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ALLE CENERI DI CARLO ALBERTO

 
Non serva agli antichi, nè ai novi potenti,
Non serva alle plebi compresse o vincenti,
Straniera ai sorrisi, straniera al furor,
La musa romita col dio che la ispira,
Per l’aure funébri d’Italia s’aggira,
Piangendo la fede d’un tempo miglior.
Piangendo le indarno conserte bandiere,
I ponti varcati, le trombe guerriere,
L’armato tripudio di cento città,
Nei dì che una terra d’oppressi e traditi,
Scordate le veglie, le danze, i conviti,
Promise a sè stessa la sua libertà.
Sentir fu creduta la intíma di Dio:
«Cacciate l’estranio dal nido natío,
Stringetevi tutti nel brando d’un Re.
Palestra pugnata dai vecchi giganti,
Delubro custode del patto de’santi,
Più terra di schiavi l’Italia non è!»
Oh sogni svaniti! Sull’arca di Roma
Suonâr gli aquiloni. Recisa è la chioma
Al Forte di Giuda, che Pio si nomò.
Compulse dall’ira d’un volgo feroce,
Divise e tremanti la spada e la croce,
La stella dell’Alpi comparve… e passò.
Ahi mesto tumulto di fughe e d’esigli!
Ahi pianto di madri sul corpo de’ figli
Trafitti e calpesti da un volgo stranier,
Che vien preceduto dal suon della morte,
Che ai vinti ripiglia le torri e le porte,
Che ai deschi interrotti ritorna a seder!
E ai campi lombardi la messe non langue,
La messe che, tinta d’italico sangue,
Par anzi che abbondi sul misero suol,
Per far più giocondo l’avaro sorriso
Del vil che la multa, che studia nel viso
Dei servi multati la colpa del duol.
Or dunque di novo, sventura! sventura!
Salendo alle nozze, rimorso e paura
La donna nei chiusi suoi talami avrà,
Però che all’indizio del grembo amoroso,
Respinta la gioia d’un palpito ascoso,
«Concetto ho uno schiavo!» piangendo dirà.
Or dunque, deserta la casa e la vite
Dei mesti parenti, le assise aborrite
La prole lombarda dovrà rivestir,
Servendo una razza di furti pasciuta,
Che un giorno dai patrii castelli ha veduta,
Qual branco di belve, dispersa fuggir!…
Per numero, oh prodi stranieri esecrandi,
Che a Dio rincrescete, col dritto de’ brandi
Tenendo una terra che vostra non fu,
Qual fede, qual patto tra noi può legarsi?
Voi molti, noi pochi; voi stretti, noi sparsi,
Vegliamci pensosi… Ma patti mai più!
A noi la Fortuna due giorni sorrise.
Sleal meretrice per voi si decise.
Le tempia briache vi cinse d’allòr.
Nei vostri banchetti di giubilo e d’ira
Danzò, lascivendo. Poi stanca e delira
Dormì sulla notte del nostro dolor.
E ier dal triclinio, dov’ebra si giacque,
Volando alla spenta Regina dell’acque,
L’anel delle nozze divelto le avrà.
Vinceste, o felici. Ma stabile amica
Sperar v’è negato la donna impudica,
Che ad uno si giura, che a cento si dà.
Salite alle rôcche, spandetevi al piano,
Dal Garda all’Isonzo, dall’Adda al Verbano;
Nei dolci presidii tornate a regnar.
Ma, lungo i confini, nel cor delle ville,
Potrete poi sempre le fulve pupille,
Nell’ora del sonno, securi chinar?… —
Badate; un iroso nasconde ogni tetto.
Da ogni angolo arcano balena un moschetto.
Compressi gli sdegni, ma spenti non son.
La squilla lombarda v’ha messo una volta
Nel cor lo spavento. Nè tutta è sepolta
La stirpe, che ha desto quel lugubre suon.
Badate; nel petto dell’arso bifolco
Quell’aura di sangue, che esala dal solco,
Travasa una rabbia, che mai non provò.
