Za darmo

Dopo il divorzio

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XV

Era di maggio. La grande vallata dell'Isalle, di solito così severa, coperta di altissime erbe, di macchie fiorite, di campi d'orzo che ondulavano alla brezza come drappi d'oro verdognolo, rideva alla primavera, simile ad un vecchio selvaggio, ubbriaco di sole e di profumi, copertosi per ischerzo di fronde e di ghirlande.

Fischi acuti e liquidi di uccelli canori gorgheggiavano come note di flauto nell'immenso silenzio della valle, quasi fondendosi con la fragranza dei narcisi e delle ginestre. E narcisi e ginestre, i cui grandi cespugli fioriti pareva fossero stati immersi in un bagno d'oro liquefatto, s'abbandonavano sull'orlo dei ciglioni, come intenti a guardare il fondo della valle.

Una fata immensa era passata, stendendo tappeti di fiori violetti, fantasmagorie, fragranze. Certe praterie erbose, picchiettate di ranuncoli, da lontano parevano lembi di lago verde riflettente il cielo stellato. I radi alberi ridevano e bisbigliavano alla brezza.

Era appena tramontato il sole. Il cielo ad occidente aveva il colore della pesca matura, mentre ad oriente ed al nord le montagne posavano come enormi pietre preziose sopra una fascia di raso lilla.

Costantino Ledda, scarcerato poche ore prima a Nuoro, ritornava a piedi al suo paese, scendendo la valle senza affrettarsi, con una piccola bisaccia di tela sulle spalle. Qualche volta si fermava, guardando di qua e di là dal sentiero, e pensava:

– Oh, oh, – la valle mi sembra più piccola, ora. Sarà perchè ho visto il mare.

Egli era invecchiato, sbarbato, molto bianco in viso, ma non aveva affatto un'aria tragica come gli sarebbe convenuta. Ritornava solo ed a piedi perchè non aveva avuto modo d'indicare il giorno preciso della sua scarcerazione; altrimenti qualche parente o qualche amico non avrebbe mancato d'andargli incontro. Inoltre l'impazienza di rivedere il paesello lo urgeva.

Scendeva, scendeva. Era quasi allegro, forse perchè a Nuoro aveva bevuto del vino, provvedendosene anche per il viaggio. Nello scendere le gambe qualche volta gli si piegavano, ma egli non si turbava per così poco.

– Ecco, – pensava, – quando non ne posso più, mi sdraio e dormo. Ho del pane e del vino nella bisaccia. Che altro occorre? Io sono libero come gli uccelli. Ah! sì, sono celibe. Guarda che cosa curiosa! Una volta avevo moglie, ora sono scapolo.

Gli parve di ridere internamente. E scendeva e scendeva, ora guardando il sentiero giallognolo tracciato fra l'erba alta, ora guardando gli uccelli, che avevano destato il suo paragone e che volavano bassi, quasi sfiorando il suolo, ritirandosi nelle macchie per dormire. Ricordò la vecchia gazza del reclusorio e sentì qualche cosa scioglierglisi entro il petto.

Ebbene, perchè negarlo? Egli aveva provato dolore nel lasciare quel luogo di pene, quei compagni che non amava, quei muri orrendi, quel cielo che l'aveva per tanti anni oppresso dall'alto del cortile come una lastra di metallo.

Dopo la morte del vero colpevole giorni e mesi erano trascorsi prima che la giustizia avesse esaurito le sue formalità per liberare l'innocente. In quei mesi Costantino, informato di tutto, aveva smaniato ed i giorni gli erano parsi anni; eppure, nell'andarsene, aveva quasi pianto. Ed il suo intenerimento doloroso, che sembrava di pietà e di carità verso coloro che restavano, era invece per le cose che lasciava, per ciò che queste cose avevano assorbito della sua vita, del suo essere e del suo destino.

Ora anche questo dispiacere era passato. Tutto era passato. Anche il grande dolore per il procedere di Giovanna.

Tanto è vero che gli pareva di poterne ridere.

Scendeva, scendeva. Giunse in fondo alla valle e cominciò a costeggiare l'Isalle; la luce del tramonto era ancora vivissima e l'acqua brillava qua e là fra gli oleandri ed i giunchi, riflettendo il bagliore roseo-giallo del cielo; le ombrelle di merletto dei sambuchi e i bottoncini acuti di corallo scuro degli oleandri si disegnavano sull'aria lucida come sopra uno smalto d'argento. Costantino, già stanco, pensava che la valle non era poi così piccola come gli era parsa al primo rivederla.

