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LA STATUA DI EMANUELE FILIBERTO E LA SENTINELLA

DIALOGO I

(Avanti la battaglia di Novara)
 
Senza macchia e senza tarlo,
Prode in armi, e a Dio fedele,
Sulla piazza di San Carlo
Veglia ritto Emanuele.
Non si ficca, in certe prove;
Caschi il mondo ei non si move,
Non gli garba andare a zonzo;
È un re forte, un re di bronzo.
Ier di notte (è un caso strano
Ch’io vi narro, e che m’ha scosso),
Nel suo civico pastrano
Un po’ tinto in color rosso,
La noiata sentinella
Col fucil sotto l’ascella,
Tra la nebbia, a passo lento,
Fea la guardia al monumento.
Ode un cricchio… e non a torto
N’è la scolta impaurita;
Leva il capo… e vede il morto
Che si move e piglia vita.
Oh dell’ombre arcani effetti!
Ecco il re di Marocchetti,
Che alza il braccio, i baffi stira,
Guarda l’Alpe, e poi sospira.
– Che cos’è che le dà noia,
Maestà? – gridò la scolta:
E il real della Savoia:
—Tel diremo un’altra volta.
—Tel direm? Ciò suona male;
Il pronome è illiberale.
Il Noi regio andò al disotto.
– Io l’adopro e me ne inf…
Vivaddio! qual hai tu merto
Perch’io sfoggi il galateo?
Non mi chiamo Carlo Alberto,
O mio povero babbeo.
Io son re d’un’altra pasta;
V’ho annasati, e tanto basta.
– Alto là! saria codino
Il guerrier di San Quintino?
– Per cambiar le fave in ceci
Non valea tirar la spada.
Tanto dissi e tanto feci,
Per salvar la mia contrada.
Or, parliamoci a quattr’occhi,
Per un branco di pitocchi,
Che implebeiano il governo,
Esser principi è uno scherno.
E almen fossero costoro
Di cor retto e mente salda;
Ma son tutti un concistoro
Di somier di prima falda.
Parlamento e gabinetto
Son due sbrendoli di ghetto.
– Maestà, parli un po’ basso,
Altrimenti faccio chiasso.
Che? Le piacciono i ristagni,
Gli arzigogoli, i tranelli
Dei Cavour, dei Buoncompagni,
Dei Gioberti e dei Pinelli?
Bando bando ai pecoroni
Delle mitre e dei blasoni!
Non ci vuol che il dio Viperio
Per dar vita al cimiterio.
– Chi è costui?… saria quel desso,
Che a pescar mignatte e scudi,
Per tant’anni il grugno ha messo
Nelle ungariche paludi?
Merta ben pel sommo uffizio
Il cordon di San Maurizio…
Che lo strozzi, nel Signore!
– Maestà! chiamo il Questore. —
– Chiama pur; ma quando penso
A quel Giuda invetriato,
Che al buon prete ardea l’incenso,
E che poi l’ha tracollato,
Vergognar mi debbo assai
Del paese ov’io regnai.
– Maestà, se non si frena
Do l’allarme a gola piena.
– Quando penso e quando vedo
Che una Camera si pone
Genuflessa a dire il Credo
Di cotesto don Pirlone,
Scaverei con la mia mano
Una mina al Carignano,
Vi vorrei porr’io la brace
– Maestà! tace o non tace?
– Son molt’anni se li conti,
Che sto zitto e non mi movo,
E che faccio i miei confronti
Tra i dì vecchi e il tempo nuovo.
– Dica dunque; che le pare?
– Che oramai dall’alpe al mare
Molto fetida è la gora.
– Maestà! continua ancora?
Ma non vede?… – Vedo tutto.
– Ma l’Italia?… – È un guazzabuglio.
– Ma la guerra? – È un certo frutto
Che il vedremo in fin di luglio. —
E la scolta al frizzo orrendo
Il fucil spianò fremendo,
E gridò col capogiro:
– Parli meglio… o ch’io le tiro.
– Tira pur non mi confondo.
In su questo piedestallo
Per veder come va il mondo
Ho fermato il mio cavallo.
E or che ho visto, e visto troppo,
Me ne parto di galoppo. —
E il guerriero in questo mentre,
Gli cacciò lo spron nel ventre.
E il caval nitrendo sbuffa
Pesta il marmo e lo ripesta,
La criniera gli si arruffa
Col rumor della tempesta;
Ecco impennasi; e dall’alto
Sta per dare il primo salto.
E la scolta, poveretta,
Supplicando al suol si getta.
– Maestà! mio buon Signore,
Per pietà non m’abbandoni.
Maladetto il fonditore
Che gli ha fatto anche gli sproni!
Maestà! già lei non brama
Ch’io qua perda onore o fama;
La ci pensi, e non si butti
A fuggir come fan tutti.
Di trottar verso Gaeta
Ha lei pur la regia idea?
Che diran Mellana e Reta
Di me ciuco all’Assemblea?
Sclameran che è un’opra indegna
Tradir l’arma e la consegna.
E di lei, col noto stile,
Grideran che è proprio un vile. —
Non finía questa parola
Che il feroce Savoiardo
Gli serrò la voce in gola
Colla fiamma dello sguardo.
Il destrier la zampa arretra
Sul suo zoccolo di pietra:
Calmo è il ciel; piombato il forte
Nel silenzio della morte.
Tersa allor la faccia bianca
Dal sudor della paura,
Quella scolta un po’ più franca
Si rimise in positura,
E al diman salì le scale
Del Comando Generale…
E parlò distesamente
Contro il re compromettente.
 