Badate; il pastore le ciglia frementi
Girò dalla china sui patrii torrenti,
E anch’ei, nel conflitto, coi guardi pugnò.
Nel cor della gleba, nel vento remoto
Ricresce la forza d’un dio non ignoto;
Conclaman d’Italia le querce ed i fior:
«Il dritto e l’ingiuria tien campo distinto.
Fur tratte le spade. La razza del vinto
Divisa è in eterno dal suo vincitor!»
Apostata antica, sfregiando i fratelli,
Potrà qualche turpe progenie d’imbelli
Baciar la catena del novo servir.
Ma dietro quei terghi tapini e sommessi
S’asconde una cheta famiglia d’oppressi,
Terribili ammende parata a compir.
Sementa, se cade sovr’ispide lande,
La bruciano i soli. Se in pietra si spande,
Levata è repente dei turbini in sen.
Ma quando nell’urna de’ solchi s’induce,
Fermenta, si rompe, germoglia, produce,
Poi muscolo e sangue di forti divien.
Talvolta, seguendo suo tristo destino,
S’addorme, o di ciancie tormenta il vicino,
Fermata la stiva, l’incauto arator.
Ma quando s’accorge, sul far della notte,
Che furon sì scarse le zolle che ha rotte,
Pentito sull’alba raddoppia il sudor.
Per ospiti climi, per lustre selvagge,
Ci ha sparsi l’esiglio su tutte le spiagge,
Ci ha tolto la mensa, la casa, il poder.
Mal noti a noi stessi, di boria cresciuti,
Nell’ora del pianto ci siam conosciuti,
Purgato è dai sogni l’illuso pensier.
L’avara promessa di genti straniere
Non era che il patto del vile usuriere,
Che studia l’evento per meglio tradir.
L’evento ha chiarito l’iniqua parola.
La misera Italia dee vincer da sola,
O il capo nel manto celarsi, e morir.
Ma ardente è di fede, ricinto è d’acciari
L’altar, che è levato tra l’alpe e i due mari;
Lo attornian tre mesti, ma santi color.
Velata Iaele, si prostra, adorando,
La tacita Italia. Col pugno sul brando,
La guata pensoso l’estranio Signor.
Oh Prenci (lasciate che il ver vi si gridi),
Temuti o tementi, codardi o mal fidi,
Tornate a quest’ara. La fiaccola è qui.
Giurate nei sette segnacoli suoi.
Parlatevi ancora. L’Italia è con voi.
Del tristo dissidio la trista arrossì.
Distinse i suoi figli, pur tepidi e tardi,
Da’ suoi Saturnini feroci e codardi.
Le orrende sue piaghe nel duol numerò.
Non tutte le vide di stranio coltello
De’ suoi parricidi conobbe il drappello,
Che in pietra d’infamia locarla tentò.
Legatevi, o Prenci, con santo coraggio,
Facciamolo insieme quest’arduo vïaggio
D’affanno e di fede, di forza e d’amor.
Vel chiedon le culle dei bimbi innocenti,
Vel chiedon le tombe dei vecchi parenti,
Vel chiede, gemendo, l’Italia che muor!
Pentita ella spezza l’orrendo pugnale,
Che un giorno per l’aure del tuo Quirinale,
Signor dei credenti, vedesti guizzar.
Siam verghe di creta. Tu il dici. Tu il senti.
Rinasci e perdona, Signor dei credenti.
Conferma che a Cristo tu sai somigliar.
Vuoi salda, o Fernando, sul capo agli eredi
La doppia corona d’Arrigo e Manfredi?
Disarma due genti. Ritorna alla fè.
Corona è di polve corona spergiura.
Nel cor dei vulcani s’espande e matura
O l’odio, o l’affetto. La scelta è per te.
Se un tempo ti piacque la vita serena,
Tra i clivi dell’Arno, figliuol di Lorena,
Se rose perpetue t’han fatto origlier,
Sii forte. E la causa di quelle contrade
Rescindi dall’elsa di barbare spade,
Giudicii di pianto su te non voler!
