Za darmo

Eva

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

«Non ci ho colpa, vi giuro!» esclamò con voce supplichevole. «Speravo che a quest’ora fossero partiti!…»

Mi prese per mano, come un bambino, e mi fece salirle scale appresso a lei.

«Zitto!» mi sussurrò all’orecchio. «Non voglio che vi vedano; spegnete il gas.»

Io girai la chiavetta. Eravamo al buio, e sentivo il profumo del suo fazzoletto, il soffio del suo respiro. Essa cercò tastoni il campanello e suonò quasi timidamente. Venne ad aprire una leggiadra cameriera. Eva le disse all’orecchio qualche parola, mi spinse in un andito, e scomparve senza far rumore da un altro uscio a vetri.

La cameriera mi fece entrare in una stanza da letto, debolmente illuminata, e scomparve anche lei.

La camera era piccola e imbottita di seta bianca come un elegante scatolino. In un canto c’era un letto tutto velato di trine, con certe cortine diafane che sembravano i vapori di un sogno d’amore, e lasciavano trasparire certe coperte color di rosa, di cui la seta doveva carezzare l’epidermide, e nascondere nelle sue pieghe scrosci di risa soffocate, di palpiti virginei. C’era un profumo singolare in quella camera, un profumo di cosa viva, un profumo di donna e di donna amante. C’erano in tutti gli angoli quei piccoli oggetti che luccicano e che hanno forme e colori leggiadri. C’erano negli specchi come il riflesso di chiome bionde, come il lampo di occhi lucenti e di sorrisi giovanili; vi si riverberavano ombre leggiere, colori delicati; il moto dell’orologio era silenzioso; il tappeto era spesso, bianco e carezzava i piedi.

Nell’altra stanza si udivano voci di uomini, e di tanto in tanto delle risa allegre. Si udì anche per qualche istante il suono del pianoforte, e ad intervalli la voce di Eva, fresca, spensierata, giuliva. Poi si udì un rumore di tazze mosse.

Improvvisamente una luce più viva invase la camera ed entrò Eva.

Ella corse verso di me; mi afferrò improvvisamente il capo, senza dire una sola parola, e mi diede un bacio.

«Ecco il tuo thè!» mi disse.

E quand’io la baciavo, quand’io la soffocavo di carezze deliranti, ella metteva un piccolo grido: un grido pieno d’amore e di voluttà.

«Ahi! mi fate male!»

Si svincolò ridendo dalle mia braccia; mi guardò fisso, con quegli ardori negli occhi, stendendo le mani per tenermi discosto ed esclamò:

«Come sei bello! Come devi amare tu! Vieni!» soggiunse sottovoce, prendendomi per la mano. «Zitto! vieni qui, accanto a me!»

Lisciava i miei baffi, arruffava i miei capelli e li intrecciava coi suoi, mi prendeva la testa fra la mani per guardarmi a lungo negli occhi, e mormorava:

«Bambino! bambino mio bello!»

Ad un tratto si fece seria; mi affissò con certi occhi attoniti, e mi disse:

«Mi pare di amarti davvero, guarda!»

Saltò dalle mia ginocchia come un uccello, corse all’uscio e girò la chiave.

«Buona notte, signori!» disse, e volgendosi verso di me, con uno scroscio di riso infantile: «Se ci vedessero!»

Si udì uno scoppio di voci e di recriminazioni al di là dell’uscio.

«Ho sonno!» ripeté Eva, «Buona notte!»

«Che imbecilli!» soggiunse poi «si credono in diritto di annoiarmi anche quando sono felice!»

Stette ad ascoltare, e ripigliò dopo alcuni istanti:

«Se ne vanno; finalmente! Verrai domani, non è vero?»

«Sì.»

«Alla stessa ora, mi aspetterai in teatro?»

«Sì.»

«Anzi, fai così: m’aspetterai in fiacre, in piazza Santa Maria Nuova. Verrò a trovarti io stessa. Prendi il fiacre numero nove; è la data del giorno in cui mi hai conosciuta. Ora che farai?»

«Come vuoi ch’io te lo dica se non lo so… se non ho più la testa, se ho la febbre!…»

Ella aveva i capelli sciolti, e me ne sferzava il viso con certi movimenti felini. «Ebbene,» mi disse, «se hai la febbre vai a casa.»

«No, starò a vederti dormire.»

«Eh?!»