DIALOGO II

(Dopo la rotta di Novara)
 
Ier di notte un’altra volta
Filiberto si riscosse;
Palpitò la nota scolta,
Ma dimande non gli mosse;
Anzi al suol chinò la testa
Presentendo la tempesta,
Chè già odia quel re di ferro
Bestemmiar come uno sgherro.
– Maledetta indipendenza,
Buffonesca libertà!
Perso è il grano e la semenza,
Siam f.….i come va.
– Perdonategli, o Signore,
È un momento di dolore —
Mormorava il buon soldato
Un tantin scandolezzato.
– Dimmi dunque: il Bollettino?…
– Maestà!… pur troppo è vero.
– Lo straniero è sul Ticino?
– Alla Sesia è lo straniero.
– Che? Alessandria è dunque invasa?
O rossor della mia Casa! —
Dalla reggia i lumi torse,
E in furor le man si morse.
D’atra luce in quel momento
Rischiarossi il buio loco,
I pilastri, il monumento,
Tutto il bronzo era di foco.
Tempestando il novo Orlando
Spacca in due l’antico brando,
E il grand’elmo e la corazza
Scaraventa per la piazza.
– Ahi sventura! e non vel dissi?
Non potea la stolta guerra
Che scavar nefandi abissi
Alla povera mia terra.
Bell’onor che s’è comprato
Sovra i campi il re soldato!
– Maestà; non vane offese;
Lei fu grande, or sia cortese.
Hai ragion. Povero Alberto,
Tristo gioco a illustri inganni!
Di qual drappo or s’è coverto
Il pensier di diciott’anni!
L’Ostia insigne or cadde; e l’ara
Fosti tu, fatal Novara.
Or soletto il passo ei move
Ramingando, e chi sa dove.
Va; ti cerca un queto esiglio,
Non udrai da me rampogna.
Non di te, mio degno figlio,
Ma d’Italia è la vergogna.
Vedi omai per qual contrada
Tu ponesti onore e spada!
Questa dunque è la mercede
Riserbata a tanta fede!
Quel mio prode ed infelice
Ti riscosse, o sonnolenta,
Tu il tradisti accusatrice,
Trista Italia: or sei contenta?
Là sull’Arno e al Campidoglio
Tu gli hai tolto onore e soglio,
Rendi i polsi alla catena,
Fiera e giusta è la tua pena.
– Maestà! pur troppo io sento
La rampogna, e il viso ascondo:
E or di noi vigliacco armento
Che dirà, l’Europa e il mondo?
– Ghignerà, come si suole
D’un gran cencio esposto al sole,
Che gridasse al passeggiero:
Io fui porpora d’impero.
– Maestà, ma ier degli Avi
Re Vittorio al trono ascese,
E chi sa ch’ei non ci lavi
Del rossor di tante offese?
Quel Sabaudo giovinetto
D’un Leone ha il core in petto,
E se fausta è la stagione
Risvegliar si può il leone.
– Zitto là che non t’ascolti
Il caduco Maresciallo,
Or che trae dai nostri colti
Il foraggio al suo cavallo.
– Maestà, lei parla saggio,
Però un’onta è quel foraggio.
– Ma frattanto che si ciarla
Non si pensa a vendicarla.
Zitto là! si tessa queti;
Guai se strepita la spola.
Torneranno i giorni lieti.
– Maestà! lei mi consola,
Maestà! c’é dunque caso!…
– Va; non farmi il ficcanaso,
Zitto là. C’è ancor nel covo
Dell’Italia, il gallo e l’uovo.
Ma, per Dio! cacciate in bando
Rossi e rieri farisei,