Se un vostro vedeste Fratel coronato,
Dell’arme d’Italia coperto soldato,
Calar sui torrenti, per l’erte salir,
Cercar la battaglia con fiero diletto,
Spronar sotto i bronzi, sentirsi all’elmetto
Le palle omicide, fischiando, fuggir,
Poi, vista, l’austero, con spasimo atroce,
Domata due volte la bianca sua Croce,
Gittar la corona che vil gli sembrò,
Morir nell’esiglio col capo sul brando,
L’afflitto e supremo suo grido elevando,
Per questa infelice ch’ei vinta lasciò;
Se il martire, o Prenci, vedeste, all’aurora
Dell’alto suo corso, miratelo ancora
Fantasma ravvolto nei bruno suo vel.
Anch’ei fa ritorno sul margo natale.
Ma cinto la fronte di lume immortale,
Atleta incolpato d’Italia e del ciel,
Migrò dalla terra. Rimasegli addietro,
Di tanto suo fato reliquia, un ferétro.
Ma il regno dei morti non muto è così,
Che ALBERTO non gridi dà quelle riviere:
«Rileva, o Piemonte, le afflitte bandiere,
Non doma una gente la rotta d’un dì.
Intorno a’ tuoi fianchi, d’Italia s’aduna,
O Torre dell’Alpi, la nova fortuna.
Paratevi in pace pel certo avvenir.
La via dei dolori sereno ho discesa,
Legando a Vittorio la nobile impresa,
E un dolce trionfo mi parve il morir!»
Sentite, o gementi dal Sarca all’Oreto,
Sentite quest’aura del tempo segreto,
Che soffia il Davidde del novo Israel?…
Re, popoli, duci, leviti, guerrieri,
Posate gli scettri, chinate i cimieri,
Stendete le destre sull’augure Avel.
Conserti in un patto d’amor più tenace,
Foggiatevi l’arme nel dì della pace,
Un’alba affrettando che lunge non è,
Perché questa Italia, dal brando domata
Di cento signori, da sè vendicata,
S’assida una volta signora di sé:
Signora di messi, di codici, d’armi,
Di lingua, d’affetti, di fede, di carmi,
Gagliarda e prudente, severa e gentil.
E in fronte le sieda tal segno d’impero,
Che ognun che la scontri sul lido straniero
La inchini, sclamando: «Qual altra è simil?»
Or chiusa nell’ombre quest’Eva dolente
S’accusa e sospira, ricorda e si pente.
Ma brando e vessillo deposti non ha.
Nell’arduo Superga gli sguardi ella tiene.
Le suonan sui polsi le ferree catene.
Ma un lampo di fede nel viso le sta.
VITTORIO! VITTORIO! Tu, giovine Anteo,
Per questa dolente, nel fiero torneo,
La lancia suprema sei nato a spezzar.
Raccolta dal campo fatal di Novara
La mesta corona, dei morti sull’ara,
Di tanto suo lutto la dêi vendicar.
La croce Sabauda, che ornò sette troni,
Davanti alla furia de’ tuoi battaglioni,
Raggiando sull’arme l’antico fulgor,
Segnai di vittoria per gli occhi de’ forti,
Segnai d’allegrezza per l’ossa de’ morti,
Verrà, benedetta, sull’Adige ancor.
Oh Prence! T’è noto quel cielo e quel corso.
Non tôrre al cavallo nè cella nè morso.
Ei dee di nitriti quell’aure ferir,
Volar nella strage sovr’elmi e loriche,
Scaldar colle nari le terga nemiche,
Del Re che lo preme la gloria, gioir.
Oh! insigne quel giorno, che tersi i sudori
Dell’ultima pugna, fra’ tuoi vincitori,
Curvati i ginocchi d’un feretro al piè,
Serbando di prode l’altero contegno,
Dirai colla gioia d’un vinto disegno:
«Francata è l’Italia, mio padre e mio re!»