– Dormirò bene in campagna, – pensava. – Ma sarebbe stato così curioso arrivare lì: – dun! dun! alla porta di Isidoro. – Chi è? – Io. – Chi, tu? – Ebbene, Costantino Ledda! – Che viso, quell'Isidoro! Chissà, egli canterà il rosario a quest'ora. Ed anche quelle laudi!.. Sì, oh, guarda! Io ho fatto delle laudi. Che cosa curiosa!

Si meravigliava di certe cose passate, come i giovani si meravigliano di certe cose fatte o vedute da bambini. Ma Costantino si meravigliava anche di molte cose presenti; per esempio si meravigliava che fosse primavera, che la valle apparsagli così piccola fosse invece interminabile, e che egli la percorresse per ritornare al suo paese.

Camminava fra due campi di frumento, sul quale la luce gettava un velo d'oro e la brezza passava carezzandolo come una grande mano invisibile; e pensava:

– Egli mi dirà: vieni dentro. Mi ha offerta la sua casa. Poi mi dirà: È morto Giacobbe Dejas; sai, è stato lui! – Ma io lo so già, diavolo, non hai altro da dirmi? – Ecco, tua moglie ha preso un altro marito. – Eh, lo so già, anche, questo. – Come, tu non piangi? – Perchè devo piangere? Ho già tanto pianto che ora non ne ho più voglia. O chi credi che io sia? Ora ho bene dell'esperienza: ho viaggiato, ho visto il mare, non sono più un ragazzo. Non m'importa più nulla.

Ma ecco, improvvisamente, mentre egli vantava la sua forza d'animo, o meglio il suo istintivo scetticismo, si sentì il cuore stretto da una mano fredda.

– Ah, ritornare là, nella piccola casetta; trovare Giovanna, il bambino, il passato!

– Non c'è più nulla, – disse a voce alta. – È passato il vento ed ha portato via tutto. Tutto… Tutto… Tutto… – Sul confine del campo di frumento si sedette soffocato dal dolore. Ecco cosa era. Il grande dolore era andato via, sì, da tempo, ma pareva si fosse nascosto sotto terra e camminasse là dentro, seguendo Costantino. Per lungo tempo egli non vedeva il mostro nascosto, ma v'erano poi certi momenti nei quali il mostro balzava su, squarciando il suolo col suo capo potente, e divertivasi a slanciarsi sulla vittima, azzannandogli la gola, spremendogli il cuore, soffocandolo. Poi tornava a nascondersi. Seduto sul confine del campo di frumento, Costantino trasse dalla sua piccola bisaccia una zucca secca piena di vino, e bevette arrovesciando il capo. La rimise e guardò il campo. Pareva d'essere sulla riva d'un lago, sul cui smeraldo dorato galleggiassero le macchie di sangue dei papaveri.

Poco dopo il reduce riprese il suo viaggio, e sembrava rasserenato, ma non camminava più con l'ardore di prima. Arrivare quel giorno, arrivare l'indomani valeva lo stesso, tanto non aveva nessuno che l'attendesse. E va, e va, le prime ombre della sera lo avvolsero mentre finiva di percorrere il fondo della valle. I grilli pareva segassero l'erba con piccole seghe di argento, i profumi dei fiori e dei cespugli gravavano tiepidi nell'aria; la brezza s'era spenta, gli uccelli tacevano, e solo i triangoli neri dei pipistrelli solcavano la cenere luminosa del crepuscolo.

Oh, la divina tristezza delle sere di primavera, che rattrista anche le anime felici! Non è forse essa la nostalgia atavica del paradiso terrestre, dei fiori e delle erbe e del tepore fragrante d'un'eterna primavera, per cui l'uomo fu creato e che egli ha perduta in eterno?

