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Eva

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Perché ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant’è, acciò serva a qualche cosa, ti dirò che, non so perché, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere borsa dai suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi.

Io avevo vissuto vent’anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d’immaginazione. Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto credo che non avrei mai avuto tanta vigoria di mente e d’anima, tanta felicità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita. Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita – io che avevo avuto l’anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l’avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c’era nella mia esistenza fra le passioni e i sentimenti, si rivelava nelle mie opere. Ero falso nell’arte com’ero fuori del vero nella vita – e il pubblico mi batteva le mani. Quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano. Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato, e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l’arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, e di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell’atmosfera come un nuotatore che annega. Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poiché sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo. Non credevo più nell’amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica – e mi sbramavo nel capriccio. Non avevo un caldo sentimento religioso; il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali, rare volte convinti di aver ragione. Vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti e di gaudenti; l’atmosfera era calda di effluvi giovanili. – Come vuoi che io potessi comprender l’arte in tali condizioni?… mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tanti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà, e di quella sordida preoccupazione generale. Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari, del pudore del velo, e dell’innocenza dello sguardo.

Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me. Più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala. Più di un guanto profumato era stato dimenticato sul mio canapè. Ti giuro che i miei sogni valevano assai più della realtà! Ah! le mie duchesse di via Santo Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l’oscurità e i miei castelli in aria. Non ti dirò di chi fosse il torto, anzi probabilmente era il mio, perch’ero sognatore, perch’ero ombroso e diffidente, perch’ero divenuto scettico, perché amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore. Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo – Non so quale.

Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva come si parla del miglior cavallo da corsa, dell’opera in voga, e della più bella pariglia. Era un’appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri. Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei – i suoi nastri scoloriti, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati. – Avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov’ella aveva dormito tanti sonni – ed ora, a volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla, d’incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità. – Non era più amore, ma era vanità. – Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l’uno per l’altro.

Non l’avevo più vista. La dicevano bella come prima, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina. Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentai altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso – ricordi che mi montavano alla testa. – Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri.

Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell’olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra, per scambiare un sorriso o una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, con la dea del santuario. Io le sedevo accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi. Tutt’a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l’occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia – era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola – ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel braccio nudo, tanto bello ch’era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà. Però l’osservazione di lei era così insistente che, senza volerlo, seguii la direzione di quell’occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante. La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto. Allora anche l’altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva – Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l’amore negli occhi – anzi, la voluttà – e il sorriso inebbriante – il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti.

«Chi c’è nel palco numero tre, in seconda fila?» domandò la dea con quell’accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali.

L’officioso più lesto e più fortunato rispose:

«Il conte Silvani.»

«È un pezzo che non si vede il conte!»

«È stato in Germania.»

«E ha preso moglie?»

«No.»

«Ah!»

Nel vestibolo incontrai di nuovo Eva di faccia a faccia. Ella mi lanciò di bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno al cuore.

La dea aveva un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poiché l’occhio non vi vuol riconoscere, e domandò, con quel muto linguaggio, all’insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore. Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un raddoppiamento di leggiadra civetteria; – il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! – Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle, e mi pare che osservasse con la coda dell’occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra. Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente.

Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano volti sorridenti verso di me.

Un giorno all’improvviso Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto, come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi. Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l’amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato; mi disse cento cose seducenti come ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i piedini sugli alari. È impossibile esprimerti tutto quello che c’era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti. Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, – e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano. Poi, dopo ch’ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi tacchi degli stivalini, ella si alzò tranquillamente e mi stese la mano. – Se ne andava! erano le due, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, a fare un giro alle Cascine. Alle sei poi davano in tavola – mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanza, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante.

«Matto! matto!» mi disse lisciandosi i capelli allo specchio. «Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea?»

«Quale dea?»

«Quella del Pagliano, la superbiosa. L’ami molto?»

«Punto.»

«Ti credo. Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre. L’amerai per vanità.»

«Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità.»

«Come sei diventato!» e mi guardava tutta sorpresa, con cert’aria ingenua che possedeva ancora. «Dimmi come amano le gran dame» e annodava i nastri del cappellino.

«Come le piccole.»

«Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio.»

«Verrai a trovarmi?»

«No.»

«Verrò io?»

«No.»

«Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!»

 

Ella mi guardò e scoppiò a ridere.

