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RILLA

 
«Addio, notti serene! addio beate
Coste, ricche di mirra e belgiuin.
Addio bei soli! Addio splendide fate,
Dalla immortale gioventù del crin.
Impallidite ormai son le ghirlande
Che il lucente Azraello un dì mi diè!…
Ecco la nube d’Arimàn si spande
Sopra la fossa apparecchiata a me!
Tholmàr, la mia sorella ha chioma bionda,
Occhio di stella e bocca di coral,
E qual d’un rivo sigillato l’onda,
Move la voce lenta e verginal.
Bella è pur tanto! E non un’ora ai lieti
Garzoni aperse il verecondo cor.
Serba fede d’amante a’ suoi roseti,
E consumata morirà con lor.
L’altra mia suora Ircana ha capel nero,
Che giù sul cinto in doppia lista vien;
Sguardo ha di foco; ma un fatal mistero
Orrendamente le disfiora il sen.
Sovra una culla or s’inginocchia e geme,
Or esce il mar da lungo ad esplorar.
Ma alla feroce angoscia che la preme
Sorda è la culla, e senza vela il mar!
Povere entrambe! E fin quella pietosa
Che le vostre venìa pene a blandir,
Oggi al sepolcro dà la man di sposa,
Chiede un guancial di pietra, e vuol dormir.
Cosvelto! Arabo mio! Dal cielo aperto,
Tre dì ti chiesi, e dall’immenso pian:
Ho varcato le sabbie del deserto
Tre lunghissime notti… e sempre invan!
Impallidite ormai son le ghirlande,
Che il lucente Azraello un dì mi diè…
Ecco la nube d’Arimàn si spande
Sopra la fossa apparecchiata a me.
Orsù, Jago! ti sveglia!» – Un moro sorso
Dal nudo suol: guatolla: indi abbassò
Gli occhi infiammati: fieramente morse
Le dure labbra… e a Rilla s’accostò.
– Con bianca fede m’obbedisti, o Moro,
Sino a quest’ora. Per la tua virtù
Io ricchezze non ho. Ma, invece d’oro,
Guarda la terra! Libero sei tu.
Sol da te chieggo una pietà suprema.
Jago! Tempo è di morte. O mio fedel
Qui batte il core… A te la man non trema…
Or via. Mandami in braccio ai mio Cosvel! —
Così vela la fronte, e immobilmente
Aspetta il colpo che le tronchi i dì…
Ma il foco in vece d’una bocca ardente
Sul casto petto, e un gemito sentì! —
Si volse. Ahi vista!… Fino all’elsa ascoso
Il pugnal disperato ei s’ha nel cor.
Preme una man sul varco sanguinoso
E un fil di vita vi rattiene ancor.
– T’amai, Rilla, t’amai!… di tale un senso,
Che mai nol capirà petto mortal;
Fier come il sol, come l’oceano immenso,
E, vedi! occulto come il mio pugnal.
Ma… Cosvello… è sotterra! – E appena il disse
Si svelse il ferro e l’anima esalò.
Rilla, curva sul Moro, i guardi affisse…
E in un riso frenetico scoppiò.
– T’ho trovato, t’ho trovato,
O di Rilla disertor!
Quasi, o caro, s’è spezzato
Pel gran piangere il mio cor!
O Cosvello, della guerra
Più non correre al fragor
Vivi e morti una egual terra,
Tutti e due ci debbe accôr!
Ma il crepuscolo è già presso:
Vieni meco, o mio tesor!
Questa notte in un amplesso,
Scorderemo ogni dolor.
Che fai tu che guardi il mare?…
Che fai tu, che baci i fior?…
Su, venitelo a mirare
Come è splendido d’amor!
. . . . . . .
. . . . . . .
. . . . . . .
. . . . . . .
Rilla così da quell’istante orrendo
Corre il deserto. E quando s’affacciò
Alle pallide suore, una gemendo
Svelse i roseti, e l’altra il mar lasciò!
E la baciano e piangono al suo fianco!
Ella sorride. E fiuta ad or ad or
Lieve una macchia sul suo velo bianco.
È schietto sangue… ma la crede un fior.
 

