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Eva

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«Entrando ho interrotto la tua lettura»; le dissi, e le porsi la lettera.

Ella la prese vivamente.

«Oh, nulla d’importante.»

«Ebbene, leggila pure.»

«L’avevo già letta», e con un gesto naturalissimo la buttò nel camino.

Io non seppi dominare un movimento come per buttarmi sul fuoco.

«Chi ti scrive?» le domandai facendomi rosso in volto.

«Il conte Silvani.»

«Ah!»

«Mi pare che la mia franchezza dovrebbe disarmare i tuoi pazzi sospetti!»

«Tanto più che adesso devo contentarmi della franchezza!» le dissi amaramente, additando il foglio che ardeva.

«Oh!» esclamò ella celandosi il viso fra le mani. «Oh!»

Sentivo montarmi alla testa dei caldi soffi di collera selvaggia. Ella rimase un istante in silenzio, col viso rosso di vergogna, poi esclamò: «Siete pazzo!»

«Avete ragione!» le dissi mettendo tutta la mia amarezza in un sorriso; e aspettai che mi rispondesse qualche cosa per sfogarmi di tutti i sarcasmi che mi bollivano in seno.

Ella non mi diceva più nulla; attizzava il fuoco colle molle e aveva l’aria severa.

«Quella lettera naturalmente accompagnava quel gioiello!» ripresi dopo un lungo silenzio, poiché sentivo il bisogno ch’ella dicesse qualcosa.

«Sì» rispose seccamente.

Allora, irritato di tanta calma, le domandai bruscamente:

«Perché l’avete bruciata?»

«Perché non vi riguardava.»

Perdei la testa: «È vero;» le dissi, «io non posso farvi dei regali di duemila lire!»

Ella si rizzò come se l’avessi morsa al cuore, pallida, con certe lagrime ardenti negli occhi, e mi disse con un accento che non dimenticherò giammai:

«Adesso siete più che ingiusto e più che cattivo!»

C’era tanta collera nel mio cuore che non ne fui scosso. Rimasi com’ero, appoggiato al caminetto, duro, pallido, fosco. Ella fece due o tre giri per la camera, asciugandosi dispettosamente le lagrime; poi venne a me all’improvviso; prese le mie mani, e mi fissò in volto i suoi occhi lagrimosi.

«M’avete fatto molto male!» mi disse. «M’avete detto quello che nessuno m’ha detto; mi avete rinfacciata la mia condizione come io sentivo di meritarmi, ma come nessuno osava dirmelo… Ora che volete che io faccia?»

«Scacciatemi.»

«Oh, no! ti amo troppo!»

«Tu vedi come ti amo, come son geloso, giacché ti faccio piangere, e non fai nulla per togliermi da quest’inferno!»

«Che cosa vuoi che io faccia? tutto quello che posso fare per provarti il mio amore non l’ho fatto? Tutto ciò che posso dissimularti per risparmiarti dei dispiaceri non te lo dissimulo? E tu me ne ringrazi con un aumento di sospetti ingiuriosi e d’insulti! La mia sincerità dovrebbe rassicurarti e t’irrita! Gli stessi fastidi che mi prendo per nasconderti quelle cose che possono ferire il tuo amore o il tuo orgoglio dovrebbero provarti che io ti amo tanto, sino a mentire per te!»

Io la guardai in viso coll’occhio freddo e scintillante di collera come una lama di acciaio, e le piantai in faccia queste parole, come una pistolettata a bruciapelo:

«Non vi credo!»

Ella si celò il viso tra le mani, e si lasciò cadere sulla poltrona, come se quelle parole le avessero schiantato il cuore. Poscia levò verso di me il viso tutto bagnato di lagrime, e i singhiozzi le soffocavano la parola: «Perché?» balbettava «perché?»

«Perché ti ho visto fingere allo stesso modo sul palcoscenico; perché il tuo volto è una maschera; perché dubiterò sempre che tu mentisca; giacché la tua arte è una menzogna!» gridai fuori di me, sputandole in faccia tutta la mia rabbia, tutta la mia gelosia e tutto il mio amore.