Costantino camminava e camminava; dopo lunghi anni di brutale oppressione, passati tra mura infette, fra uomini corrotti, in un cerchio ove l'aria stessa era imprigionata, egli attraversava lo spazio libero, calpestava l'erba, le pietre, ed a misura che saliva le montagne sorgenti dalla valle vedeva spalancarglisi più e più l'orizzonte, ed il cielo incurvarsi infinito e dolce come la libertà stessa; eppure giammai, nel carcere, aveva provato il senso profondo di tristezza che lo invadeva col cader delle ombre da quel libero cielo. Egli andava, ma perchè andava? dove andava? Era stato allegro al principio del viaggio, gli era parso di andare verso qualche posto ove avrebbe trovato delle cose liete. Ora si meravigliava di tutto ciò. Gli pareva, nell'incertezza del crepuscolo che velava le lontananze, che il suo viaggio fosse inutile, vano. Egli camminava invano: non aveva più patria, nè casa, nè famiglia; egli non sarebbe arrivato mai, mai a nessun posto. E gli sembrava di essere smarrito in un deserto infinito e cinereo come il cielo disteso sul suo capo, e dove le stelle che si accendevano sembravano fuochi di viandanti solitari, ignoti gli uni agli altri, smarriti come lui nella vana libertà del deserto.

Con tutto ciò egli non si rattristava pensando direttamente a Giovanna, alla felicità perduta per sempre, alle disgrazie che un ingiusto destino gli aveva mandato; queste tristezze gli avevano già tanto macerato l'anima ed il corpo che formavano il fondo stesso del suo essere, tanto che gli pareva di averle dimenticate, come si dimentica la veste che si ha addosso; ma ora lo rattristavano certi ricordi lontani, di cose materiali che aveva lasciato e che non ritroverebbe più.

Ricordava con intensità lo spiazzo davanti la casa di Giovanna, le pietre del muricciuolo dove si sedevano assieme nelle sere d'estate, e sopratutto ricordava il letto alto ed ampio dove riposava, vicino a lei, dopo la giornata faticosa. Ecco, gli sembrava di ritornare, stanco, dopo una di quelle lontane giornate. Ma ora non aveva più dove andare a riposarsi.

Sì, con tutta la tristezza struggente e indefinibile come le fragranze selvaggie delle brughiere che attraversava, si sentiva stanco ed aveva fame.

Giunto sull'alto d'una china sedette e aprì la bisaccia.

La notte era completamente scesa, ma chiara e diafana; sull'oriente, fra i monti che nascondevano il mare, dilagava l'alba lucida della luna; la via lattea varcava il cielo a guisa di una immensa strada bianca e deserta, l'occidente conservava un chiarore incerto di mare lontano.

 

Un albore magico circondava le montagne; si distingueva il sentiero, le macchie apparivano compatte e rotondeggianti come greggie nere; e nel silenzio immenso vibrava solo il singulto prolungato del cuculo.

Costantino mangiò e bevette; poi si arrovesciò sul ciglione e per un momento smarrì lo sguardo nella solitudine profonda di quella grande strada chiara che solcava il cielo. Poi chiuse gli occhi, provando il benessere del cibo, del vino e del riposo, e si sentì allegro come al principio del viaggio.

Ed ecco, appena chiusi gli occhi, rivide i suoi compagni di pena, e provò la sensazione fisica di trovarsi ancora a lavorare le scarpe. E sentì una gioia infantile pensando alle cose che aveva da raccontare ai suoi amici d'Orlei. Bisognava alzarsi, riprendere il viaggio, arrivar presto.

– Ora mi alzo e vado, – pensò, ma tosto rispose a sè stesso come un bambino imbizzarrito: – no, niente, rimango qui, dormo qui; ho sonno. No, bisogna andare, – riprese con pensiero vago, – Isidoro Pane m'aspetta. Gli dirò: eh, quanta gente ho conosciuto! Ho veduto il mare, ho un amico che si chiama il maresciallo Burrai, che mi farà dare un posto di calzolaio nella casa del re. Ecco, ora mi alzo e vado… vado… vado…

Ma non si mosse. Visioni confuse passarono davanti alla sua mente. Il re di picche cavalcava un asino e attraversava quella grande strada deserta tracciata sul cielo. Ad un tratto gittò uno, due, tre gridi, chiamando Costantino, che aperse un occhio velato, lo richiuse, lo tornò ad aprire.

– Stupido, è il cuculo, – pensò il viandante, – vado, sì… vado, vado…

E si addormentò.