Che nei bossoli agitando
Il berretto e l’agnusdei,
Han condotto al vituperio,
(Noti ben messer Viperio)
Il reame subalpino
Con il fil del burattino.
E tu re, che or sei salito
D’onde è sceso il tuo gran padre,
Che il mio nome hai rinverdito,
Tu leon fra le tue squadre;
Bada ben la via, ch’or prendi,
Ch’ella è fatta a saliscendi;
Guarda i cor, non i sorrisi:
Via le larve, e cerca i visi.
Hai giurato ad una Carta;
Tentennar non ti conviene;
Ma temprando Atene e Sparta,
Sparta imita, e onora Atene;
E se alcun ti sbarra il passo,
Man di ferro e cor di sasso.
Sia l’esempio ripetuto
Dei papaveri di Bruto.
Con memorie dolorose
Guarda sempre all’Alpe e al mare;
Dove crescono le rose
Cerca i lauri alimentare;
Ama i prodi; i giusti onora,
E in silenzio attendi l’ora,
– Maestà! lei mi conforta
A parlar di questa sorta.
– Ti conforto?… Eppur mi sembra
Che dì son, se tel rammenti,
Ti corresse per le membra
La repubblica a torrenti,
E so ancor che irato in faccia
Mi scagliasti una minaccia
Colla bocca del fucile,
E persin… M’hai detto vile.
– Sono un povero soldato,
Poco pensa e manco vedo,
Ma m’accorgo che m’han dato
Questi birbi un tristo credo,
E sinor senza mio fallo
Lo cantai da pappagallo;
Però qui sull’onor mio
Io le giuro innanzi a Dio,
Che appostato in certo calle
Diman notte, un meministi
Lasciar voglio sulle spalle
Di parecchi giornalisti;
Non so ben se lei m’intenda,
Per finir questa faccenda.
– Picchia giù; tu sarai degno
Cittadin del nuovo regno.
Sono orrendi i lor peccati,
Picchia giù senza pietà.
– Tengo certi camerati….
Lasci fare, Maestà!
– Vivaddio, poveri troni
Che han bisogno dei bastoni,
Or che un santo e civil uso
Al cannon la bocca ha chiuso.
– Maestà! ma se Dio vuole,
Quel cannon sarà sospinto
Sul Ticin. – Non più parole,
L’albagìa sta male al vinto.
Però sentimi: se un giorno
Per lavarci il doppio scorno
Sorgerem dal mare all’Alpe
Veri popoli e non talpe,
Con Vittorio e co’ suoi forti,
Con Fernando e con Umberto,
Volerà tra le coorti
Anche il vecchio Filiberto.
Tufferò nel vinto Isonzo
Queste redini di bronzo;
E in mancanza di quel brando
Che ho spezzato lacrimando,
In quell’ultima fortuna
Dio medesmo al suo fedele,
Porgerà la spada bruna
Dell’Arcangelo Michele,
E il Lucifero secondo,
Che avvelena il fior del mondo,
In eterno fia diviso
Dall’ausonio paradiso!
Oh caval della mia gloria,
Tu risenti i vecchi ardori:
Certo è chiusa, una vittoria
Nelle aurette che tu odori.
Ferma il piè; rabbassa i crini;
Non nitrir; chè i tuoi vicini
Tutti omai dal bimbo al nonno
Son rifitti in grembo al sonno.
Ma se Italia non si sbenda
Fra dieci anni i pigri lumi,
Manda un urlo, e in lei discenda
Ferro e foco, e la consumi;
La bufera e la valanga
Su vi passi, e non rimanga
Della trista un sol ricordo!
– Maestà! Siamo d’accordo.
 