CONVEGNO DEGLI SPIRITI

 
Ecco là sotto di quel tiglio verde
Compajon le due anime affannate,
Chiuse in eterno son le labbra lor.
Spiriti, o voi, per cui goccia non perde
Di sue rugiade il fior che nol sappiate,
Ditemi voi di quell’ignoto amor.
– Se da noi saper tu aneli
Di quei due che muti stanno,
Quel che fêr, non quel che fanno,
Sarà pago il tuo desir.
Hanno amato quando i cieli
Biancheggiarono all’aurora;
Hanno amato, amato ancora
Delle stelle al comparir.
Seppelliti in antri cupi
Hanno amato, allor che nera
S’ascoltava la bufera
Per le selve imperversar.
Sulla punta delle rupi
Han compiuti i loro amori,
Li han compiuti in grembo ai fiori,
Li han compiuti in mezzo al mar.
Sia che l’arso o la moria
Disertasse e case e colti,
O i mortali avari e stolti
Fosser tratti alla tenzon;
Legò sempre un’armonia
Le due vite oscure e sole;
Parlâr basso…; e fur parole
Che ancor note a voi non son.
E talvolta nell’ebbrezza
Del baciarsi e viso e chiome,
Sui lor labbri il dolce nome
Dell’Italia risuonò;
Ma per dir che la bellezza
De’ suoi cieli e de’ suoi mari
A un lor bacio non è pari:
Tanto forte amar si può!
I color vivaci e schietti
Si tramutano alle fronde,
Si tramuta il letto all’onde,
Si tramuta all’uomo il cor.
Cangia il tempo a mille oggetti
Usi e forme e nomi e tempre;
Ma i lor baci eguai fur sempre,
Sempre eguale il loro amor.
Quando il mal li ha sopraggiunti,
Si guardaro e pianser tanto:
Ma ogni stilla di quel pianto
Dai lor baci astersa fu.
Cadder pallidi e consunti:
Lor dimora è tra gli spirti;
Noi di più non possiam dirti,
Tu non puoi saper di più. —
E intanto giù nel basso a un romorìo
Di foglie e delle stelle al lume incerto,
Ecco tremar la compagnia fedel;
Poi surge un suon di disperato addio;
Ei s’inabissa giù nel suolo aperto,
Ella gemendo si dilegua in ciel.
« O fate vergini,
Voi che abitate
Gli astri e le tenebre,
L’aure ed i fior;
Voi rivelatemi,
Vergini fate,
Questa recondita
Storia d’amor.
E un roseo nuvolo
Sulle veloci
Piume dei zefiri
Ecco venir;
Ecco un insolito
Rumor di voci,
Poi queste limpide
Note n’uscir:
– Vissero insiem; ma la fanciulla amante
Volea prostrarsi sulle verdi zolle
A supplicar per le sue colpe tante…
Ed ei non volle.
Molto l’amò; ma la fanciulla, senza
Pace vivendo, volea far satolle
Dei miseri le fami, in penitenza…
Ed ei non volle.
Spuntava l’alba; e la fanciulla oppressa
Giù in quell’erma chiesetta, a piè del colle
Scender volea per ascoltar la messa…
Ed ei non volle.
Fuggiro un dì dopo contrasti e guerre;
E la madre di lei diventò folle:
Chieder volea novella alle sue terre…
Ed ei non volle.
E molto i suoi voleri eran tenaci,
Ma in lei sola fu lieto, in lei si piacque;
E i suoi voleri confondea co’ baci…
Ed ella tacque!
Piangeva un dì con disperato affetto
Un fanciullin, che per morir le nacque:
Ei se la strinse lungamente al petto…
Ed ella tacque!
Pensava un tratto alle natie riviere
Nei lunghi dì quando malata giacque;
Ei la vegliò per cento notti intere…
Ed ella tacque!
E i più bei fiori ell’ebbe, i più bei frutti;
L’amò sui monti, l’adorò sull’acque.
Ei fu tutto per lei, nulla per tutti…
Ed ella tacque!
Moriro, e in premio dell’amor profondo,
Posson trovarsi nel giardin natìo;
Se due morti ritornano nel mondo,
Così vuol Dio.
Ma il pensiero di lui fu travïato;
Ella versò d’amari pianti un rio,
E in ciel fu tolta; ed egli è condannato;
Così vuol Dio.
Che se aveva egli pur, siccome ell’ebbe,
E terrori e rimorsi e sentir pio,
Anche forse per lui stato sarebbe
Pieghevol Dio.
E invece di venir sulla tacente
Ora a scambiarsi il tormentoso addio,
Vivrebbero abbracciati eternamente
Lassù con Dio. —
Via per le tremule
Volte stellate
Più malinconica
La luna errò,
E il lieve e lucido
Stuol delle fate
Nel mar dell’aere
Si dileguò.
Solo uno spirito
Sotto quel tiglio
Dov’ei posavano
S’udia cantar:
– « Ahi! tra le lagrime
« Di questo esiglio,
« Che importa vivere,
« Che giova amar? » —
 