 

LA PASSEGGIATA

 
Lungo i platani, in cui vive
Ogni fronda innamorata,
Sotto l’aure fuggitive
Della sera e del mattin,
Su una sponda infrequentata,
Fuor del volgo, che mi accora,
Col tramonto e coll’aurora
Fo soletto il mio cammin.
Miro i fior; la volta azzurra,
Guardo all’acque; ascolto il vento;
E dal labbro, che susurra
I fantasmi che ho nel cor,
Vo esalando un fumo lento,
Che coi vortici leggieri
Accompagna i miei pensieri
Di gaiezza o di dolor.
Fisso gli occhi ai colli adorni
Di verdura, e vo sclamando:
Dove siete, o rosei giorni
Della bella gioventù?
Che veniste carolando
Su’ miei prati in lieta danza,
Col coraggio e la speranza,
Colla fede e la virtù?
Fresche aurore, oh! chi vi ha spente
Quando sotto a’ miei balconi
Mi destava la fremente
Allegria dei cacciator,
E del corno agli acri suoni
Rispondea con varia legge
Il tumulto delle gregge
E la tibia dei pastor!
Oh! notturni allegri fochi
Del novembre, in mezzo ai solchi,
Dov’io stava, ed altri pochi
Fanciulletti ad ascoltar
Dal più vecchio dei bifolchi
Le prodezze e il vario marte,
Quando insiem con Bonaparte,
Scese l’Alpi e passò il mar!
Il mio nome, ignoto ai cupi
Tradimenti dei mortali,
Quante volte per le rupi
D’eco in eco udii morir;
Nè d’incensi nè di strali
Fu mai segno il fanciulletto,
Che con Dante e col moschetto,
Gìa le lepri a perseguir.
Era il meglio un nome occulto
Serbar sempre in mezzo ai monti,
Che recarlo nel tumulto
Delle querule città;
Dove siede in sulle fronti
Il timor, la noia oscura,
Dove langue la natura,
Dove muor la libertà.
Miglior senno arar le glebe,
O dar gli estri all’aura molle,
Che versarli ad una plebe
Scissa d’opre e di pensier,
Che, ululando al par del folle,
Gira il trivio e sempre sogna,
E pasciuta di menzogna,
Sfregia il bene, esiglia il ver.
Oh mia musa! oh mia compagna
Dell’età ridente e lieta!
Quando in cima alla montagna
I tuoi canti aprivi al ciel,
Tu credesti il tuo poeta
Cosa sacra infra le cose,
Cinto l’hai delle tue rose,
L’hai bendato del tuo vel.
Ahi fatale, ahi tristo inganno!
Sul destrier dei dolci incanti
Ei s’assise; e il negro affanno
Sul destrier gli cavalcò.
Sfumar vide i sogni amanti,
Come nebbie della valle,
E, spossato a mezzo il calle,
Di morir desiderò.
Deh! ciò avvenga. A questa guerra
Cupa, eterna, il cor mi cade.
Letto angusto in poca terra
Chiedo; e pace all’ombre in sen.
Sotto il vel delle rugiade
Dormirà la creta stanca,
E ai dolor del dì che manca
Sarà premio il dì che vien.
Vïator, che sotto al faggio
Pigliò sonno in tetra selva,
E al rosato e fresco raggio
Del mattin si risvegliò,
Più non teme abisso o belva,
Esce all’aure, al sol ridente,
Ed un sogno è della mente
Ogni rischio che passò.
Come pia sarà la mano
Che mi scavi il nido oscuro,
Fuor degli uomini, lontano
Da fastidio e vanità!
Fregi e simboli non curo
Sulla povera mia pietra,
Senza lauro e senza cetra
Tuttavia si dormirà.
Quando solo il dì reclina,
Quando è mesto il cielo e il core,
Sull’avel mi porti Erina
Il giacinto del suo crin;
Poi la rosa, allegro fiore,
Orni sempre i suoi capelli,
E, sommersa in dì più belli,
Pensi appena al mio destin.
Così ognor passeggio e canto,
E cantando il cor lusingo.