«Starò a guardare le tue finestre dalla via, e ti vedrò dormire.»

Ella sorrise in modo inesprimibile, e mi avventò un bacio come un morso.

«Birbone!»

Scostò colle sue mani i capelli dalla mia fronte; mi guardò con certi lampi abbaglianti negli occhi – mi guardò a lungo così, tenendomi la fronte fra le mani – e poscia, come rispondendo a se stessa:

«Vattene!» mi disse «vattene!» E non mi lasciava, e sporgeva verso le mie le sue labbra sitibonde, e chiudeva gli occhi.

Mi richiamò di nuovo, quand’ero sulla soglia dell’uscio. «Dammi qualche cosa di tuo» mi disse; «dammi il tuo fazzoletto.»

E poscia un’altra volta:

«Aspetta! Voglio che anche tu pensi a me.»

Si staccò dal seno uno spillo d’oro, e mi punse leggermente sulla mano.

«Bravo!» esclamò dandovi su un bacio. «Ora vattene. Addio!»

Attraversai l’andito al buio, e andavo tastando tutte le serrature dell’uscio, senza trovar modo di aprirle.

Al di là dell’altro uscio udivo un fruscio di vesti e di passi, come se Eva andasse e venisse per la camera. Questa situazione si prolungava e cominciava a farsi imbarazzante. Non potevo tornare indietro, e non potevo chiamare la cameriera. Tutt’a un tratto udii uno scoppio di risa fresco, gaio, argentino – uno scoppio di risa che mi chiamava per nome, e comprendeva tutte le mie follie. Mi trovai, non so come, sull’uscio della sua camera; sollevai la portiera, e vidi quella leggiadra testolina che si affacciava fra le cortine del letto incorniciata dai biondi capelli e dai candidi merletti – saettandomi il delirio del suo sorriso, le ebbrezze dei suoi sguardi, e il fascino del suo silenzio.

Io non saprei dirti quanto durasse cotesto sogno febbrile, e quello ch’io vi provassi. Avevo in seno tutte le gioie, tutti gli entusiasmi, tutte le frenesie… e mi soffocavano. Sembravami che il cuore mi si dilatasse talmente, per tanta piena di affetti, che il mio petto non bastasse a contenerlo. Provavo nello stesso tempo tal fastidio di me, tal rimorso, come un dolore pungente. Sentivo che ero tremendamente felice. Passavo i giorni sognando ad occhi aperti, alla finestra, o presso il camino, o gironzolando per le vie – senza vedere, senza udire, senza pensare – e la notte divoravo avidamente tutte le ebbrezze. Partivo da lei all’alba, di nascosto, come un ladro che ha rubato il paradiso.

Provavo sgomenti inesplicabili; di tratto in tratto il cuore mi palpitava di gioie improvvise, acri e dolorose; sentivo arcane e infinite ispirazioni artistiche che non avrei neppure tentato di esprimere, e impotenze desolanti.

Ella mi amava veramente. Quell’amore sarà stato un capriccio, ma in quel momento era sincero. Le arrecavo paura e diletto. Delle volte mi guardava timidamente, e all’improvviso mi saltava al collo, ebbra anch’essa d’amore. Aveva certe strane curiosità di sapere come fosse fatto il mio cuore che l’amava in tal modo. Mi chiudeva gli occhi con le mani, metteva la sua bocca nella mia per sentire come fosse caldo il mio alito, ed appoggiava l’orecchio sul mio cuore per udire come battesse. Mi voltava e rivoltava in tutti i sensi, scomponeva i miei capelli, e quando l’affissavo a lungo negli occhi, li chiudeva con un piccolo grido di paura.

«Se avessi saputo di doverti amare così» mi diceva, «non ti avrei più cercato. Mi fai male!»

Delle volte voleva che le suonassi al pianoforte la musica dei suoi balli, ed ella mi appariva improvvisamente dinanzi nel suo leggiadro costume, e spiegava intorno a me tutte le seduzioni – per me! per me solo! – il sorriso inebbriante, gli sguardi pieni di promesse, i capelli disciolti, il seno palpitante… E tutte le volte finiva saltandomi sulle ginocchia, e annegandomi in un’onda di velo.

«Come ti amo!» mi diceva. «Come ti amo!»

Un giorno mi disse, quasi paurosa:

«Come farò a non amarti più?»

E un’altra volta:

«Sai ch’è più di un mese che ti amo così!»