UNA CENA D’ALBOINO RE

 
Fervean di canti, fervean di suoni
Di re Alboino l’ampie magioni;
E, in mezzo ai duchi giunti al convegno
Dal vasto regno,
Sparsa di gemme, lucente d’oro,
Di quelle mense fregio e decoro,
Più dell’usato bella e gioconda,
Sedea Rosmonda.
Gli orli spumanti di vino eletto,
Volan le tazze per il banchetto;
Fumosa ai capi l’ebrezza ascende;
E trema e splende
Di fosca luce l’occhio regale
Come la punta del suo pugnale;
Scoppian le risa, lunghe e feroci
Stridon le voci.
Disser di queste belle contrade
Oppresse e vinte dalle lor spade;
Plausero a questi colli vestiti
Di tante viti.
Fragili fiori più che colonne
Chiamâr, codardi! le nostre donne;
Le disser liete, superbe e belle,
Ma tutte ancelle!
E al vil susurro dell’orgia rea
Rosmunda bella forse gemea,
Per colpe orrende non ancor fatta
Di quella schiatta.
– Prenci e baroni, paggi e scudieri,
Ecco il più bello de’ miei pensieri. —
(Così, nell’ebro furor del vino,
Parla Alboino).
– Vedete questa, che ho qui d’accanto,
Lieta, superba? che mi ama tanto?
La vera gemma quest’è, per Dio,
Del serto mio.
Vuoi tu trapunta d’oro ogni veste?
Trecento all’anno banchetti e feste?
Ricca è l’Italia, ma ricca assai:
Chiedi, ed avrai.
Ma, poichè denno questi miei prodi
Nei lor castelli dir le tue lodi,
E notte e giorno render gelose
Fanciulle e spose;
Sien dunque istrutti d’ogni tuo merto.
Che tu sei buona, frate Roberto
L’ha predicato. Che tu sei casta,
Io ’l dico, e basta!
Agil di forme, sottil di piede,
Che tu sei bella, ciascun lo vede.
Or via, Rosmunda, dà loro un saggio
Del tuo coraggio. —
E a lei porgendo con un sorriso
Il nudo teschio del padre ucciso:
– Or via, Rosmunda, forte esser devi:
Rosmunda, bevi!
Per me il suo sangue, per te il mio vino;
Bella Rosmunda, questo è destino:
Tu l’hai baciato prima ch’ei mora;
Bacialo ancora.
E tu, spolpato re Cunimondo,
Addio. Tu vieni dall’altro mondo.
Ecco la stella di mia famiglia:
Bacia tua figlia. —
Del re briaco piacque lo scherno,
E un lungo eruppe plauso d’inferno.
– Re Cunimondo, bene arrivato!
Dove sei stato?
Perchè la mano più non ci tocchi?
Per Dio, che avvenne? Tu hai perso gli occhi!
Oh sconsacrato figliuol di Roma,
Dove hai la chioma?…
Real cugino, lancia smarrita,
Dammi novelle dell’altra vita.
Poi di due cose rendimi istrutto,
Tu che sai tutto.
Pingui di cibo, scarsi di guerre,
Starem molt’anni su queste terre?
E a quali patti Dio ce la dona
Questa corona?
Ospite bianco mutolo e cieco,
Bacia la rosa ch’io tengo meco,
Ve’ che i tuoi baci pallida aspetta
La poveretta. —
E il re briaco, così dicendo,
Giocherellava col teschio orrendo;
E a lei, che gli occhi fremendo torse,
Ratto lo porse.
– Ferma, Alboino, da’ labbri miei
La prova infame voler non dèi.
– Bevi, Rosmunda; non più parole!
Così si vuole. —
Bevea Rosmunda. Ma con lo sguardo
Parea dicesse: – Re longobardo,
Se la vendetta qui non mi langue,
Berrò il tuo sangue! —
E dopo un anno da quel convito,
Dormiva solo l’ebro marito.
Aprì una notte l’erma sua cella
Rosmunda bella…
E con un forte vago soldato
Il regicidio fu patteggiato…
Ed ecco all’alba sommessamente
Picchiar si sente.
– Sei tu, Almachilde? – Son io. – Che porti? —
– Che un lungo sonno dormono i morti! —
Ond’ella, tratto l’aspro cimiero:
Dal suo guerriero:
– Questa corona, dolce mio bene,
Questa corona più ti conviene.
Ella era turpe; rendila degna;
Baciami, e regna. —
Se iniqua storia vi raccontai,
Quello ch’è storia non cangia mai.
Nel torbid’evo, quando l’Italia
Fu data a balia,
Di casi atroci ne avvenner molti:
Ma ai nostri tempi, civili e colti,
Spose e mariti, popoli e troni
Son tutti buoni.
 