ALL’ESERCITO DOPO NOVARA

 
E foste vinti, ahi lassi!
Dai peregrini acciari:
Spietatamente amari
Fur del ritorno i passi;
E sulla terra vostra,
Dopo la infame giostra,
L’usurpator le barbare
Tende ghignando alzò.
Liberamente morti
Ostie del reo destino,
Là sul fatal Ticino
Dormono i nostri forti;
E fu pietà del cielo
Che nel funèbre velo
Li ravvolgea, nè seppero
Chi vincitor restò.
Voi ne’ paterni ostelli
Spersi reddiste e domi
A dir le gesta e i nomi
Dei perduti fratelli;
E vi pesaro intorno
L’arme infelici, e il giorno
Malediceste, e l’ultima
Ora che il sol morì
Sugli spezzati brandi
Sulle bandiere afflitte,
Mentre le torme fitte
Dei vincitor nefandi
Rupper le cinte e i valli,
E dei negri cavalli
Nei superati tramiti
L’empio nitrito uscì.
E indarno l’accorata
Pietà del mondo, e i baci,
E i complessi tenaci
D’ogni persona amata
Vi consolaro. Il prode,
Vinto che sia, non ode
Conforti umani. Il feretro
È carità miglior.
Deh, con che senso ornai
Riguarderete i mesti
Puledri, e sulle vesti
E sulle lance i rai
Vi pioveran del sole;
E le usate parole
E i bei sogni di gloria
V’agiteranno il cor!
Voi prometteste i serti
Alle care donzelle,
E vi riveggion elle
Ahi, di pallor coperti!
Le man d’Italia affrena
Nova, e più rea catena,
E prometteste a Italia
La dolce libertà!
Datevi pace. Offese
Voi la Fortuna, antica
Druda sleal, nemica
Delle gentili imprese.
Datevi pace; ell’era
Ben colla rea bandiera;
Ma il Dritto è un solo; e vincoli
Stretti con lei non ha.
Ei colle salde mani
Pose fra genti e genti
Le montagne, i torrenti,
Le selve e gli oceàni
Per designar la schietta
Parte che a ognun s’aspetta;
E la Natura ai popoli
Un core e un verbo diè,
Perché difforme verbo
Perché difforme core
Tra suddito e signore
Non fesse il nodo acerbo.
E voi d’Itale case
Senso natìo süase
Contra costor, che posero
Nell’altrui parte il piè.
Or ben; fallì il certame.
Forte è il più reo talvolta.
Già di Caïn sepolta
Non è la mazza infame.
Ma scoppiano furenti
Sul parricida i venti
Urlando la terribile
Condanna del Signor.
Meglio a voi la caduta
Che la vittoria ai figli
Dell’ingiustizia. Artigli
Di falco han posseduta
La terra altrui; ma invano
Della rapina il grano
Si ciba in festa: attossica
Il sangue al predator.
Voi per la patria cara,
Voi per la vecchia fede
Il cor recaste e il piede
Nella terribil gara.
Sacre eran l’armi; degno
Della speranze il segno;
Con voi pugnava il libero
Brando dei vostri re.
Era l’Italia il voto,
Via lo straniero, il grido.
Nè fu selvaggio lido
Che non fiorisse al moto
Di quest’ausonio aprile,
Nè fu petto gentile
Che poi non desse un gemito,
Stirpe Sabauda, a te.
E invece i fortunati
Trionfator che sono?
D’una larva di trono
Mal securi soldati,
Cui gloria è alzar le spade
Sovra le altrui contrade,
Multar le messi, e irridere
Fra i nappi e la beltà.
Alle rive lombarde;
Al Po temente; ai presi
Moschetti; ai calabresi
Cappelli; alle coccarde;
Ai vecchi duci, al biondo
Lor re fanciullo, e al mondo
Che li dispregia, e al provvido
Dio che gioir li fa.
Turba corrotta. E i pochi
Tra lor più generosi
Sospirano i riposi
Nei domestici fochi:
E forse ai figli accanto
Ricorderan col pianto
L’ore, in cui tristo il vincere,
Lieto il morir sembrò.
Ite ai lari nativi,
Come onor vi consiglia;
E all’intenta famiglia
Il buon racconto arrivi.
Dite che non matura
Nel giardin di natura
L’odio da sè, ma il nordico
Furor vel seminò.
Dite ai vostri gagliardi
Che guardino lor terre,
E in pellegrine guerre
Non rechino stendardi,
Che par grave l’usbergo,
E mal si preme il tergo
D’un caval di battaglia
Coll’ingiustizia in sen,
Che l’ore ha numerate