Mi attendevo un’esplosione di collera. – Ella si alzò, pallidissima, si tenne ritta in faccia a me, piangendo silenziosamente e cogli occhi come attoniti per tanto dolore. Le labbra le tremarono due o tre volte prima di poter parlare.

«Non mi credi!» balbettò. «E che dovrei fare perché tu mi creda? Dillo.»

«Dovresti abbandonare il teatro.»

«Oh!»

«Dovresti romperla con tutto il mondo.»

«Oh!»

«Dovresti venire a vivere con me.»

«Oh, no! non lo farò mai, perché ti amo!» mi rispose con uno scoppio di pianto.

«Ah! è una ragione singolare!»

«Si! Tu pel primo te ne pentiresti, tu!… No! no! no!»

Allora, due o tre volte, feci per precipitarmi su di lei, e strangolarla; le gettai in faccia un sorriso che valeva uno schiaffo, e scappai via. Quando la notte tornai a casa, con tutte le smanie, tutte le frenesie, tutte le più pazze risoluzioni in cuore, trovai Eva, sulla soglia della porta, che mi aspettava.

«L’hai voluto:» mi disse semplicemente, «ecco che t’ho obbedito.»

Credetti di esser felice. Ella mi apparteneva intieramente; non aveva che me. Mi pareva di avere avvinto più solidamente la sua esistenza alla mia, rompendo tutti i legami che l’attaccavano al mondo esteriore. Io più non sarei stato geloso di tutta Firenze, e avrei potuto uccidere come un cane colui che avesse osato stendere la mano verso la mia felicità.

Mille volte avevo fatto quel sogno senza sperare di realizzarlo giammai, e l’avevo abbellito con seducenti particolari. L’idea sola di avere Eva accanto a me, ad ogni ora della mia vita, sotto il mio medesimo tetto, mi avea creato altre volte delle estasi di paradiso. Avevo sognato le ridenti follie di una eterna luna di miele, le passeggiate in campagna, la fiamma del caminetto, la lucerna della sera, i giuochi infantili, e i dolci silenzi. Avevo pensato a tutte le parole più comuni che ella avrebbe potuto dirmi nelle più insignificanti congiunture. L’avevo vista come un raggio di sole in tutti gli angoli della mia camera.

Ahimè! il domani, allorché la vidi sotto le povere cortine del mio letto, allorché ebbe freddo e non ebbi altro da metterle sui piedi che il mio paletò, allorché accese il fuoco del mio camino e si tinse le mani – quelle candide manine – e tossì due o tre volte pel fumo, allorché dovette trascurare i suoi capelli per fare il caffè, provai un dolore nuovo e come una spaventosa sorpresa; mi parve che la fata fosse svanita, e non rimanesse più che una bella donnina – di quelle che piacciono – ma io avevo bisogno di adorarla!

Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per trascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni.

La realizzazione dei miei castelli in aria era diventata la sorgente di mille fastidi, di mille sorprese, ed anche di mille dolori. Ero costretto a starmi fuor di casa la maggior parte del tempo per non spoetarmi intieramente l’anima alla vista di lei che, con un’abnegazione senza pari, affaccendavasi nelle cure domestiche. Mi era parso che lo starle sempre vicino dovesse essere una felicità sovrumana, e quella felicità, vista da vicino, aveva particolari così volgari che mi facevano chiudere gli occhi e sanguinare il cuore. Delle notti intiere, col gomito sul guanciale, vedendola dormire accanto a me, bella, serena, quasi felice anche nel sonno – lei che mi aveva tutto sacrificato – domandavo a me stesso se ella soffocasse, come me, le medesime dolorose impressioni, oppure se non le provasse nemmeno perché mi amava di più, o in un altro modo, o se nella donna ci fosse, come un istinto provvidenziale, l’affetto del focolare domestico… oppure se la sua condizione, l’educazione ricevuta, i suoi sentimenti, la tenessero molto al di sotto della mia ombrosa e delicata suscettibilità… E finivo per darle torto – a lei! di non aver la delicatezza di risparmiarmi certi particolari volgarissimi che mi sembrava affrontasse con la più volgare disinvoltura…

Non cerco di spiegarti cotesto mostruoso mistero che chiamasi cuore. Non mi sono mai sognato di giustificarlo. Ti faccio osservare un fatto.