«Proprio?» mi disse.

«Come dell’aria per respirare!»

«Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!»

«Perché sei venuta dunque, maliarda? perché mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?…»

Ella mi guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse:

«Ero gelosa!»

«Dunque mi ami!»

«No. Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! Andiamo, via, non più sciocchezze!» riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano per rabbonirmi. «Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli. Non scherziamo più col fuoco!»

Ella seguitava ad accarezzarmi le mani, e vedendomi sempre accigliato soggiunse:

«Ti giuro che se avessi prevista cotesta nuova follia non sarei venuta!»

«Ah! non lo sapevi?»

«No! Mi pareva di trovarti più ragionevole.»

«Ma adesso che vedi come non lo sono, e che son più pazzo di prima, e che son geloso non del tuo cuore, ma del tuo corpo, e che un lembo della tua veste se mi tocca mi fa perder la testa, perché non seguitare, se non ad amarmi, almeno a lasciarti amare?»

Eva mi guardò in viso in modo singolare e mi disse tranquillamente:

«Perché ho più giudizio di te.»

«Non mi ami più?»

«No.»

«Perché sei venuta dunque? Dimmelo, maledetta! maledetta! Fu un capriccio?…»

«Sì… e se durasse sarebbe una follia… per te, e per me.»

Allora io andai all’uscio, senza far motto, e l’apersi.

«Senza rancore!» diss’ella stendendomi la mano.

E lasciandola cadere dopo aver aspettato inutilmente soggiunse:

«È pure una gran disgrazia che siate fatto così.»

Uscì stringendosi nella veste per non toccarmi. Io corsi a nascondere il viso e le lagrime nei guanciali ancora odorosi del profumo dei suoi capelli.

Quelle due ore avevano gettato sul mio cuore il soffio ardente delle tempeste del passato. Io l’adoravo, sì, l’adoravo così com’era, l’adoravo perch’era così! Avevo il desiderio frenetico dei suoi guanti che si lasciava strappare e lacerare ridendo, e dei suoi stivalini di cui la seta strideva fra le mie mani.

Feci mille pazzie per lei, la cercai, implorai, piansi, passai le notti sotto le sue finestre, vidi l’ombra di lei accanto all’ombra di un uomo dietro le cortine, seguii di notte la sua carrozza per le vie e vidi il suo capo sull’omero di lui. – Ella mi ravvisò, e chiuse le imposte o si tirò vivamente indietro, o volse il capo dall’altra parte. – Sirena! maliarda! che mi aveva inebbriato coll’amore, ed ora mi intossicava con la gelosia! Le scrissi; le scrissi umile, delirante, minaccioso. Ella mi rimandò le mie lettere con un sol motto: « Una follia non si fa due volte o diventa sciocchezza «. – Una sera la rividi in teatro; ella non mi gettò che un’occhiata dal suo palchetto – a me che divoravo la sua bellezza con tutti i sensi e ne ero geloso! La vidi uscire raggiante, superba, colla testa alta, il cappuccio sugli occhi, e il braccio nudo appoggiato a quello di lui. Io feci stridere la seta della sua veste imprigionata sotto al mio piede; ella si volse vivamente e mi gettò in faccia un’occhiata di collera, forse senza riconoscermi.

E così la seguo da mesi, con questo acre desiderio di lei ch’è memoria e gelosia mischiate insieme; e cerco di vederla; e frequento i luoghi dove spero incontrarla; e la riconosco al portamento, al posare del piede, al muover della testa; e stasera la riconobbi subito appena la vidi, sebbene mascherata, e quando potei farla parlare ed accertarmi ch’era proprio lei non la lasciai più, da lontano o da vicino, e so quel che ha fatto, quel che farà, l’ora in cui la carrozza verrà a prenderla, e poco fa, mentre era seduta nel ridotto, nel momento in cui vidi allontanare il conte per andare a comprarle dei dolci, sedetti accanto a lei e mi tolsi la maschera.

«Voi!» esclamò. «Ancora!»

«Sì! non tentate di sfuggirmi; voglio il tuo amore!»

«Siete pazzo!» mi disse, gettandomi in faccia la doccia fredda della sua calma.

«E voi senza cuore!»

«Io! che vi ho sacrificato dieci mesi della mia giovinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che avete messo alla porta quasi in cenci!»