Erano esclamazioni di una commovente ingenuità, ma mi arrecavano aspri dolori.

«Non mi amerai sempre così?» le dissi.

«Oh, sempre!» mormorò con mestizia. «Neanche tu m’amerai sempre così!»

In cotesto delirio, che si prolungava tanto, capirai che il mio tenore di vita era molto cambiato. Non lavoravo più, non ricevevo più nessuno, non scrivevo più nemmeno alla mia famiglia, tranne delle brevissime lettere, ad uso telegramma, e tutte le volte per chiedere denaro.

Non puoi immaginare come una tal passione sia divorante per uno che si trovi nella mia disgraziata condizione, e come divori specialmente il denaro, ch’è la cosa più preziosa. Io non spendevo un soldo per Eva, nemmeno per regalarle un mazzolino di viole, ma provavo mille nuovi bisogni: avevo comperato degli abiti nuovi, avevo bisogno di essere elegante, di lavarmi le mani con acqua di Colonia, di essere ben alloggiato, di desinare da Doney, di portar dei guanti – e tutti questi nonnulla sono enormemente dispendiosi per un pensionato del Comune a centocinquanta lire.

Ohimè! Vorrei credere che fossi pazzo, perché fui assai vigliacco, perché fui infame. Io divenni esigente sino all’impossibile verso la mia povera famiglia – fino a strapparle il necessario per comprarmi delle cravatte. – Non scrivevo altro che per chiedere denaro, e mentivo anche l’affezione! Oh, mia povera mamma! Oh, padre mio!… e non arrossivo allorché vedevo giungere quel denaro che costava tanti stenti ai miei genitori! No! Non arrossivo! – E allorché le mie richieste si fecero più frequenti, più insistenti, vidi le lagrime di mia madre, lo sconforto di mio padre per non potermi mandare più nulla – e non provai altro dolore che la paura di rimanere senza quattrini – e non esitai, no! ad abusare dell’inesauribile affetto paterno fingendomi ammalato, e scrivendo di aver bisogno di denaro a ogni costo – e non pensai al dolore immenso, alle ansie morali dei miei genitori che per specularci sopra… Ah! cos’ero divenuto, mio Dio!… dove avevo la testa? che se n’era fatto del mio cuore?

Non pensai neanche a morire; non pensai a buttarmi in Arno – avevo bisogno di vivere.

 

La risposta non si fece attendere. Ricevetti un vaglia di centoventicinque lire e una lettera che mi avrebbe lacerato il cuore se non l’avessi avuto di pietra. Mia madre ci aveva aggiunto i suoi scarabocchi e li aveva inzuppati di lagrime; mio padre mi scongiurava di vendere tutto quello che possedevo, se quei denari non mi fossero bastati per fare il viaggio, e di ritornarmene a casa, giacché non poteva mandarmi più nulla.

Riscossi il vaglia e lacerai la lettera.

Ero malato, non è vero? Avevo un’orribile malattia di cervello o di cuore! Ero pazzo! Non ero io!

Alcune volte, quando aspettavo Eva delle ore intere nella sua camera, mentre ella riceveva i suoi numerosi amici, mentre la sentivo ridere e folleggiare nel suo salotto, provavo delle collere sorde ma selvagge contro di lei. Allora tutte le amarezze che quell’amore mi costava mi sfilavano davanti agli occhi. Ero geloso, e mi vedevo ridicolo, nascosto dietro il suo uscio a divorare in silenzio la mia gelosia. – Alcune volte sembravami che tutta quella gran gelosia non si riducesse ad altro che ad una febbrile impazienza di stringermi Eva tra le braccia. Poi ella compariva, sorridente, inebbriante – la luce si faceva e mi abbagliava.

Ella trovava cento pretesti per venire a stare con me due o tre volte durante quelle visite, e in quei due minuti in cui ella mi saltava sulle ginocchia aveva tali carezze, tali baci, tali parole da farmi impazzire. Sembrava che gli ostacoli irritassero il suo amore e gli dessero mille nuove attrattive. Noi ci dicevamo delle cose futili, sciocche, senza significato, sottovoce, tremanti, estatici. – Poi ella mi lasciava con un bacio e scappava via.

Una volta mi trovò che ridevo.

«Che hai che ridi così?» mi domandò.