Cotesta disillusione, cotesta amarezza intima, m’invadeva tutto, la mente come il cuore. L’arte mi negava anch’essa le sue ispirazioni; era forse gelosa, o la vita mi assorbiva troppo per potermi sollevare sino ad essa. Però fu un altro gran dolore per me. Provare la febbre e l’impotenza di creare! L’hai tu provato? Ero stato delle ore intere dinanzi a quel cavalletto, accanto a quella donna che mi aveva riempita l’anima di tanta luce e di tanti colori, che adesso attaccava i bottoni ai miei vestiti, e mi rendeva ebete; e qualche volta mi ero strappato i capelli, qualche altra volta avevo pianto di rabbia, o avevo tirato giù linee o pennellate che il giorno dopo scancellavo. Ella mi guardava con sorpresa, mi stringeva le mani, mi diceva delle parole affettuose. Io le rispondevo sgarbatamente, infastidito, quasi iroso, e delle volte, trovandomi l’anima così vuota, piangevo tutt’altre lagrime.

Intanto i bisogni materiali della vita si facevano sentire più che mai. Quel pochissimo di cui potevo disporre era stato dissipato in un lampo; ero indebitato fin sopra ai capelli coll’oste, col padrone di casa, con tutti i miei amici, ed anche coi semplici conoscenti, poiché la necessità mi aveva reso sfacciato. Avevo momenti di preoccupazione tale che le carezze di Eva mi avrebbero fatto montare in collera. Non osavo più scrivere ai miei genitori perché avevo l’orgoglio del mio fallo, ed il mio amore sciagurato non era abbastanza potente per assorbire anche e soffocare il rimorso di strappare il pane di bocca alla mia famiglia onde prolungare la mia dolorosa follia. Ero troppo orgoglioso per far trapelare ad Eva la menoma mia preoccupazione; e allorché ella si mostrava più affettuosa, più sommessa, e cercava timidamente di prender parte alle mie angustie e di venirmi in aiuto, avevo per lei modi aspri e parole dure. Per vivere alla meglio avevo accettato una delle più umili occupazioni – dipingevo ad oleografia; il mio cervello si atrofizzava, ma si tirava innanzi.

L’inverno era ritornato, e rigidissimo. Io andavo al caffè tutte le sere a bere il ponce e a leggere il giornale, mentre Eva mi aspettava a casa. Mi occupavo delle quistioni internazionali e tenevo dietro al corso dei valori pubblici con interesse! Leggevo sino alla quarta pagina; poi facevo quattro chiacchiere coi vicini, e tornavo a casa sbadigliando. Una sera avevo trovato il ponce freddo; la politica volgevasi contraria al mio colore – poiché avevo già un colore politico! – il mio vicino era stato sgarbato; fioccava maledettamente, e tornando a casa avevo trovato il camino spento.

 

«Perdio!» dissi ad Eva aspramente; ella lavorava presso il lume. «Non vien certamente la voglia di tornare a casa.»

Essa levò su me i suoi occhi sempre dolci e sereni, e non rispose.

«Con una notte come questa farmi trovare una ghiacciaia!» ripresi. Vedevo che ella avea il viso livido, che tremava dal freddo sotto il suo scialle, e non pensai che in quella ghiacciaia ella avea dovuto pur starci tutto quel tempo in cui io avevo acconciato l’Europa a modo mio, seduto in un angolo ben riscaldato del caffè.

«Non è freddo» rispose.

«Perdio, s’è freddo, si gela.»

«Non c’è più legna», soggiunse timidamente.

«Non ce n’è più in Firenze?»