«Ah! e volete vendicarvi!…»

«No, ve lo giuro. Non sono in collera con voi. Non lo sarei che ove vi ostinaste in questa follia. Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa, abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore; ecco il nostro torto, perché anch’io ci ho creduto per un istante. Ma non siamo abbastanza ricchi per permetterci questo lusso.»

«Non credete all’amore?» le dissi insolentemente. «non ci credete più?»

«Oh, tutt’altro! È il ferro del mestiere. Ma credo a quello degli altri. Anche voi dovete crederci, ma in tutt’altro modo, per scaldare la vostra fantasia e farne risultare dei bei quadri che vi frutteranno onori e quattrini.»

«Oh, è un’infamia!»

Ella si drizzò come una duchessa cui si fosse mancato di rispetto e mi disse seccamente:

«Me l’avete insegnata voi! Ora andatevene, ché viene il conte.»

«Oh! tanto meglio! Voglio conoscerlo questo felice mortale che vi paga i baci e le menzogne!»

«Ah!» esclamò con un sorriso che non avevo mai visto in lei «mi ricompensate così! Ma guardatevi! che il conte, oltre il pagarmi tutto questo, regala anche dei famosi colpi di spada!»

«Pel nome di Dio!» mormorai ebbro di collera e di gelosia, «che egli non ti pagherà più nulla, e domani sarai sulla strada se non vorrai venire a chiedermi ospitalità!»

«Tu sai che ho scommesso!» finì Enrico guardandomi con occhi sfavillanti.

Enrico si passò la mano sugli occhi, per scacciarne la frenesia che vi lampeggiava, e riprese dopo alcuni istanti di silenzio:

«Sono pazzo! lo so anch’io! Ma la ragione mi è insopportabile. Non ho più fede nell’arte, nella vita, di cui posso contare i giorni che ancora mi rimangono, nell’amore… e son geloso!…»

«Hai visto le sue braccia nude?» mi domandò dopo un istante con voce rauca, come se parlasse in sogno.

«Ma la tua famiglia?» gli dissi.

Non rispose. Poscia, dopo un lungo silenzio e asciugandosi gli occhi. «È il solo dolore che mi rimanga!»

«Potrebbe anche essere un conforto, e tale da compensarti ampiamente.»

Enrico mi rise in faccia con un’ironia quasi insolente.

«Mio caro, i sentimenti puri non sono che per le anime pure. Che cosa porterei in mezzo alla mia famiglia che ha sacrificato tutto al mio egoismo?… i miei infami sogni? i miei sozzi desideri? i miei disinganni colpevoli? Grazie a Dio, non sono arrivato così in basso da non comprendere che morrei di vergogna pensando ad Eva, nelle braccia di mia madre, e che profanerei vilmente le labbra di mia sorella, coi baci che ho dato a quella donna!»

Si alzò bruscamente, come se temesse qualche altra osservazione.

«Fra mezz’ora,» mi disse, «al buffet; il conte vi ha dato appuntamento ad un suo amico che parte per Parigi col primo treno. Sono le quattro; hanno ordinato la carrozza per le cinque; sono certo di non mancare.»

Mi toccò appena la mano, ed uscì.

Egli mi aveva rovesciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta di un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con parole rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa metter fuori, e cui solo lo sguardo sa dare un significato. Io non potrei accennare la millesima parte dell’impressione che faceva quella dolorosa frenesia, irrompente, concitata e febbrile di un uomo col piede diggià nella fossa, che gemeva, si contorceva ed urlava nel suono della voce, nel tremito delle labbra, nelle lagrime degli occhi, mentre la folla delle maschere urlava anch’essa ebbra di vino e di musica rimbombante. Tutto ciò mi saliva alla testa, mi ubbriacava. Ero rimasto attonito, quasi annichilito dinanzi a quella tempesta del cuore, come dinanzi ad una tempesta degli elementi. Uscii dal palco dopo di Enrico, e lo cercai inutilmente pei corridoi, in platea, sul palcoscenico, da per tutto. Dov’era andato?