Ride il volgo. Ed io frattanto
Spiro vita a’ miei pensier;
Col mio carme io vo solingo,
Del mio carme il core ho lieto,
Alle lucciole il ripeto,
Come al gallo mattinier.
E, in mirar la volta azzurra,
E, in udire il vol del vento,
Fuor del labbro, che sussurra
I fantasmi che ho nel cor,
Vo esalando un fumo lento,
Che coi vortici leggieri
Accompagna i miei pensieri
Di gaiezza o di dolor.
 

A FERDINANDO BORBONE

 
Se mala signoria, che sempre accuora
Li popoli suggetti, non avesse
Mosso Palermo a gridar: Mora! Mora.
DANTE, Paradiso, C. VIII.
Mentre dell’ampia Napoli
Il pescator mendìco
Spesso le maglie inutili
Getta sul mar nemico,
E la nefanda Inopia
L’ali sue negre stende
Sulle selvagge tende
Del calabro pastor,
E l’abbruzzese ai pargoli
L’ira col pan divide,
E alla sicana vergine,
Pur quando danza o ride,
Balena una profetica
Stilla sul ciglio oscuro,
E regna ovunque il duro
Trionfo del Dolor,
Tu re nascevi all’alito
Dei cedri, al suon dei carmi;
Fur tue le vite, i codici,
L’oro, le messi e l’armi:
Tutto fu tuo. Dall’arbitra
Sorte locato in trono,
Per esser giusto e buono
Che ti mancava, o re?
E quando primo i liberi
Voti d’Italia udisti,
E sfolgoranti all’aere
I tre color fur visti,
Del lungo ceppo immemori
D’ebra letizia ardenti;
Dimmi, o signor, due genti
Non ti vedesti al piè?
Toccate allor le pagine
Dell’Uno e Trino Iddio,
Giuravi tu: «La folgore
Piombi sul capo mio,
Se quel ch’or dona ai popoli,
Questa mia man riprenda!
E al sacramento attenda
Custode il mondo e il ciel».
Or che hai tu fatto, o misero
Spergiurator? Sull’ugne
De’ tuoi corsier la polvere
Delle lombarde pugne
Veder tremasti; e al vindice
CARLO il tuo brando hai tolto,
Transfuga iniquo e stolto
Dall’arca d’Israel.
Tesi gli orecchi e pallido
Sulla regal cortina,
Stavi origliando il sonito
Dell’Itala ruina,
Come sparvier famelico
Odora il pasto umano,
Su cui dall’erta al piano
Cupido avventa il vol.
E quando il sol sui barbari
Elmi splendea giocondo,
E lacrimava al funebre
Altar d’Italia il mondo,
Ahi! tu, d’Italia principe,
Sulle codarde piume,
Tu congioisti al lume
Di quel nefando sol!
Va’; tenta Dio; poi chiedigli
Ch’ei ti difenda e t’ami,
Ei non placabil giudice
Di quelle gioie infami.
Guarda, se puoi, nell’impeto
Dell’insanir feroce,
Questa sabauda Croce
Senza spavento in cor!
Pensavi tu che il fremito
Dell’anime secure,
Sotto l’orrenda immagine
D’un palco e d’una scure
Cadria domato? Il libero
Per codardie non muta;
La libertà saluta,
Pugna, sorride e muor.
Là nelle turpi tenebre
De’ tuoi castelli, o cieco,
Ben tu insepolcri i martiri,
Ma il lor martirio è teco;
Però che là puoi vincere
Poche languenti salme,
Non i pensier, non l’alme,
Non Dio che insiem le unì.
Fisa le illustri vittime
Tu, men di lor tranquillo.
Dimmi, non senti i palpiti
Di Mario e di Cirillo
Sotto quei polsi, o despota,
Che tu di ferri hai cinto?…
Morto cadrà, non vinto,
Chi da quel sangue uscì.
Credevi tu che un’unica
Benedicente mano
Dell’atterrito Apostolo,
Che piange in Vaticano,
Sospenderia l’unanime
Giudicio della terra?
Ah! chi all’altar non erra,
Schiavo al tuo scettro, errò.