Per sè Fortuna, e Dio
È re dei tempi, e obblio
In sua ragion non pate,
Che anch’egli ha brandi e tende
E quadrighe tremende,
E gli Amorrei son polvere
Se alla battaglia vien.
Questo lor dite; e quando
Gli alteri, o mal prudenti,
Nei futuri cimenti,
Ricingan elmo e brando,
Pregate sì che illesi
Gl’incauti a voi sien resi;
Ma se vi tenta il demone
Trionfi ad invocar;
(Deh perdonate all’ira)
Nelle vostre magioni
Cotesto nuncio suoni;
Che la prole delira
Chiusi ha per sempre i lumi
Qua sui lombardi fiumi,
E ne han le salme i vortici
Per seppellirle in mar.
Nordiche madri, a voi
Suona il mio voto orrendo,
Nè già godrei veggendo
Madre che plori i suoi;
Ma quest’Italia oppressa
Ha le sue madri anch’essa,
Che per voi denno in vedove
Bende, infelici! uscir.
Nel dì dei vostri affanni
I bardi di Lamagna
Geman con voi; non piagna
Italo cor quei danni.
Quando fra due s’è fatto
D’immortal giostra un patto,
Sopra una spoglia esanime
Debbe un dei due gioir.
Sappiam, che appena invase
L’aquila i nostri nidi,
Rupper giocondi gridi
Là nelle vostre case,
E tra le gemme e gli ori
S’alzar le mense, e a fiori
Fu delle bionde vergini
Incoronato il crin.
Questo sappiam, felici,
Nè chi l’assenzio or beve
Dimenticar mai deve
La festa dei nemici.
E noi pensosi in petto
La custodiam. No, stretto
Non è in sì picciol termine
Della gran lite il fin.
E voi levate il viso
Nella speranza, o prodi,
Di quest’alpe custodi,
E consentite al riso
Delle bocche amorose,
Perché ha dolcezze ascose
Veglia d’amor, che seguita
D’una battaglia il dì.
Nei presidii fiorenti,
Sopra gli aerei spaldi
L’antico ardor vi scaldi
Dei guerrieri concenti,
E vagheggiando l’ora
D’una gran pugna ancora,
Gittate il guanto al perfido
Destin che vi tradì.
Pensate ai rigidi avi
Della vostra contrada,
Che in Cristo e nella spada
Lor fede han posta. I bravi
Petti stan saldi, come
Salda di tronco e chiome
La fulminata rovere
Sulla vostr’alpe sta.
Pel sanguigno lavacro
D’ogni vostra ferita
Freme e ripiglia vita
Dei morti il cener sacro,
E vi dimanda, o cari,
Di vendicar gli acciari,
Per poi legarli ai pargoli
In santa eredità.
Così sulle guaine
L’antico onor vi brilli,
V’annodino ai vessilli
Le austere discipline.
È l’obbedir rammarco
Per chi d’ignavia è carco,
Per chi di forza esubera
È l’obbedir virtù.
Abbia chi questo apprezza
Nei dì di gloria muti
L’encomio dei canuti,
L’amor della bellezza;
E quando l’alba torni
Di più felici giorni
L’italo sol lo illumini
D’un’altra gioventù.
Poche ingiurie codarde
Non vi trafiggan l’alma,
Voi, che attendeste in calma
Le alemanne labarde:
Ma su l’elsa fedele
Del vostro Emanuele
Spïate colla cupida
Pupilla l’avvenir,
E intanto nelle liete
Corse di campi e d’armi,
Me cogli auguri carmi
Vate solingo udrete,
Solingo qual chi pensa
Che ove il volgo s’addensa
È vaniloquio, e sogliono
Gli arditi estri languir.
Nè già premio alla musa
Dal dì che varca, agogno;
In più ridente sogno
La mia speranza è chiusa.
Ma se avverrà che muoia
Sull’armi di Savoia
Tinto d’infami porpore
La terza volta il Sol,
Sopra un deserto lito
Possa io chinar la testa
Esanime; chè pesta
Barbarica, o nitrito
Io più non senta, o veda,
Quasi a ludibrio e preda,
Seguir superbo il teutono
L’itale nuore in duol.
Ma il patireste, o nati
Dal cor dell’alpe? O fieri
Superstiti guerrieri
Dei campi insanguinati?…
E ciò pur fosse; io pieno
D’alte speranze, in seno
Cadrò dell’urna; a scotermi
Quando che sia, verrà
Certo il fragor; Si è vinto!
Nostra è l’Italia alfine!
E alle voci divine
Agitato l’estinto,
Qualche eccelsa armonia
Non modulata pria,
Le meste solitudini
Di morte inonderà.
 