«Penso alla bella figura che ci fanno quei tuoi amici di là, mentre tu sei qui con me…»

«Oh, mio Dio!… ma ne ridi in un certo modo!…»

Un altro giorno le dissi:

«Senti Eva, delle volte mi assale la tentazione di entrare all’improvviso in quel salotto, e schiaffeggiare tutti quei bei signori.»

«Sei matto?…»

«Lo so anch’io. È una pazzia; ma ci avrei gusto, ecco!»

Una sera ebbi la tentazione di origliare dietro l’uscio e di guardare dal buco della serratura. Lo feci con un gran battito di cuore – non di vergogna, ma di paura.

Quand’ella venne da me, mi trovò così pallido e corrucciato che mi domandò dolcemente che cosa avessi. Io le dissi con amaro sorriso:

«Che persone sono quelle, Eva?»

«Oh, della migliore società.»

«Infatti sembrava che si tenessero molto al di sopra di voi. Vi fumavano in faccia!»

«Hai visto?»

«Sì!» esclamai con un sogghigno dove cercai di mettere tutto il fiele che avevo in cuore.

Ella non mi rimproverò la mia indiscrezione.

«Hai fatto male» mi disse semplicemente facendosi triste.

«Ho avuto torto, lo so.»

«Non dico ciò per me, ma per te.»

«Oh, per me!»

«Non ridere così, Enrico! Ascoltami; se vuoi essere felice contentati di amarmi e di essere amato come io ti amo. Tu hai il cuore caldo e la mente esaltata. Certe curiosità a mio avviso ti farebbero male.»

«Ah! voi lo sapete!»

«Sì,» rispose tranquillamente, guardandomi con tutta franchezza. «Ma che vuoi farci? Tu sai che cosa sono: mi hai amato appunto per questo. Ora per essere quella che sono bisogna che io mi rassegni a siffatte visite, anche quando mi annoiano.»

«Soltanto questo?»

«Soltanto questo.»

«Oh! non basterà!»

«Basterà… perché ti amo!… Hai torto a lagnarti!»

Mi guardò a lungo negli occhi con tanto amore che avrei giurato fosse sincero; mi prese entrambe le mani, e mi disse con serietà – ella che non era mai seria:

«Ti amo ancora e voglio che tu mi ami. Mi prometti una cosa?»

«Di’.»

«Giurami che non starai ad origliare dietro quell’uscio.»

«Ah!» mormorai amaramente con un riso ch’era una contrazione dolorosa del cuore.

«Oh, mio Dio!» esclamò torcendosi le mani «Che timore potrei avere di essere spiata se volessi ingannarti?»

«Perché non volete dunque che io ascolti?»

«Perché… tu l’hai visto… Perché quelle familiarità insolenti che per me sono soltanto una mortificazione d’amor proprio, per te sarebbero morsi acuti di gelosia… Per risparmiarti dispiaceri…»

«Che m’importa se questi non mi vengono da voi!»

Ella lesse nei miei sguardi tutta l’amarezza che non c’era nelle mie parole, chinò gli occhi e mi disse solamente:

«Come siete ingiusto!»

C’era tal suono di verità nella sua voce, e così schietta e dignitosa franchezza nelle sue parole, nei suoi occhi, e nel suo gesto, che mi facevano soffrire orribilmente per tutte le sciagurate contraddizioni della vita.

«Sì, lo sento che sono ingiusto!» esclamai. «Ma soffro orribilmente! sono geloso, Eva! Son geloso di te, di tutti quelli che ti vedono in teatro perché tutti ti desiderano; son geloso di tutti quelli che ti parlano, perché ti parlano per averti…»

«Oh!» esclamò Eva con uno scoppio di risa schiette e gaie «se sapeste come dovrebbero invidiarvi quei signori di cui siete geloso!»

«Non importa; essi vi vogliono…»

«Oh, non tutti! Ci sono quelli che vengono per prendere il mio thè, gli altri per trovare gli amici, altri perché la mia casa è di moda, altri pur di far sapere che ci vengono.»

«Io vorrei che non foste obbligata a ricevere tutte quelle persone, Eva.»

«Sono tutti abbonati, giovanotti chic, di quelli che dispongono dell’esito di uno spettacolo, ed io appartengo al teatro.»

«Io intendo che la donna che mi ama appartenga a me anzitutto!»

«Allora non avresti dovuto innamorarti di una ballerina.»

«Oh, io mi innamorai della donna, perdio!»

Ella sorrise tristamente.

«La donna la vedesti un momento, nel dietro scena… e scappasti via.»