E i figli suoi, che il videro
Darti i fatali amplessi,
E all’oppressor sorridere,
Lui padre degli oppressi,
Tremâr per quei segnacoli
Di ch’ei si noma erede,
Tremâr per quella Fede
Che Dio gli consegnò.
Speravi tu nel cupido
Furor del moscovita,
Che verso noi le indomite
Crimée puledre incita,
Poi d’Oriente ai zefiri
Cauto le briglie gira,
Svegliar tremando l’ira
Dell’Occidente alfin?…
Forse lo attendi? A Dalila
Offri, o Sanson, la chioma.
Il boreal pontefice
Non è già quel di Roma.
Uno t’abbraccia e lacrima,
Grato all’ospizio offerto;
L’altro d’Arrigo il serto
Ti strapperia dal crin.
Va’, incresci a Dio: dell’Isola.
Che osò gridar: «FERNANDO
NON È PIÙ RE » ti vendica,
Or che hai la legge e il brando.
Ma sul terren di Procida
Sangue di Francia stilla,
E la tremenda squilla
Non ha perduto il suon.
Quando tra prence e suddito
Tratto è l’acciar, la Pace
Velasi e muor. Longanime
L’odio resiste e tace;
Tace, e nell’ombre edifica
Coll’ignea man presaga
Sulla terribil daga,
Che non udrà perdon.
Che speri or dunque? Un’opera
D’insania e di sgomento
È ogni tuo dì; la lugubre
Notte t’insegue; il vento
Parla e t’impreca; il gemino
Mondo t’acclama infido;
Sin l’innocenza un grido
Ha di terror per te.
Se i tuoi leali assiepano
Folti la regia stanza,
Dal fianco tuo si svincola
L’Onore e la Speranza;
E sin fra’ tuoi qualch’intimo
Gentil pudor si sdegna.
Dove Fernando regna,
Regno di Dio non v’è.
Me non lusinga il torbido
Rumor di plebi inette:
Mai co’ larvati Spartachi
La musa mia non stette:
Amo e cantai quel soglio,
Dov’è del prence a lato,
Con nodo immaculato,
La sacra libertà.
E non dal facil odio,
Come lo senton gl’imi,
Ma dai dolor che arrivano
Là dai sebezii climi,
E dalla man degli esuli
Che lacrimando strinsi,
Oggi quest’ira attinsi,
Che mi parea pietà!
A brun ti vesti, o povera
Napoli bella. Intanto
Io col fedel mio genio
Penso d’Italia il canto:
E per lenir gli spasimi
Del cupo affanno, ond’ardo,
Lascio vagar lo sguardo
Dietro un regal destrier,
Su cui la bella immagine
D’EMANUEL s’accampa,
E intorno a cui lo spirito
Di mille prodi avvampa:
Onde nel cor mi piovono
Rai d’una nova aurora,
E il Dio di Dante ancora,
Sento ne’ miei pensier.
 

ALLA LUNA

 
Chiusa in vel di puro argento,
Occhio e amor del firmamento,
Tu m’allegri, e m’impauri
Di tua gelida beltà.
Colle lingue e coi pugnali
Qua si sbranano i mortali,
E tu placida misuri
La celeste immensità.
Tu che varchi i mari aperti,
Tu che pendi sui deserti,
Tu che assisti a tanta guerra
Di superbia e di dolor;
Tu conosci il breve nulla,
Che ci attrista e ci trastulla,
E passeggi sulla terra
Senza sdegno e senza amor.
Ben cortese e non pudica
Ti sognò la fola antica,
E di Latmo i mirti ombrosi
Van parlando ancor di te,
Quando, languida sul petto
Dell’ardente giovinetto,
Gli recavi i gaudi ascosi
D’un amor che in ciel non è.
Ma tu strania al fallo bieco,
Tu ridesti il genio greco,
Nè dell’ira il cupo istinto
La vendetta t’insegnò;
E sull’urne di Platea,
E sui fior di Mantinea,
E sui marmi di Corinto
La tua luce ognor brillò.