Ella chinò il capo sul lavoro e stette zitta.

«Non hai danari?» domandai.

Era la prima volta che quella parola mi veniva sulle labbra, e malgrado fossi tanto cambiato, mi fece una singolare impressione, come se avesse suonato altrimenti della mia intenzione.

«No», rispose Eva dolcemente.

«Come! non hai danari?» replicai, senza che la parola quella volta mi ripugnasse. «Hai fatto delle spese straordinarie?»

«No.»

«Ma non siamo che ai venti del mese.»

«È vero.»

Malgrado il mio abbrutimento un raggio di luce si fece nella mia mente, e mi parve che attraversasse la parte più sensibile del mio cuore come uno stile di acciaio.

«Vuol dire…» esclamai, sentendo che la voce mi tremava, «vuol dire che i danari che ti ho dato ciascun mese… non bastavano!»

«Che importa?» mi diss’ella sorridendomi con la stessa dolcezza.

«Ma allora… come hai fatto?…»

«Avevo del danaro.»

«Tu!!!» e mi nascosi il volto fra le mani.

Il mio orgoglio si contorceva dolorosamente, poiché il mio cuore non si commoveva più.

«Sì.»

«Tu non avevi nulla quando venisti.»

«Avevo quei pochi gioielli.»

«Li hai venduti?»

«Sì.»

«Ah!»

Ella venne a me dolcemente; mi rialzò il capo, e mi baciò in fronte.

«Non mi ami più?» disse.

«Perché?»

«Perché quello che io ho fatto ti dispiace.»

«No.»

«Ti fa arrossire.»

«Sì.»

«Non mi ami più! Io non mi son vergognata di quello che hai fatto per me.»

«È tutt’altra cosa; io sono un uomo.»

«È lo stesso quando si ama!»

Io le baciai le mani, e la guardai con occhi che avevano le migliori intenzioni di adorarla. Ella aveva una cuffietta assai modesta; alcune ciocche di biondi capelli le scappavano attraverso i nastri scoloriti; sul suo seno s’incrociava un leggiero scialletto; aveva le labbra pallide e le mani livide. Le prime parole che mi vennero in bocca furono:

«Ed ora come si fa?»

«Bisogna aver coraggio!»

«Oh, se potessimo contentarci delle belle parole!» le dissi aspramente.

«Mio Dio!» rispose ella timidamente, come per rabbonirmi, «non sono stata mai ricca, tu lo sai; quella bella casa e quei bei mobili non mi appartenevano, e, pur troppo, tutto il mio danaro lo spendevo malamente per vivere in un certo lusso; sicché quando gli ho voltato le spalle possedevo ben poco. Ho fatto tutto quello che ho potuto, e te l’ho nascosto per risparmiarti un dispiacere di più. Adesso non ho più nulla.»

«Io non vi ho chiesto nulla!» le dissi amaramente.

«Oh!»

«E se l’avessi saputo non vi avrei permesso di infliggermi questa umiliazione che adesso mi rinfacciate!»

«Oh!» ripeté Eva con un raddoppiamento di dolore.

Io non ebbi cuore per prendere le sue mani, con le quali si celava il viso, e asciugarle le lagrime che vedevo scorrerle fra le dita.

«Enrico!» mi disse ella dolcemente come nei nostri più bei giorni d’amore, «vedi come sei diventato? Vedi se m’ingannavo presagendo quel ch’è successo? Tu te ne sei pentito pel primo!»

L’abbassamento morale, direi, era così pronunziato in me che non pensai nemmeno di protestare per illuderla; e non pensai che quel mio lugubre silenzio doveva pesarle sul cuore come piombo fuso. Poi, quando me ne avvidi, dopo un lungo e mortale indugio, non trovai di meglio per consolarla che sciorinare un’imprecazione.

«Arte pitocca e bugiarda!» esclamai stendendo il pugno verso il cavalletto «che vai tronfia d’orgoglio e non dai pane da sfamare!»