Quando si svegliò, la luna già alta guardava sulle montagne, prona come un volto luminoso sul cielo di velluto argenteo. Con la sua luce azzurrognola calava la rugiada. Ombre immense come grandiosi veli neri coprivano certi fianchi delle montagne; ma ogni rupe, ogni macchia, ogni fiore, si disegnava nettamente sul terreno ove la luna batteva. Il cuculo ripeteva sempre i suoi gridi sottili e metallici come lame d'acciaio.

Costantino rabbrividì, si sentì umido di rugiada, s'alzò e sbadigliò: l'ahaa – prolungata del suo sbadiglio risuonò nel grande silenzio.

Il viandante guardò il cielo per indovinar l'ora; la stella, cioè Diana, non mostrava ancora al disopra del mare il suo grande smeraldo dorato. L'alba quindi era lontana e Costantino si rimise in viaggio, con la speranza di arrivare al paese prima che la gente si svegliasse.

Non voleva esporsi alla pubblica curiosità e temeva, sopratutto, di esser veduto da Giovanna o da sua madre. Egli contava di evitarle, non voleva vederle, non voleva passare davanti alla loro casa. A che serviva ciò? tutto era passato.

Si rimise dunque in viaggio. Saliva, scendeva, si arrampicava sui poggi illuminati dalla luna. Le macchie di cisto, l'asfodelo bagnato di rugiada, le roccie stesse, emanavano un odore umido e irritante; qualche filo d'acqua scendeva silenziosamente fra i puleggi fioriti.

Nei vasti orizzonti il cielo svaporava azzurro sopra montagne azzurre evanescenti, e tutte le lontananze si dissolvevano in una vaporosità cerulea di sogno. E l'uomo camminava, camminava. Sentiva la mente un po' assonnata, ma le membra agili e fresche. Ogni tanto faceva dei salti, passava per iscorciatoie ripide, e si fermava in alto, anelante, col cuore che gli batteva forte. La luna metteva scintille d'argento entro i suoi occhi limpidi.

Più procedeva, più riconosceva i luoghi; sentiva nell'aria la fragranza selvaggia della terra natia, riconosceva i salti melanconici seminati d'orzo e di frumento ancora verde, le brughiere di lentischio, i radi alberi selvatici mormoranti a qualche soffio di vento come vecchi dormenti che parlano in sogno; e più in là le grandi sfingi, azzurre alla luna, e più in là ancora la lama del mare, di quel mare che egli sentivasi superbo aver varcato, non importa come.

Giunto presso la chiesa di San Francesco sostò ancora, si scoprì il capo e pregò: e la sua preghiera fu sincera, perchè egli, in quel momento, sentiva tutta la gioia del ritorno, come non l'aveva ancora sentita.

Cominciava appena ad albeggiare quando Isidoro sentì picchiare alla sua porticina.

Da quindici, – da venti giorni, – da quattro mesi, – egli aspettava quel dun dun scricchiolante alla sua porticina: e balzò in piedi, ancor prima che il vecchio cuore cominciasse a balzargli in petto.

Andò ed aprì. Vide, o intravide, un individuo alto, che non indossava il costume del paese, ma vestiva un abito di fustagno duro come cuoio, ed aveva un viso lungo e pallido. Sulle prime non lo riconobbe.

Costantino si mise a ridere, un riso stridente che fece male al pescatore. Allora costui riconobbe il suo giovane amico, ma sentì un senso di freddo. Sì, quello era Costantino, ma non era più il Costantino d'una volta. Tuttavia lo abbracciò, senza baciarlo, e sentì il cuore fonderglisi in lagrime.

– Ecco, voi non mi riconoscevate! – disse Costantino, liberandosi della sua bisaccia. – Io lo sapevo.

Anche la sua voce ed il suo accento erano cambiati. Dopo il freddo, dopo la pietà, zio Isidoro provò un senso di soggezione.

– Perchè sei vestito così? Tu potevi attendere a Nuoro: io ti avrei portato il costume. Ed anche il cavallo. Sei tornato a piedi?

– No. San Francesco mi ha prestato il suo cavallo. Ecco, cosa fate, zio Isidoro? Io il caffè non lo voglio. Avete dell'acquavite?

Il pescatore, che si era messo a scoprire il fuoco, si rialzò turbato, confuso di non poter offrire altro che un po' di caffè.