Né già visiti quei segni
Di superbi e morti regni,
Per un senso, qual che fosse,
Di tristezza o di piacer.
Esser pia non ti bisogna,
Nè tal sei. Ma tal ti sogna
Nelle fervide e commosse
Sue fantasme il passeggier.
Fredda sì, ma pur divina,
La tua luce a noi s’inchina,
E d’un palpito si scote
Malinconico e immortal.
Chi nol sente ha sterilito
Il pensier dell’infinito;
Stranio verme a cose ignote,
Polve ed ombra in lui preval.
Quante tele e quanti carmi
Tu inspirasti, e bronzi e marmi,
Senza amor che a noi ti stringa,
Tu romita in grembo al ciel!
Di Simonide la lira
Al tuo lume ancor sospira,
Là in Termopili solinga
Tra le querce e il venticel.
Pia non sei, ma non sei cruda
Tu di sensi affatto ignuda;
Pur la vergine ti manda
La notturna sua canzon;
Parla a te del chiuso foco,
Di sospiri accende il loco.
Ma la gelida tua landa
Non contrista umano suon.
Meglio a te. Se errar non godi
Sulle antiche ossa de’ prodi,
Che fregiâr d’un mondo infranto
Col lor sangue i vani altar;
Se il tuo raggio inerte scorre
Sovra il Libano e il Taborre,
Dove i cedri al fiero canto
D’Isaia si conturbar;
Non udisti almen le grida
Del fuggiasco Fratricida,
Nè d’Abel l’estinto viso
I tuoi rai contaminò;
E a Getsemani movendo,
Ti fu ignoto il bacio orrendo,
Che degli Angeli il sorriso
In eterno addolorò.
Ahi! quel bacio e quella piaga
D’odio e sangue il mondo allaga;
E tu scherzi, o fortunata,
Co’ tuoi raggi in mezzo ai fior,
Come fossero innocenti
Delle colpe de’ viventi.
Ma la rosa anch’ella è nata
Rea coll’alba, e a vespro muor.
Così armonica e sincera
Tu sei là, nella tua sfera!
Sulle nozze, inconscia luna,
Sui feretri egual sei tu;
Là, da secoli, risplendi;
Nulla speri, a nulla attendi;
Muta al mondo, alla fortuna,
Al dolore e alla virtù.
Muta sempre e sempre bella,
Tu m’atterri, arcana stella.
Ecco; in faccia al mar che romba.,
Il Vesèvo urlando va;
Due città la lava inghiotte:
Tu ne illumini la notte,
E d’un popolo la tomba
Non ti veste di pietà.
Strana dea, che valse mai
Por su Erina i dolci rai,
Sotto i platani tranquilli,
Meco in grembo al gelsomin?
Schiava ad altri, a me rapita,
Ombra e pianto è la sua vita;
E serena ognor tu brilli
Tra quei fiori, e su quel crin.
Tutto muor d’umane tempre;
Tu sei bella e giovin sempre.
Dunque il duol dell’universo
Ti fu sempre ignoto duol?
No. Tu pur, superba dea,
Là nel ciel della Giudea
Scolorasti, il dì che asperso
D’atro sangue apparve il sol.
Quando Cristo sulle spalle
Tolse il legno, e ascese il calle
Dei tormenti, e il capo afflitto
Nella morte reclinò,
In quell’ora irati e folti
Si rizzarono i sepolti,
E dei vivi il gran delitto
Di terror ti circondò.
Forse è ver. Da quel momento
Ti fu dato il sentimento.
E tu in ciel pensosa udisti
D’ogni Solima il sospir.
Forse è vero. Il cor temprando
Al tuo raggio arcano e blando,
Si può vivere men tristi,
Meno rei si può morir.
Cara luna, allor ch’io veggio
Far le stelle a te corteggio,
E il tuo passo in alto preme
I sentieri del Signor;
Teco parlo, e tu mi sveli
Le armonie di nuovi cieli,
E la cetera mi freme
Di mistero e di splendor.
 

Torino, 1851