Vidi l’elegante coppia che aveva attirati tutti gli sguardi dirigersi verso il buffet, e la seguii. Quella strana avventura mi aveva gettato in una singolare preoccupazione. Il trovatore si tolse la maschera; era veramente il conte Silvani, bel giovane, ricco, prodigo, coraggioso. Era l’ora in cui la stanchezza, o il caldo, o il vino, o la follia, fanno cadere tutte le maschere, ed anche Eva si tolse la sua. Aveva il viso rosso, volse in giro un’occhiata quasi timida; poi si assise di faccia al suo compagno. Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l’eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile. A poco a poco vidi radunarsi nella sala tutti quei giovanotti che si erano trovati impegnati, senza saper come, in quella bizzarra scommessa. Si guardavano attorno con curiosità, sorridevano, e si parlavano a bassa voce. Di quando in quando Eva volgeva uno sguardo sulla folla che andava e veniva dall’uscio, e poi tornava a ridere e a parlare col conte. La mezz’ora suonava. Io tenevo gli occhi fissi su di Eva, e tutt’a un tratto la vidi impallidire lievemente, chinarsi all’orecchio del conte e dirgli qualche parola; questi sorrise e accennò negativamente; prese il bicchiere di lei, e lo riempì di sciampagna. Seguii la direzione degli occhi della donna, straordinariamente spalancati, e vidi Enrico, che si teneva sulla soglia, senza maschera, con certa faccia pallida di malaugurio che gli dava l’aspetto di un cadavere. Non so perché – non conoscevo, direi, costui che da due ore – ma il cuore mi batté forte.

Infatti vi dovea essere veramente qualcosa di straordinario nel suo aspetto, poiché tutti lo guardarono in un certo modo come di sorpresa. Anche il conte si volse a guardarlo, vedendo che tutti lo guardavano, e sorrise.

«Tò! ancora quell’originale!»

Enrico gli si avvicinò con tutta calma, e si tolse il berretto con comica serietà.

«Ti diverti?» gli disse sorridendo il conte per dire qualche cosa, giacché quel saluto gli avea tirato addosso l’attenzione generale.

«Sì! in fede mia, si! quando ti vedo mi diverto.»

«Mi conosci?»

«Diavolo! Chi non ti conosce!»

«Bevi alla mia salute, dunque», gli disse porgendogli il bicchiere spumeggiante.

«In coscienza non posso; ché tu stai molto male!»

«Ah! ah! una delle solite facezie!» sghignazzò il conte rivolto ad Eva. «Adesso ci dirà i nostri segreti!»

Io guardai Eva e la vidi pallida come cera.

«Oh! oh!» rispose Enrico ridendo come avrebbe potuto ridere uno spettro se gli spettri potessero ridere; «il segreto di pulcinella!»

Il conte sembrò imbarazzato per un istante; ma non era uomo da darsi per vinto alla prima, e replicò: «Sapevo la tua risposta: è vecchia come il tuo travestimento.»

«Da arlecchino d’onore, no! Anzi, per provarti che non sono un ciarlatano, ti dirò quelli di lei» e accennò ad Eva. «Non i segreti del suo cuore, poiché non ne ha; ma posso dirti quelli della sua vita.»

Eva fece un movimento per alzarsi, quasi avesse perduta la testa, e agitò due o tre volte le labbra pallide senza poter parlare. Attorno a quel gruppo si era formato un cerchio di curiosi, di cui il centro era occupato da quei due uomini che sorridevano. Ci fu un istante di silenzio. Evidentemente il conte avrebbe fatto a meno di quella lotta di frizzi, ma come trarsi indietro? Enrico gli sorrideva sempre, col suo viso cadaverico e gli occhi luccicanti come quelli di un fantasma.

«Ah! davvero? E come lo sai?» disse il conte con uno sforzo d’audacia, perché era imbarazzato egli medesimo del suo silenzio.

Enrico appoggiò ambe le mani sul marmo del tavolino, si chinò verso di lui sin quasi a soffiargli in faccia le parole, e rispose lentamente:

«Lo so, perché sono stato l’amante della tua amante.»

Nell’occhio del conte passò un lampo, e le sue labbra si contrassero sforzandosi di sorridere ancora. Sembrò ondeggiare un istante sul partito da prendere, e istintivamente volse attorno uno sguardo furtivo e lo fermò su di Eva. Ella era pallidissima, avea le labbra livide e l’occhio smarrito quasi stesse per svenire. Tutti quegli occhi che si fissavano sul conte sembrarono raddoppiare il sangue freddo di lui. Egli esitò un solo momento; poi alzò il bicchiere ricolmo all’altezza del naso di Enrico ed esclamò:

«Alla salute dei tuoi amori passati dunque!» e vuotò il bicchiere d’un fiato.

