme ed ella gli diede i saluti di Costantino, poi gli chiese un favore; di pregare prete Elias perchè si degnasse d'andare a trovar Giovanna e farle una predica onde distoglierla dalla sua disperazione.

Egli promise e zia Bachisia si allontanò; nello stradale fu raggiunta da Giacobbe Dejas che era rimasto sull'alta spianata della chiesa guardando il villaggio ed i campi gialli inondati di sole.

– Come state? – chiese il servo a zia Bachisia.

– Ah, Dio mio, stiamo male senza esser malate! E tu come ti trovi coi nuovi padroni?

– Ah, ve l'ho già detto! Son caduto dalla padella nella brace. La vecchia è avara come il diavolo; vorrebbe che mi cascassero le viscere a furia di lavorare, e mi permette di tornare in paese, appena per ascoltar la Messa, ogni quindici giorni.

– E il padrone?

– Ah, il piccolo padrone? È un animale, ecco tutto!

– Cosa dici tu, Giacobbe?

– Ecco, dico la verità, uccellino di primavera. Egli si arrabbia come un cane per ogni piccola cosa, si ubriaca, ed è bugiardo come il tempo. Ecco, anzi Isidoro Pane vi avrà detto…

Egli tacque, sospeso, e zia Bachisia lo fissò coi suoi occhietti verdi, pensando che se egli parlava tanto male del padrone aveva uno scopo.

– Ecco, – egli riprese, – Isidoro Pane vi avrà detto… sì certo, ve lo avrà detto… che Brontu era ubriaco quella sera. Qui, ecco, proprio qui, egli s'è messo a gridare: «Dirai a Giovanna Era che se fa divorzio, io la sposo!» Una bestia! Proprio una bestia! Egli beve l'acquavite a barili.

Di tutto questo zia Bachisia capì soltanto che Brontu aveva detto: «Se Giovanna Era fa divorzio la sposo». I suoi occhietti verdi scintillarono. E disse con fierezza:

– E tu, Giacobbe, tu non vorresti?

– Io? Che importa a me, uccellino di primavera? Ma voi dovreste vergognarvi di dire simili cose, zia nibbio, appena dopo due settimane…

– Io non sono un nibbio… – strillò la vecchia, offesa.

E l'altro rise, ma la donna capì che egli schiantava di rabbia.

– Aspettate almeno che arrivi l'appello, – disse Giacobbe. – E poi divorate Costantino come si divora l'agnello immacolato; divoratelo pure, ma Giovanna sposerà una botte di acquavite e voi, finchè vivrà Martina Dejas, morrete di fame peggio di prima…

– Ah, cocuzzolo spelato… – cominciò a gridare zia Bachisia; ma l'altro si allontanò rapidamente, ed ella dovette contentarsi di borbottargli dietro un mondo di vituperi.

Nonchè essa pensasse già di far divorziare la figlia, Dio ne liberi, mentre il povero Costantino era ancora sotto appello, chiuso in una fornace ardente, divorato da immondi insetti, no… ma perchè quel vile servo parlava così? che importava a lui del padrone? Zia Bachisia si fissò in mente che Giovanna piacesse a quel vecchio corvo spelato, e facendo di questi maliziosi pensieri rientrò a casa.

Voleva raccontare ogni cosa a Giovanna, ma per la prima volta, dopo quindici giorni, la vide a lavarsi e pettinarsi tranquillamente i lunghi capelli scarmigliati, che le cadevano in gran quantità, e non osò dirle niente.