– Io non sapevo… – disse, aprendo le mani, – ma aspetta, vado subito… Ecco, ti aspettavo e non ti aspettavo… – e s'avviò per uscire.

– Dove? Dove? – esclamò l'altro, rattenendolo. – Non voglio niente. L'ho detto per ischerzo. Sedetevi qui.

Isidoro sedette, cominciò a guardare timidamente Costantino, poi a poco a poco si fece coraggio e gli palpò i pantaloni, vicino al ginocchio, chiedendogli se rimaneva vestito così.

Dalla porta spalancata penetrava la luce dell'alba, ed il viso di Costantino appariva grigio e disfatto.

– Io rimarrò vestito così, sì, – disse, e rise ancora di quel cattivo riso. – Tanto dovrò andarmene fra poco.

– Tu dovrai andartene? Oh, e dove?

– Io ho conosciuto tanta gente, – cominciò Costantino, come recitando una lezione. – Eh, c'è della gente che mi aiuterà. Cosa volete che faccia qui?

– Ebbene, tu farai il calzolaio. Non mi hai scritto che volevi far ciò?

– Io conosco un maresciallo chiamato Burrai (per Costantino il re di picche era sempre un maresciallo). Egli ora vive a Roma e mi ha scritto. Egli mi farà dare un posto da calzolaio nella casa del re.

Zio Isidoro lo guardò con occhi pietosi. Ah, il disgraziato era un altro, era un altro!

– Perchè parla così, perchè dice sciocchezze, mentre abbiamo tante cose sanguinanti di cui parlare? – si domandò zio Isidoro.

Ma gli parve che Costantino fingesse, che si avvolgesse in un velo di falsa indifferenza. Ma perchè? Se non si apriva con lui, con chi si sarebbe aperto?

– Ecco, parliamo d'altro ora; parleremo poi di ciò, – disse. – Ma davvero, perchè non vuoi un po' di caffè? Ti farà bene.

– Di che volete parlare, dunque? – rispose l'altro con la sua voce monotona. – Io lo sapevo, che vi sareste meravigliato se non piangevo. Ho pianto tanto che non ne ho più voglia. Eppoi me ne andrò: non è possibile restar qui, dopo aver varcato il mare. Ebbene, datemi pure un po' di caffè. Ma chi è che passa? – disse poi, animandosi nell'udire un passo nella spianata. – Non voglio che mi vedano! – S'alzò e socchiuse la porta.

Quando si volse aveva il viso mutato, ed un tremito gli agitava il mento. Disse con voce sottile, sempre più sottile:

– Sono passato di là, venendo qui. Non volevo passarci, ma mi sono trovato là senza accorgermi. Come, come posso rimaner qui?.. ditelo… voi!

E si strinse le tempia con una mano, scuotendo disperatamente il capo. Poi si gittò per terra e si contorse e pianse con urli soffocati d'una violenza indescrivibile, come un toro preso al laccio e marcato col ferro rovente.

Il pescatore impallidì alquanto; ma non disse parola per calmare quell'uragano di dolore. Ah, finalmente riconosceva il suo Costantino!

XVI

Appena si sparse la voce del ritorno di Costantino, la catapecchia del pescatore si riempì di gente, e tutto il giorno fu un andirivieni di amici, di parenti, di persone che prima non avevano mai scambiato parola col poveretto, ed ora venivano, lo abbracciavano, gli offrivano la loro casa. Le donne piangevano, lo chiamavano «figlio mio», lo guardavano con occhi pietosi. Una vicina mandò pane e salsiccie.

Ebbene, tutte queste dimostrazioni di stima e di pietà stizzivano il giovane. Diceva ad Isidoro:

– Perchè hanno compassione di me? Cacciateli via: andiamo in campagna.

– Andremo, andremo, figlio di Dio, abbi pazienza, – rispondeva l'altro, curvo sul focolare a cuocer le salsiccie. – Ah, come sei diventato cattivo! Possibile?

Ecco, dopo lo scoppio di dolore avvenuto all'alba, zio Isidoro non aveva più soggezione di Costantino, anzi cominciava a prendersi delle libertà, sgridandolo come un bambino. Nei pochi momenti in cui restavano soli, cominciava e ricominciava a narrare i fatti: Costantino ascoltava avidamente, e si seccava quando la gente veniva ad interrompere il racconto.