IN MORTE DI GIUSEPPE GIUSTI A LEOPOLDO CEMPINI

Amico,

 

A te, ed a voi tutti, gentili Toscani, che mi avete dimostrato tanta cordiale affezione in tempi oscuri, consacro ed invio. questo canto, come debito e segno di gratitudine. È un tributo povero sì, ma riverente, e sincero, ch’io rendo alla memoria di un vostro concittadino, il quale onorò in brevi anni la propria vita e l’Italia.

La morte, che toglie prima i migliori, vi tolse dopo il Bartolini anche il Giusti; quasichè alla tanta serie dei pubblici infortunii dovessero porre il cumulo le sepolture di quei rari uomini, i quali consolavano almeno il lutto della nazione coi sacri studii e col nome famoso.

Ti prego di far gradire questo mio canto, anzi di leggerlo tu medesimo a Gino Capponi, che fu quasi fratello e padre al povero Beppe, onde almen sappia anche quest’altro insigne uomo, così buono e così sventurato, che i veri generosi in Italia, vivano o muoiano, hanno sempre da qualcheduno lodi, riverenza e compianto; anche in dura stagione, allorchè il mondo suol troppo poco attendere alla vita o alla morte di tali, che non affliggendolo l’hanno Illustrato.

Addio; e se visiti quel caro e onorato sepolcro, deponivi anche in mio nome un ramoscello di quercia.