Eva mi guardò sorpresa, quasi addolorata. Io le risposi quel ritornello che riepilogava tutte le mie abbiezioni: «Ed ora come si fa?»

Non rispose.

«Se tu tornassi al teatro?» le dissi con tutta naturalezza, compiacendomi, direi, della mia vigliaccheria.

«È impossibile;» rispose colla stessa calma rassegnata; «non è la sola abilità che forma l’artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari. Bisogna vivere in questo mondo per appartenervi. Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce. Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo.»

Allora soltanto mi balenò dinanzi agli occhi tutta l’estensione del sacrificio che ella avea fatto alle mie folli esigenze.

«E tu sapevi tutto questo?» le dissi.

«Sì» rispose tranquillamente «e sapevo anche che doveva arrivare questo giorno.»

«Ti giuro,» esclamai, «che ti renderò tutto quello che mi hai sacrificato, o mi ucciderò!»

Ella mi guardò in modo singolare con quei suoi occhi mesti e dolci, e mi disse quasi con un soffio di voce:

«Io non me ne sono mai lagnata, e tu non mi avevi mai promesso di ucciderti.»

Passai la notte in magnanime risoluzioni, e appena fu giorno cominciai a darmi le mani attorno per cercare altre occupazioni che mi fruttassero qualcosa. Ma le magnanime risoluzioni non riuscirono che a procurarmi un modesto impiego, presso un fotografo. Di meglio in meglio, dalle nebulose altezze della grande arte io ero arrivato a stendere i colori dietro le fotominiature che si vendevano a dodici lire l’una. E neanche questo bastava. Io ero inquieto, irascibile, dispettoso. Ella trascurava il suo vestire, era triste, e qualche volta stizzosa; aveva certi suoni di voce aspri, certi sorrisi che non la rendevano bella. Io credevo coscienziosamente di farle dei veri sacrifici andando a casa la sera invece di andare al caffè, e fumando la pipa accanto a lei, leggendo il giornale, mentre ella lavorava. Ambedue senza dire una parola, sentendoci gravare quel silenzio sul petto come un peso enorme.

Dopo alcuni giorni osservai in lei un cambiamento che mi avrebbe sorpreso se il mio cuore fosse stato più all’erta. Ella cantava per la camera, sembrava allegra, aveva comperata una veste di seta e degli stivalini nuovi coi suoi risparmi – faceva già dei risparmi! – Aveva dei guanti e si abbigliava con cura! Quell’aria di festa si era stesa anche al mio focolare e sulla mia mensa – ed io ne godevo come un parassita!

Mi accadde due o tre volte di non trovarla in casa, e non le domandai dove fosse stata. Una sera trovai la chiave nella serratura. La camera era buia. La chiamai e non rispose. Accesi il lume e vidi la camera vuota; sul camino, appoggiata allo specchio, e messa con cura in evidenza, c’era una lettera aperta; era per me – ecco che cosa lessi:

« Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno – e siamo pari. Te l’avevo predetto! Tu mi hai visto attizzare il fuoco, e far la calza; io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo; ecco perché non ci amiamo più. Le asprezze, i diverbi, le amarezze, son degli accessori. Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo fare del bene anche a te. Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all’ospedale. Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera. Io ti voglio sempre del bene, e te lo proverò, quando potrò. Eccoti 500 lire. «

Devo confessare che la prima impressione destatami da quella lettera fu di sollievo. Tutto quello che c’è di falso e di malsano in tali legami si scorge al sentimento inesplicabile di soddisfazione che si prova rompendoli, anche quando il romperli costi qualche lagrime. Poi, quando la tempesta è passata rimangono qualche volta nei bassi fondi limacciosi le serpi che si sono avviticchiate più strettamente al cuore, e che hanno più tenace vitalità: – il dispetto, l’amor proprio ferito, la vanità schiaffeggiata. Trovandomi solo in quella camera ove m’aveva aspettato tante volte, non pensai ad altro che al modo con cui ella l’aveva abbandonata; e quando mi avvicinai a quei guanciali che conservavano ancora l’impressione del suo capo non pensai a quell’altro letto dove ella forse dormiva, se non perché non era il mio. Non pensai a quei baci che più non desideravo se non perché un altro li aveva.