Ci fu uno scoppio di applausi.

«Bravo!» disse anche Enrico. «Sei un uomo di spirito!»

«Grazie!»

«Io lo sapevo, e perciò ho fatto la scommessa.»

«Davvero?»

«Sì, ho scommesso che avrei dato un bacio alla tua amante, e che tu non l’avresti avuta a male.»

 

«Eh, caro mio! Scommessa arrischiata!» rispose il conte che cominciava a farsi serio.

«Ohibò! Sei un uomo ammodo! Guarda!…»

E senza precipitazione, con quella calma che non l’aveva abbandonato un solo istante, si chinò su di Eva, la quale era quasi fuori di sé, e non si aspettava certamente quell’eccesso di follia, e la baciò sulla guancia.

Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo.

«Oh, oh» esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre riso, e passandosi la manica sulla guancia rossa. «Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute.»

Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnato la scommessa con Enrico. Silvani era partito. Io accompagnai il mio amico che sembrava diventato un altro, indifferente a tutto, anzi un po’ inebetito come quando girava fra la calca del veglione. I suoi occhi luccicavano da pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto. Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano; e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca con la sua spensieratezza. – Quella musica, quell’allegria scapigliata e quell’uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore. Allorché fummo in carrozza, m’accorsi che Enrico tremava come chi è colto da febbre. Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò.

«Non occorre;» mi disse, «fa caldo.»

«Hai la febbre!»

«Lo so. Son parecchi mesi che l’ho tutte le sere… Passerà.»

E rideva.

Era ancora buio. Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade e i tetti sicché la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico. Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale. L’aria era frizzante; i primi chiarori dell’alba imbiancavano debolmente il cielo attraverso l’incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull’orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava, ad una certa distanza, un’ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati.

L’alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero. Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca. Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio. Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, quasi non si fossero conosciuti mai.

Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti. Il conte accese un’altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo dicendo:

«Sarà una bella giornata.»

Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza.

Enrico si tolse l’abito e lo piegò accuratamente; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l’aria con essa. Successe un istante di silenzio. Poi si udì una voce:

«A voi, signori!».

E le due lame scintillarono.

Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo.

Enrico avea la guardia un po’ spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d’un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento del pugno. Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona.

Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si rimise in guardia come per vedere con chi avesse a che fare. Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l’odio che si scontrava con l’odio.

Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella dell’avversario con un movimento felino. Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente. A un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall’altra parte del suo petto.

«Alto!» gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti.

«Non è nulla!» disse Enrico scoprendosi il petto. «È una scalfittura.»

Il ferro però aveva fatto quel che avea potuto, e aveva portato via quello che aveva incontrato. Una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico e la camicia, ch’era stata meno lesta di lui, era stata bucata netta.

Il chirurgo – un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana come il ‘Dottore dal cappello bianco’ – esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle.

«Diavolo!» esclamò Enrico. «Non credevo che ci fosse ancora tanta carne nelle mia ossa.»

Il dottore voleva fasciargli la ferita. «No,» egli rispose; «il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio.»

Il conte s’inchinò.

Non c’era che dire, quei due bravi giovanotti si scannavano da perfetti gentiluomini.

Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi di un pallore sinistro. Lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio. Enrico sentiva al certo che non aveva tempo da perdere, perché il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse. Si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell’occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all’indietro: sembrava una molla d’acciaio che stia per scattare. Il conte l’assaliva colla furia di chi capisce d’avere a che fare con un temibile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso. Tutt’a un tratto si vide una striscia di luce correre e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d’un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada.

Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su un ginocchio.

Tutti si precipitarono su di lui. Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto.

Il ‘Dottore dal cappello bianco’ s’inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia.

La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue. Sembrava davvero una cosa da nulla. Il dottore non ebbe bisogno che di una sola occhiata, per ordinare, con quell’accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni, rialzandosi bruscamente: «La carrozza! presto, la carrozza!»

Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti. Ero tornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia. Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant’Agata-li-Battiati, ove mi trovavo.

Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante. Però non ci volle molto per correre alla firma, giacché la lettera era brevissima; era di Enrico Lanti e diceva:

« Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarti, se vuoi rendermi quest’ultimo servigio. «

Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che aveva recato la lettera.