«Ma io vi amo così, come siete!»

«Lo sai tu come sono? Una donna non è che come vuol essere. Sai tu che cosa sarei senza la mia gonnellina corta e le mie scarpine di raso? Sarei una modesta operaia colle dita punzecchiate dall’ago, e con un vecchio ombrello sotto il braccio; una ragazza che potrebbe dirsi bellina se non avesse gli stivalini rotti e il cappellino di traverso – che andrebbe al mercato, farebbe la cucina, e se avesse fortuna sposerebbe un cuoco o un cocchiere. Ecco che cosa sarei, mio caro; invece ecco che cosa sono: faccio fare anticamera a tanti signori che sarebbero gelosi di te – e tu che non mi avresti neanche guardato se m’avessi vista andare attorno colle scarpe rotte, tu hai fatto delle pazzie per me. Oh! lo so bene ch’è assai meglio non esser costretti a far buon viso a quelli che ci sono uggiosi, e a soffrire delle galanterie insolenti. Ma che vuoi farci? Non son nata duchessa!»

Venne a sedermi sulle ginocchia; mi cinse il collo delle sue braccia, e mi baciò a più riprese.

«Andiamo, via! non piangere, bambino mio! amor mio! non piangere! mi fai male! Io ti amo davvero, sai! Non ho nulla da sperare da te, anzi potresti nuocermi, vedi che son sincera! Mi credi dunque che ti amo?»

«Se tu non mi amassi così io farei una cosa semplicissima, mi ucciderei.»

«Ah! no!» esclamò essa con quel riso da bambina, tenendosi appesa al mio collo colle mani intrecciate, e dondolandosi sulle mie ginocchia. «Non voglio che tu ti uccida perché sei il mio amore, il mio amore bello! il mio amore bello!» e nella voce aveva la dolce cantilena con cui si cullano i bambini.

Alcune sere quelle visite si prolungavano molto innanzi nella notte. Era un giuoco di scherma fra quei signori a chi dovesse rimaner padrone del campo. Una volta Eva entrò improvvisamente e come se fuggisse. Era rossa in viso, e avea le narici dilatate. Chiuse l’uscio a chiave, si gettò su di me con passione, e nascose il mio viso sul suo seno, baciandomi sui capelli, come per impedirmi di uscire, o per nascondermi qualche cosa.

«Che hai?» le chiesi svincolandomi dalle sue braccia, vedendola così turbata e colle lagrime agli occhi.

«Nulla!» rispose.

Io impallidii, e non osai domandarle altro.

Il giorno dopo ella mi vide così cambiato che mi domandò anche lei. «Che hai?» E stavolta fui io che risposi: «Nulla!»

Ella si fece pensierosa e parlò d’altro.

Passammo quella notte come le altre, soffocando le ciarle infantili sotto i guanciali e scambiandoci i sorrisi nelle dolci ombre dei cortinaggi; però sentivamo che fra noi due c’era qualche cosa che ci faceva morire il bacio sulle labbra ed il riso in cuore. Ella mi guardava con quei suoi grand’occhi spalancati, col gomito sul guanciale, il mento sulla mano, il braccio trasparente attraverso la nebbia dei merletti, e i capelli che gettavano onde dorate sui candidi lini. – Aveva degli accessi quasi tristi e paurosi di tenerezza; mi gettava al collo le braccia nude, e mi nascondeva in petto la sua bionda testolina. – Poi mi stava di nuovo a guardare fisso senza dir parola, colla testa affondata nella tela batista, ed il braccio disteso, mentre le sue piccole dita giocherellavano colla trina della coperta.

Una volta, mentre si parlava d’altro, esclamò: «Come son pazza ad amarti così!»

E più tardi, dopo uno scoppio di risa tanto allegre e matte che mi facevano un senso di pena:

«Come farò quando non mi amerai più?»

Poi, senza badare a quel che rispondessi, mi parlò della sua sarta, delle sue vesti, dei suoi cavalli, dei suoi fiori, del teatro, di musica, di balli, mi parlò della mia arte, di me, del mio paese – giammai ella non mi aveva parlato della mia famiglia; era una circostanza che incominciava a sorprendermi. Era delicatezza? era istinto di gelosia?

Allorché partivo, sull’alba, ella mi richiamò, mi attirò sui guanciali, allacciandosi tenacemente al mio collo, e mi domandò collo stesso tono della prima volta, come se fra la prima domanda e la seconda non ci fossero passate tutte quelle ore e quelle follie. «Che hai?»