Venne anche il sindaco, che era ancora quel pastore dal viso di Napoleone I. Questa visita, veramente, commosse Costantino.

– Noi ti daremo pecore e vacche, gli disse il sindaco, dopo essersi soffiato il naso con le dita. – Sì. Ogni pastore ti darà un pecus12. Se hai bisogno di qualche cosa dillo subito. Nel mondo siamo tutti fratelli, ma specialmente lo siamo nei piccoli paesi.

Costantino pensò a ciò che i fratelli del suo piccolo paese gli avevano fatto, e scosse il capo.

– Ah, – disse – i fratelli fecero a me ciò che Caino fece ad Abele. Non bastano vacche e pecore per ridonarmi vita e compensarmi!

– Ebbene, questo non importa, – riprese il sindaco, fisso nella sua idea. – Tu che hai viaggiato, dimmi, hai visto da un'alta montagna i paesi sparsi nelle sottostanti campagne? Ebbene, non sembra di vedere tante case, in ognuna delle quali vive una famiglia?

Costantino cominciò a seccarsi per i discorsi del sindaco, e rispose che voleva lasciare il paese, andarsene via, lontano, non tornare mai più.

– Tu non andrai via. No, non andare, – gli consigliò l'altro. – Dove vuoi andare? Devi restare qui, dove tutti siamo fratelli.

Poi venne il dottor Puddu, con un grande ombrello grigio-sporco, e andò a guardare cosa c'era dentro la pentola.

– Voi siete tanti delinquenti perchè mangiate delle porcherie, – cominciò a gridare con la sua voce rauca, picchiando con l'ombrello sulla pentola.

– Non la rompa! – disse Isidoro, – e scusi tanto che quella non è porcheria. Son fave e lardo e salsiccie.

– E il lardo non viene dal porco? Siete tutti porci, qui… Tu dunque sei tornato, buona lana? – si rivolse a Costantino. – Io ho visto morire colui. – Chi? chi? – Giacobbe Dejas! Egli è morto di mala morte, come meritava. Tu ti prenderai una purga, domani. Dopo un viaggio è assolutamente necessaria.

Costantino lo guardava e taceva.

– Tu mi credi pazzo! – gli gridò il medico, andandogli addosso e minacciandolo con l'ombrello. – Una purga, capisci, una purga!..

– Ho sentito, – disse Costantino.

– Oh, meno male! Ho sentito anche io, che tu vuoi andar via. Viaaa! Va magari a casa del diavolo, ma va via. Prima, però, va al camposanto, a quel letamaio che voi chiamate cam-po-santo! E scava, scava come un cane, e roditi le ossa di Giacobbe Dejas.

Digrignò i denti, come rosicchiando delle ossa: era ridicolo e orribile, e Costantino tornò a guardarlo con stupore.

– Perchè mi guardi così? Tu sei stato sempre un cretino, caro mio, piccola bestia. Eccolo lì, tranquillo e pacifico come un papa! Ti hanno tolto tutto, ti hanno tradito, ammazzato, ti hanno percosso vilmente, come se percuotessero un cadavere, e tu stai lì istupidito e rimbambito. Ma perchè non ti muovi? Perchè non vai da quella mala femmina e da sua madre e da sua suocera, e le prendi per i capelli, e le attacchi alle code delle vacche che ti vogliono dare per elemosina, e metti fuoco alle loro sottane, e poi slanci le vacche per il paese, in modo che si incendi tutto? Tutto, capisci? Capisci, animale?

 

Gli urlava sul viso, emanando dalla bocca un pestilenziale odore d'assenzio, cogli occhi iniettati di sangue. Costantino indietreggiava, e le parole di colui lo facevano tremare.

Ma subito l'orribile uomo si allontanò, andò via, e volgendosi sulla porta agitò l'ombrello.

– Mi fai venire il desiderio di rompertelo sul muso, – disse. – Gli uomini come te meritano ciò che fu fatto a te. Ebbene, prenditi almeno la purga, stupidone.