E al nuovo giorno il raggio di sole che veniva dalla finestra era così allegro, diceva tante belle cose della giovinezza, dell’arte, dell’avvenire, della mia famiglia, cui non avevo rivolto il pensiero prima senza una spina nel cuore, che mi trovai con sorpresa l’animo in festa: esso non voleva rammaricarsi ad ogni costo dell’abbandono di Eva.

Scrissi ai miei genitori, fumai la mia pipa, riordinai tutti i miei utensili da dipingere, come se non dovessi che ritornare all’arte perché l’arte mi sorridesse, e non pensai ad Eva che pel dispetto di aver trovato fra la cenere del caminetto una busta mezzo arsa, ove l’indirizzo di lei era scritto con quello stesso carattere elegante della lettera che accompagnava il braccialetto del conte Silvani – e per quel biglietto di cinquecento lire che, tutto sdegnato, misi nel portafogli, col fermo proposito di buttarglielo in volto quando l’avessi vista.

Ahimè! io non la rividi! non le buttai nulla in viso! Il vuoto che si era fatto nel mio cuore, a furia di vivere soltanto per esso, mi avea prostrato intieramente, e aveva isterilito il mio ingegno. Tutte le orride lingue della miseria del cuore, dell’intelletto e della borsa, lambivano la mia esistenza. L’avvilimento mi snervava, e logorava la mia vita nell’ozio, sulle panche di un bigliardo o di un caffè. I debiti, l’inerzia, e la miseria mi affogavano; tutta l’attività del mio spirito non aveva altra mira che di farmi acconciare alla meglio in quel fango – ed io mangiai tranquillamente il biglietto di cinquecento lire.

Poi anche questo finì.

E allora incominciai un’altra lotta più bassa, più accanita, più dolorosa, la lotta degli espedienti, delle transazioni d’amor proprio, delle viltà, contro un desinare. Dopo aver venduto tutto quello che era vendibile, le tele, i disegni, le scatole, i colori, gli abiti, le scarpe, tutto, mi trovai senza pane, quasi senza vesti, alloggiato come in ostaggio del mio debito, con cinque lire in tasca, e certe allucinazioni come quelle che si devono provare al momento di smarrire la ragione.

Mi venne in mente di giocare. Mi ricordai di tutte quelle storielle e di tutti quei bei romanzi ove si parla di guadagni enormi fatti con un nulla, e mi parve d’esser ricco possedendo cinque lire e quella bella idea. Salii senza esitare le scale di una casa ove gli artisti e gli studenti poveri andavano a disputarsi l’un l’altro il pane quotidiano; arrischiai una lira, poi l’altra, poi l’altra, poi l’ultima. Vedevo delle fiamme abbaglianti passarmi dinanzi agli occhi, e provavo degli improvvisi sbalordimenti. Mi parve che si facesse un gran vuoto nel mio cuore e ne sentii tutta la penosa sensazione, nel momento in cui si voltava la carta che doveva decidere dell’ultima mia lira. Tu non sai quel che voglia dire l’ultima lira; vuol dire il pane dell’indomani, e si ha lo stomaco vuoto! e i fantasmi dei tuoi bisogni ti attraversano in un lampo lo spirito!… Poi sentii una gran calma improvvisa, come una specie di benessere, una terribile lucidità d’idee. Avevo perduto. Almeno non avevo più nulla!

Scesi le scale con passo fermo. Avevo la vista chiara e la mente tranquilla. Passeggiai per le vie più frequentate; lessi gli annunzi degli spettacoli; passai dinanzi alle vetrine di parecchi caffè provando una strana soddisfazione a veder la gente che vi era; andai pel Lungarno alla Pescaia, e stetti una mezz’ora a guardare i bizzarri riflessi del gas sulle acque del fiume, senza pensare un istante che sarebbe stato anche più bello trovarvisi in mezzo. Poi, quando suonò la mezzanotte, mi trovai come per abitudine nella mia strada. Avevo freddo, e mi ricordai che non avevo meglio da fare che andare a letto.