«Nulla.»

«Oh, non partire così!» esclamò colle lagrime nella voce.

«Perché me lo domandi? Non mi ami? Non ti amo? Non siamo felici?»

Ella appoggiava la testa sul cuscino, rivolta dalla mia parte, e mi fissava senza parlare, coi suoi grandi occhi pieni di lagrime.

«Credimi,» soggiunsi, «la nostra curiosità è funesta. Io l’ho capito, e non ti ho domandato altro, quando l’altra sera mi hai risposto: nulla.»

Mi prese le mani e le baciò – le sentii umide di lagrime.

«Non mi ami più!» disse.

«Dio lo volesse!» esclamai con un’esplosione di tutte quelle angosce che mi rodevano da due giorni.

Ella si rizzò a sedere di botto, splendida di bellezza, sotto la fine batista, come una statua greca, e mi si buttò al collo, coprendomi di lagrime e di baci.

«Si, tu mi ami! tu mi ami!» singhiozzò «ed io pure ti amo come una pazza!»

Poscia, tenendosi allacciata a me come l’edera, nascondendo il suo capo nel mio seno, e parlandomi sottovoce, come vergognosa per quello che doveva dirmi:

«Non credi che ti amo?»

«Sì!»

«Temi che io possa ingannarti per un altro?»

«Oh, no!»

E chinando maggiormente la testa, e abbassando di più la voce, e abbracciandomi più strettamente:

«Perché quella domanda adunque?»

«Perché ti amo! Perché son geloso… in un altro modo.»

«Come?»

«Oh!… non lo so!… non te lo dirò mai!»

Tuttavia sembrò aver compreso, poiché allentò le braccia, non disse molto, e ricadde sul guanciale, nascondendovi il viso.

«Ascolta!» mi disse vivamente, afferrandomi per le mani, mentre era per partire. «Piuttosto che cessare di amarmi… quando lo vorrai… domandami quello che vuoi… Ti giuro che lo farò!»

«Non voglio che tu venga a teatro» mi avea detto altre volte.

«Perché?»

«Perché… perché… È una fanciullaggine, lo so… ma se ti sapessi là… in mezzo a quella folla… ciò mi farebbe pena.»

Io le fui grato di cotesta delicatezza, e promisi, e un giorno, la sera della sua beneficiata, con la logica così strana del cuore umano, le domandai di sciogliermi dalla mia promessa. Ella mi guardò sorpresa.

«Perché?»

«Voglio vederti.»

«Non mi vedi adesso?»

«No! vederti là… a quel modo!…»

«Mi vestirò qui per te.»

«Oh, è tutt’altro!…»

Ella sorrise e mi disse: «Orgoglioso!»

«Orgoglioso?»

«Si, vuoi godere del tuo trionfo, e dire: Quella donna che tutti desiderano mi appartiene!»

«È vero… sì!»

«Ebbene,» soggiunse semplicemente, «dillo pure giacché è la verità.»

La sua cameriera l’attendeva per pettinarla; prima di lasciarmi ella mi disse, come risovvenendosi:

«Però mi prometterai di non essere geloso!»

Ahimè! prevedeva forse che avrei dovuto esserlo?

 

Non l’avevo più vista sul palcoscenico, e quando la rividi mi parve tutt’altra! Io comprendo come si possano fare quelle cose che si dicono pazzie – e sono brani di cuore strappato da penose voluttà, brani di ragione torturati dal delirio – per coteste donne che hanno un pubblico per amante, che ci sbattono sul viso tutte le seduzioni, inchiodandoci ad una poltrona d’orchestra, e che ci abbruciano gli occhi col lampo della loro bellezza, costringendoci ad affissarle avidamente. – Cotesta voluttà che s’inebbria di suoni, che abbaglia di luce, che sollecita con acri profumi, che vi fa ondeggiare dei veli dinanzi alla curiosità spasmodica, che ha il sorriso sfacciato, e la nudità pudica, che idealizza tutte le vostre più sensuali passioni, è mostruosa del pari, con tutte le cecità, con tutte le frenesie – e lo spasimo di sguazzarci dentro, le mani, i piedi, il petto, i capelli, di abbeverarsene, di affogarvi la coscienza, il cuore, il sentimento della vita, ha le medesime estasi inenarrabili, i medesimi splendori, le stesse torture, le stesse infamie… Se si potesse vedere in cuore ad uno di quei felici mortali, su cui passa il turbine di una tal passione, e che va invidiato dalla moltitudine!…

Quella donna per cui gli applausi avevano fremiti di desiderio era mia, avea posato la testa sul mio guanciale; ma io non ci pensai che per essere geloso delle sue spalle nude, della trasparenza dei suoi veli, di quei cannocchiali che sembravano baciarla con lingue di fuoco, di quelle mani inguantate che mi sembrava accarezzassero le sue spalle.