– Quello lo farò! – esclamò Costantino. E rise; ma le parole del «dottore» gli lasciarono una profonda impressione. Ah, sì, in certi momenti sentiva impeti ardenti di disperazione; egli diceva di voler andar via, ma non sapeva precisamente ove sarebbe andato, e non sapeva che avrebbe fatto se rimaneva in paese. Pensava:

– Io non ho casa, io non ho nessuno. Oggi vengono a salutarmi, per curiosare, ma domani nessuno più si ricorderà di me. Io sono come un uccello senza nido. Che farò io?

Le parole del «dottore» gli rombavano nella mente. Andare, andar là, piombare come la folgore, distruggere quelli che avevano dissipato la sua vita.

– … No, Costantino, essa non è felice, – ricominciò Isidoro, quando si misero a mangiare le salsiccie ed il pane bianco che la vicina aveva mandato in regalo. – Essa non è felice. Io non l'ho guardata più in faccia; e quando la vedo provo una cosa strana, come quando si vede la tentazione13. Eppure, vedi, io ho compassione di lei. Essa ha una figliuola che, mi dicono, rassomiglia ad una fava fresca, tanto è sottile e verde. Come possono esser belli i figli del peccato mortale? E la bambina è stata battezzata come una bastarda: il prete non l'accompagnò a casa, la gente sogghignava per la strada.

– Ah, ricordate il mio bambino? – chiese Costantino tagliando il lardo giallognolo e grasso. – Egli, no, non sembrava una fava. Ah, se egli fosse vissuto!

– È meglio che egli sia morto, – cominciò a filosofare il pescatore. – La vita è piena di miserie. Meglio morire innocenti, andare, volare lassù, al di là del cielo azzurro, nel paradiso disteso al disopra delle nuvole, al di sopra del vento, al disopra di tutte le disgrazie umane. Bevi, Costantino, – disse poi; questo vino non è buono, ma non è ancora aceto. Ecco, mi ricordo, l'anno scorso, il giorno dell'Assunzione, Giacobbe Dejas mi invitò a pranzo da lui. Egli aveva paura di me; credeva che io sapessi… e voleva darmi sua sorella in isposa! Se tu vedessi quella donna non rideresti più. Essa venne con me e col prete dal giudice, a Nuoro. Così il Signore mi assista nell'ora della morte, se io vidi mai una donna più coraggiosa: ella parve sollevarsi da terra. Poi ella s'è curvata, s'è raggrinzita, sai, come quei frutti che si disseccano sulla pianta prima di maturare. Io vado sempre a trovarla; per divertirla le dico: ebbene, vogliamo sposarci, granellino d'orzo? – Ella sorride, io sorrido; ma abbiamo voglia di piangere. Chi poteva mai pensarlo? Ecco dunque, volevo dire: Giacobbe sembrava felice e contento; arricchiva, pensava di prender moglie. Ed ecco ad un tratto – pum! egli cade a terra come una pera fracida. E così è la vita. Bachisia Era mercanteggiò sua figlia, credendo di cambiare stato, ed ora muore di fame peggio di prima: Giovanna Era fece quel che fece, credendo di raggiungere il cielo in terra, ed invece si trova come una rana infilzata viva in una pertica.

– Ma la bastona, colui? – domandò Costantino, cupo.

– Egli non la bastona, ma vi sono maltrattamenti peggiori delle bastonate. L'hanno presa per una serva, sai; per una schiava, anzi. Sai come gli antichi trattavano gli schiavi? Così ella vien trattata in quella casa.

– Ebbene, che crepi! Beviamo alla sua dannazione! – disse Costantino alzando il bicchiere.

Nell'udire che Giovanna era infelice, egli provava la gioia crudele, fatta di spasimo quasi fisico, che provano i bambini nel veder bastonato un loro compagno malvoluto.

Dopo pranzo i due uomini uscirono fuori e si coricarono all'ombra del fico selvatico. Il meriggio era caldo; l'aria immobile odorava di papaveri, l'orizzonte svaporava cenerognolo come nei meriggi estivi, e le api ronzavano suonando le loro piccole trombe monotone. Costantino, stanco, disfatto, s'addormentò subito; ma il pescatore non potè chiudere occhio. Una cavalletta verde saltava sull'erba e sui papaveri con un aspro tic-tic; ed Isidoro allungò il braccio e cominciò a darle la caccia, mentre pensava:

– Io so perchè egli vuole andarsene. Egli le vuole ancora bene, povero fanciullo: s'egli resta qui soffrirà come San Lorenzo sulla graticola. Eccolo lì, povera creatura. Sembra un fanciullo malato. Ah, cosa hanno fatto di lui! Lo hanno sbranato. Ecco che ti ho presa!