 

Il giorno dopo pensai che era naturalissimo di andare a chiedere qualche cosa in prestito al solo amico che non mi voltasse ancora le spalle, come tutti gli altri, Giorgio, e mi meravigliai come quell’idea non mi fosse venuta prima. Quell’idea non mi fruttò che una lunga corsa, ed io non ero molto in forze. Giorgio non era in Firenze. Domandai quando sarebbe ritornato; mi risposero, fra dieci o quindici giorni. – Dieci o quindici giorni!

Quella risposta mi lasciò come istupidito; tornai indietro colle mani nelle tasche, e zufolando un’arietta fra i denti.

Mi venne in mente di fumare. Cercai in tutte le mie tasche, e non vi trovai che uno scatolino di fiammiferi; era pieno. «Se potessi cambiarlo con un sigaro!…» pensai, «o con un pezzo di pane!»

E credo anche che scappai a ridere!

Avevo una preoccupazione insistente; quella di ammazzare il tempo, come se aspettassi qualche avvenimento e l’indugio mi pesasse. Pensai di trastullarmi colle mie fantasticherie, giacché non avevo più fiducia nell’ispirazione, e di andare alle Cascine per cercarvi la solitudine. Ahimè! la mia mente era vuota, come il mio cuore, come il mio stomaco. Andavo baloccandomi come un imbecille pei viali, ora guardando correre le nuvole più basse e brune su di un cielo di piombo, attraverso gli incrociamenti dei rami nudi, ora tenendo dietro con grande curiosità ai passeri che correvano sull’erba riarsa dal gelo in cerca di cibo – anch’essi avevano fame. Tutt’a un tratto udii uno scalpito accelerato e un grido «guarda!» e mi gettai sul ciglione, tutto sossopra, come se ne valesse la pena! E vidi passare come frecce due cavalieri, anzi un cavaliere e un’amazzone. L’amazzone era lei, Eva! – la riconobbi al riso, rideva allegramente, e alla persona: ma non la vidi in faccia; era rivolta verso il suo compagno, gli parlava e non mi vide – credo almeno che non mi abbia visto. Il suo cavallo era coperto di sudore, aveva le narici rosse e mandava nugoli di fumo. Ella era leggermente inclinata sulla sella; acconsentiva la mano alle redini e tutta la persona ai bruschi movimenti del cavallo, con grazia ardita e sicura. Si udivano stridere il cuoio e le cinghie della sella; il velo le svolazzava dietro coi biondi capelli, e la lunga veste ondeggiava come un prolungamento della sua persona. Il giovane che l’accompagnava aveva la sigaretta fra le labbra, il brio spensierato, e nel sorriso, nel gesto, nel guanto, aveva come l’insolenza di tutte le ricchezze, della gioventù, della salute, dell’avvenenza, della condizione e del danaro. Non so se Eva mi vide; so che vedendola così bella e accanto a quel bel giovane mi parve tutt’altra donna; mi parve che non avrei giammai osato di stringerle la punta di un dito. Più non sentivo il menomo desiderio di lei. C’era come un abisso fra di noi. Ella era così lontana, così in alto, che non provavo né desiderio, né memorie – o erano di tutt’altro genere. – Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire, non l’avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà… quando ella avesse svoltato l’angolo del viale!…

Verso le sei mi trovai senza avvedermene dinanzi all’osteria dove solevo desinare. Mi sentivo stanco, e mi rammentai che non avevo mangiato dal giorno innanzi.

Allora provai una paura improvvisa, rapida come un lampo.

«Dio mio!» balbettai, «se lo sapesse mia madre!»

Mi aggirai tutta la sera per le vie come un fantasma, senza direzione, senza sapere che fare, guardando stupidamente tutti quelli che incontravo, non per altro che per cercar d’indovinare se avessero desinato.