Partii come un pazzo, assai prima che fosse terminato il ballo, ed andai ad attenderla in casa sua, arso di gelosia, di corruccio, di desiderio – spiegami tu questo contrasto. E allorché udii il suo passo leggiero per le scale, allorché me la vidi comparire dinanzi ancora ansante, allegra, ridente, colle guance rosse e gli occhi brillanti di giubilo, me le gettai al collo, stringendola freneticamente come se temessi di vedermela strappare dalle braccia. Ella credette che fosse l’entusiasmo destatomi dal suo trionfo!

«Oh! come son contenta che tu sia stato lì!» mi disse senza scorgere il male orribile che mi facevano quelle parole. «Fu un vero entusiasmo, non è vero? Vedi quanti fiori!»

E si pavoneggiava ingenuamente in mezzo agli enormi mazzi che il domestico aveva portato in sala. Io dovevo avere l’aria orribilmente stralunata; ma ella era così compresa della gioia del suo trionfo che non se ne avvide. Si aggirava intorno alla stanza con movimenti bruschi, vivi, quasi serpentini. Si mirava nello specchio, mi abbracciava e mi baciava, come baciava quei fiori, per sfogare la sua contentezza.

«Quanto sono felice, mio Dio!» esclamava, senza avvedersi che egoismo c’era nella sua felicità.

Suonarono il campanello. Eravamo nel salotto; ella mi prese per mano, e mi fece entrare nella sua camera. «Aspettami qui» mi disse.

«È inutile, giacché me ne vado.»

«Te ne vai! E perché?»

«Avrete molte visite… È la vostra festa…»

«È vero!» disse tutta giuliva.

«Vedete che mi rassegno anch’io…»

Ella mi guardò in volto con sorpresa.

«Fai il broncio alla mia contentezza? Uh, brutto!»

«No.»

«Davvero?»

«Davvero.»

«Domani dunque?»

«A domani.»

«Buona sera»

Io non risposi; ella non se ne accorse. Era impaziente, tutta commossa di gioia, si contentava facilmente della mia affermazione, e non mi leggeva nulla in cuore.

Partii con tal corruccio in cuore che mi sembrava di odiarla. Quando fui istrada piansi come un bambino. E il giorno appresso, dopo una notte di collera, di gelosia, e d’amore, appena furono le dieci corsi da lei.

Avevo bisogno di vederla, di vedere i suoi occhi chiusi, di vederla dormire, e di sognare ancora le dolci notti di abbandono e d’amore. Avevo bisogno di schiudere le sue cortine, e di vedere il sorriso incerto di quelle labbra vermiglie ancora tiepide del respiro notturno, e quegli occhi ancora socchiusi che cercavano i miei. Entrai nella sua camera in punta di piedi, ma trovai ch’era già alzata, e che leggeva una lettera accanto al caminetto.

Vedendomi entrare all’improvviso, si scosse bruscamente, come sorpresa, e fece un movimento istintivo e impercettibile quasi per nascondere la lettera che stava leggendo. Non fu che un lampo, ma bastò al mio occhio acutamente sospettoso. Si alzò, venne a gettarmi le braccia al collo, e mi disse con effusione:

«Ah! bravo! Mi hai fatto un gran bene!»

E gettò la lettera con tutta naturalezza sul marmo del caminetto.

«Perché?» io le dissi.

«Ieri sera mi lasciasti in tal modo! Vedi, ero così commossa che non mi avvidi che partivi in collera. Tu sei più buono di me… Ci ho pensato tutta la notte… Sei ancora in collera?»

«Oh, no!»

«Ma perché eri in collera? che ti avevo fatto?»

Io chinai la testa senza rispondere.

«Vedi», soggiunse, «se io avevo ragione di temere quello ch’è avvenuto! Ho più giudizio di te, io, o piuttosto t’amo di più.»