Ed una cosa curiosa avvenne in lui: mentre stava per sbranare la cavalletta, pensò che essa avrebbe sofferto come soffriva Costantino. E la lasciò andare.

Un'ombra apparve in fondo al sentiero; zio Isidoro riconobbe prete Elias, balzò in piedi, gli andò incontro, e lo attirò entro la catapecchia, non volendo svegliare Costantino; ma costui aveva il sonno leggiero, si svegliò, udì parlare, si alzò, e nell'avvicinarsi alla porta sentì che discorrevano di lui:

– È meglio che se ne vada – diceva il prete con voce grave. – È meglio. È meglio.

Costantino, non seppe perchè, si turbò nell'udire quelle parole.

Ma egli non se ne andò.

I giorni scorsero, la gente fini di molestare il reduce che cominciò a girare per il paese senza esser più oggetto di curiosità alle donnicciuole ed ai ragazzi. Coi denari guadagnati nella reclusione egli si provvide di cuoio, suola e spago, ma non si metteva mai a lavorare. Ogni giorno comprava carne, frutta e vino, mangiava e beveva molto, e pretendeva che Isidoro lo imitasse. Gli pesava l'ospitalità del pescatore, aveva paura che nel paese si credesse ch'egli vivesse di scrocco, e teneva a mostrarsi generoso con Isidoro e con tutti. Conduceva nella bettola frotte di conoscenti, li ubbriacava, si ubbriacava anch'egli, ed allora cominciava a raccontare la sua vita al reclusorio, e ingrandiva le cose in modo straordinario.

Così i suoi soldini se ne andavano, e quando Isidoro lo sgridava, egli diceva:

– Ebbene, io non ho figli, io non ho nessuno a cui pensare. Lasciatemi in pace.

D'altronde contava sull'eredità dello zio assassinato, eredità che i parenti promettevano di restituirgli senza ricorrere alla giustizia.

– Allora, – diceva, – venderò tutto, e me ne andrò. A voi darò cento scudi, zio Isidoro.

Ma il povero uomo non voleva niente. Voleva soltanto che Costantino ritornasse quello che era prima della disgrazia, buono, laborioso, non finto.

Perchè il vecchio sentiva che il disgraziato fingeva, e ne provava un dolore profondo: spesso però lo sorprendeva con le lacrime agli occhi ed allora il suo vecchio cuore sussultava di gioia.

– Che hai, figlio di Dio? – gli chiedeva. Ma Costantino si metteva a ridere mentre le lagrime gli solcavano le guancie. Ciò era orribile.

Qualche volta andavano assieme alla pesca delle sanguisughe, e mentre Isidoro stava con le gambe ignude immerse nell'acqua giallognola e morta, in un punto ove il ruscello stagnava, Costantino, sdraiato sui giunchi, raccontava storielle sulla vita dei compagni di pena, e guardava l'orizzonte con strana nostalgia.

Andarsene! Andarsene! Egli avrebbe voluto andarsene, perchè lassù, sotto quel cielo fatale, nella morta solitudine dell'altipiano, vigilata dalle sfingi immani delle montagne, si sentiva come stretto da un cerchio di ferro rovente. Tutte le cose, dai fili dell'erba crescente sulle straduccie, ai picchi delle montagne, gli ricordavano il passato. Ogni notte egli si aggirava cauto come una volpe intorno alla casa di Giovanna. Una sera vide la figura alta della giovine donna uscire dal portico e andare verso la loro casetta. Era la prima volta che rivedeva Giovanna, e la riconobbe tosto, nonostante l'oscurità umida della sera un po' annuvolata: il cuore gli battè violentemente, ed ogni pulsazione era un dolore diverso, un ricordo, un impeto disperato. Egli fu per precipitarsi addosso alla donna, abbracciarla, ucciderla. Poi non gli bastò vederla così, di nascosto, all'ombra: fu invasato dal desiderio di vederla e di farsi vedere alla luce del sole; ma ella non usciva mai, ed egli di giorno aveva paura di passare davanti alla casa bianca.

12Capo di bestiame.
13Il diavolo.