Il freddo mi arrecava le convulsioni; avevo le vertigini; la mia camera era gelata, e le coltri della padrona erano povere come il mio vestito. Tutta la notte non potei chiuder occhio: provavo degli stiramenti convulsivi di stomaco, delle nausee che mi facevano assai soffrire.

Mi rammentai di Eva, di averla incontrata alle Cascine, e quel ricordo fu come di persona che avessi conosciuto molto tempo addietro. Nella mia mente c’era un penoso sonnambolismo che faceva correre incessantemente il mio pensiero stanco dietro certe larve senza forme precise, o dietro le memorie del passato. Mi ricordavo di tutti i particolari del mio amore per Eva, anzi una forza che non era nella mia volontà vi costringeva quasi ostinatamente il mio pensiero, e parevami che mi ricordassi di un fatto accaduto ad altra persona, o narratomi molto tempo addietro. Non mi sorprendevo nemmeno di non esserne geloso. Prima di tutto l’amore sta in un complesso di circostanze, e in me allora non c’erano che circostanze negative. L’avevo amata quando la mia immaginazione e il mio cuore sarebbero stati ricchi. Quanto alla gelosia, essa richiede, se non un grande amore, almeno una certa dose di amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico fra due rivali. – Io avevo fame!

Avevo anche preoccupazioni lugubri. Pensavo alle ore che mi rimanevano ancora di vita e alle sofferenze che dovevano accompagnare tal genere di morte, come per conciliarmi con quell’idea. Non osavo uscir di casa, non ne avrei avuto la forza, e sembravami che tutti dovessero leggermi in viso la fame. Avevo ancora dell’orgoglio!

L’aria era frizzante. Dalla finestra vedevo la gente andar lesta, certuni avevano la cera sorridente: molti una tranquilla spensieratezza; tutti erano certi di trovare a casa il desinare. Vedevo i camini che fumavano, e, attraverso i vetri delle finestre di faccia alla mia, donne affaccendate e fumo di vivande. Vedevo tutto ciò con una dolorosa lucidità di mente, e fermavo il mio pensiero in mezzo a tante domestiche felicità, che vedevo o che indovinavo, con una penosa voluttà; e domandavo a me stesso, con immenso sconforto, se fosse possibile che tutta quella gente felice potesse credere che a venti passi c’era un uomo che moriva di fame.

Verso sera le mie sofferenze si fecero insopportabili. Uscii come un pazzo. Mi trascinai dinanzi a tutti i caffè e a tutti i teatri, nascondendomi fra i monelli, cercando il buio, esitando lungamente. Poi, tutt’a un tratto, mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo. Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna bella, coperta di pellicce e sorridente; l’uomo con la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati. Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise. Egli la vide partire, col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; – gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono. Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: «Ho fame.»

Cotesta terribile verità doveva leggersi chiaramente sul mio volto, poiché quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire. Dovette accorgersi delle lagrime che avevo negli occhi febbrili; si fermò a guardarmi e mi disse:

«Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?»

Però non attese altra risposta da me – io non avevo alcuna da dargliene – e soggiunse:

«Se volete occuparvi venite a questo recapito domani alle undici.»

Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch’è più raro, la delicatezza del cuore. Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo, non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro. Egli mi aiutò in tutti i modi, col danaro, con le raccomandazioni, cogli incoraggiamenti, ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia. Mercè sua entrai in un’altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata. Povero giovane! aveva il cuore pieno e l’espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì – egli aveva creduto che fosse inesauribile. – La sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d’abiti e d’amiche intime. – Egli ebbe un duello, per una quistione di giuoco, con un capitano di cavalleria, e fu ucciso – il marito fece da secondo del capitano. – I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero che egli spingeva le cose sino al romanticismo, che aveva mancato di delicatezza e di saper vivere, che l’avea ricompensata di tutti i sacrifici ch’ella gli avea fatti pel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito. Egli pagò con la vita.