Mi prese per mano e mi fece sedere accanto al fuoco.

«Come sei pallido!» mi disse. «Non hai dormito stanotte?»

«No.»

«Caro! caro! caro!» esclamò con trasporto infantile baciandomi in fronte.

Indi con improvvisa e ingenua vivacità:

«Vedi, io t’amo per questo! T’amo perché mi ami così, perché sei matto, perché sei geloso, perché sei ingiusto e cattivo. Mi piaci così, ecco!»

In questo momento sorprese i miei occhi che involontariamente si fissavano sulla lettera, e credette forse che la mia curiosità fosse rivolta a un braccialetto ch’era anch’esso sul marmo del camino, accanto alla lettera.

«Ti piace quel braccialetto?» mi disse prendendolo in mano onde prevenire i sospetti che credeva scorgere in me.

«Non l’avevo visto.»

«Ah!» esclamò sconcertata.

Aprì e richiuse due o tre volte la busta di velluto, facendo scintillare i raggi delle gemme, e soggiunse per riprendere un certo contegno, o per disarmarmi colla franchezza:

«È un regalo per la mia beneficiata.»

«Oh!»

«È bello, non è vero?»

Io, che avevo la testa a tutt’altro, risposi: «Bellissimo.»

«È di gran valore.»

«Varrà per lo meno duecento lire.»

«Oh!» esclamò Eva, dimenticando a quella mia ingenua scappata tutte le sue preoccupazioni in una schietta risata. «Ne vale almeno duemila!»

Ebbene, francamente, io fui umiliato della mia ignoranza sul valore delle gemme.

«A che pensi?» ella domandò con una certa inquietudine.

«Penso che sono ben fortunati coloro che possono offrire regali di duemila lire.»

«Tu mi dai il tuo amore che vale assai di più!»

Io sorrisi amaramente.

Si parlò un po’ di tutto, ora seri, ora innamorati, ora quasi giulivi. Ad un tratto, le gettai fra i piedi questa domanda, che la fece trasalire, tanto era fatta bruscamente:

«Chi t’ha regalato quel gioiello?»

Ella rispose con la maggior franchezza. «Il conte Silvani. Saresti geloso di lui?» soggiunse vedendo che m’ero fatto serio.

«Oh, avrei torto!»

«E avresti torto davvero!» esclamò essa con tale accento dignitoso che mi umiliò.

«Oh, Eva, perdonami!» esclamai quasi fuori di me, «Io m’avvengo che sono ingiusto e cattivo! Faccio dispetto a me stesso!… Ma son geloso! orribilmente geloso!»

Per tutta risposta ella mi dette un bacio.

«Perché non hai rimandato quel braccialetto?» le domandai dolcemente.

Ella mi guardò con tanto d’occhi spalancati, come se stentasse a capire il significato delle mie parole.

«Come, rimandarlo? Ma vuol dire rifiutarlo!»

«Sì, rifiutarlo.»

Quel rifiuto sconcertava tutti i suoi principi sinceramente e francamente accettati da tanto tempo.

«Ma non si usa in teatro!» mi disse sorridendomi come si fa ad un bambino che ha detto una sciocchezza.

«Ah!» sogghignai. «Credevo che ci fosse della dignità anche fra le persone del teatro!»

«Ma, mio caro, è un altro genere di dignità. C’è l’uso di far dei regali agli artisti in occasione delle loro beneficiate, e ciò non ha nulla di umiliante pel loro amor proprio. Perché ridi?»

«Rido perché sono uno sciocco, un provincialetto, perché non so tutte coteste cose, e soprattutto perché non oserei mai offrire un regalo simile ad una signora per bene… senza temere di farmi rosso in viso, o di farmi gettar dalla finestra dai suoi domestici.»

«Ma un’artista non è una duchessa, mio caro! te l’ho già detto.»

E ci metteva tanto candore che avrebbe disarmato tutt’altro risentimento che non fosse stato il mio.

Andavo su e giù per la stanza, ed ella mi teneva dietro con gli occhi, tenera, amorosa, quasi timida – ella che era così orgogliosa! Io sentivo quello sguardo attaccato su di me, e sentivo che cercava il mio, che vinceva la mia collera, e m’irritava. Improvvisamente mi arrestai dinanzi al camino, soverchiato dal fascino mordente che quella lettera esercitava da un’ora su di me, e la presi in mano. Ella trasalì, ma non si mosse.