 
Il tuo PRATI.
Come un occiduo sole
Del tuo gentil paese,
Cadesti, amico. E il mese,
Che tinge le vïole,
E alla fatal penisola
Campi di pugne e di sepolcri aprì,
Te pur, te pur del tristo
Cipresso ha coronato!
E sul tuo volto, ombrato
Di speme ancor, fu visto,
Siccome ladro, scendere
Precipite il nefando ultimo dì.
Or del tuo sasso accanto
Dorme il flagel tebano,
Che la tua ferrea mano
Fea sibilar nel canto,
Onde, sui turpi talami,
L’Itala Aspasia di rossor tremò.
In secolo ingiocondo
Ahi tu nascesti, o prode.
E spesso incensi e lode
Scorda aver dato i l mondo,
Per contristar col mobile
Ghigno que’ petti, che domar non può.
Tal ti vid’io sull’Arno
Nella stagion dell’ira,
Quando d’Alceo la lira,
Casto ed insigne indarno,
Velar ti piacque, e in torbida
Solitudine i giorni egri languir;
Però che l’alma chiusa
A non cospicui sdegni,
Tra ingrati volghi e regni
La concitabil musa
Mandar tremasti, e pallida
Vederla d’odio, a’ baci tuoi reddir,
Meglio così! Di rose
Ti fè giaciglio al fianco
Ella; e sul capo stanco
Le belle man ti pose.
E ti dicea: «La provvida.
Morte ci meni a libertà, miglior.»
Così movendo un riso
Amaramente mesto,
Via. ti rapì da questo
Putrido ovil diviso,
Le cui battaglie e i feretri
La irridente natura orna di fior.
Via ti rapì. Del modo
Chi si turbò? Chi pianse?…
De’ giorni tuoi si franse
Quasi non visto il nodo.
Muoion gli illustri; e il cupido
Mondo li scote dalla mente, al par
Che il vïator la foglia
Che gli cascò sul crine.
Son queste le divine
Gioie che il Ver germoglia,
Fin sulla tomba, ai flamini
Trafitti a’ piè del suo difeso altar!
Ma non sdegnarti, altera
Ombra, di ciò. Tien gli occhi
Sul nido tuo. Che il tocchi
Scerni tu cosa?… Impera
Querulo un tedio. E sfolgora
Frattanto dalle plaghe artiche il ciel.
Credi, beato è il punto
In che si porta a riva
Da triste acque la diva
Anima stanca, e giunto
Il navicello all’isola,
Dietro si guarda al pelago crudel.
Stuol di puledre infido
Ver l’occidente incalza,
Pel negro etere s’alza
D’aquile ignote un grido,
E agl’iperborei vertici
Balena l’ombra del cosacco Re.
Forse di scuri e brandi
Vedrem connubio ancora;
E la cruenta aurora
Di secoli nefandi
Rosseggerà sui maceri
Frusti di un mondo che di Dio non è,
Ma la tua parca valle
Spero, e l’umil tuo sasso
Non turberà nè il passo
Di barbare cavalle,
Nè il reo fragor de’ litui,
Nè delle picche maledette il suon.
Dormi. I superbi nati
D’un secolo mendico
Quei di sotterra, amico,
Nomineran beati,
Però che lassi, al termine
Di tante larve, ebber la pace in don.
Ma tu, or, che fai? Del cielo
Qual loco è tuo? Gli eventi
Sai tu predir? Ne santi
L’arcano corso? Il velo
Questa tua dolce Italia
Coprirà della morte?… Alma gentil,
Deh! se ti piacque un giorno,
La conscia man serrarmi;
E l’aura dei miei carmi
Grata ti venne intorno,
Migra nel dio che m’agita,
E in profetiche vampe ardi il mio stil.
Ardilo; e ch’io, salito
Sulla vorago orrenda,
Le nude braccia stenda
A ogni terrestre lito,
E le quaranta suonino
Minaci aurore al pigro occidental.
Poi la fulminea possa,
Che un dì fu tua, m’insegua,
Onde de’ morti io vegna
Ad alitar sull’ossa,
E là repente ondeggino
Fiere selve di brandi. Altro non val.
Ch’io pregherò, se alcuna
Ti fu diletta mai,
Che qualche rosa, a’ rai
Dell’imminente luna,
Sparga pensosa, e lacrimi
Colà, non vista, del tuo salcio al piè.
Ahi! se viviam deserti,
Se il freddo cor non ama,
Dite, che val la fama?…
Che de’ begli anni i serti?…
Tempio senz’ara ed ospiti
È nostr’anima, Amor, priva di te.
Tutto di fragil seme,
Qua si distempra e solve.
E colla varia polve
Da mane a vespro insieme
L’uom pur, levita e principe,
Cade, come corroso embrice, al suol.
Ma quell’assidua morte,
Amor, tu rifecondi.
E quando il sole e i mondi
Si disfaran, tu forte,
In bianchi abiti d’angelo,
Ci aprirai nuovi mondi e nuovo sol.
Sta’meco, Amor. Mi fiede
Vario vulgar sussurro:
Ma gli astri, i fior, l’azzurro
Nessun mi vieta, e il piede
Mover solingo ai margini
Delle fide correnti; e meditar.
Novissimo conforto,
De’ tuoi prodigi il canto,
E dar vïole a un santo
Capo tradito o morto,
E in quegli eccelsi palpiti
Anche chi m’odia, vendicato, amar.