SOLITUDINE E RACCOGLIMENTI DELLO SPIRITO

I.
 
Che mi giovò peregrinar per tante
Terre, temprando i mesti carmi e i lieti?
Sotto l’ombra de’ gelsi e degli abeti
Or sogno i dì quand’io sorrisi infante.
Cara città del Tanaro sonante,
Patria d’imperadori e di poeti,
Molli prega per te l’aure e i pianeti
La nostra Musa della pace amante.
La nostra Musa, che un romito albergo
Or chiede al cielo, d’ascoltar già lassa
Tanto vacuo rumor stridersi a tergo.
Rumor di biasmo che matura affanni,
Rumor di lode che col vento passa.
Oh, i cari sogni de’ miei giovani anni!
 
II.
 
Nei cari sogni de’ miei giovani anni
Vidi una mesta creatura bella,
E sul cammin de’ cominciati affanni
Per man la presi, e la chiamai sorella.
Or basso giace! E piacque alla mia stella
Riconfortarmi con illustri inganni;
Ond’io sclamai: Gloria, ti cerco. Ed ella
Mi rispose: Figliuol, cerchi i tuoi danni!
E ben fu il ver: perchè ho consunti gli occhi
Per tante veglie lacrimate, e sento
Su per l’aspro cammin rotti i ginocchi.
Sui fior già tristi la imminente neve
Si versa, e picchia ai morti rami il vento.
Primavera dell’uom quanto sei breve!
 
III.
 
Primavera dell’uom quanto sei breve!
Perciò natura con pietoso affetto
Fece uscir di sue mani il fanciulletto
Così ridente, spensierato e lieve.
Son rose i lini del suo picciol letto,
Rose i baci che dona e che riceve;
È rugiada del ciel l’acqua che beve,
Divina è l’aura che gli scorre in petto.
Lasciamo in grembo al luminoso incanto
Questo picciolo re dell’allegrezza,
Che in breve diverrà schiavo del pianto.
Oh rimembranza dell’età fanciulla!
Chi serba amor di quella prima altezza
Sospira, e torna a ribaciar la culla.
 
IV.
 
La culla a ribaciar torna e sospira
Chi per suoi dolorosi esperimenti
Apprese l’arti, onde si volve e gira
Questa torbida razza de’ viventi.
Chi vide uscir dai ben orditi accenti
L’opre disformi, e il viver dolce in ira
E poderosi i rei sugli innocenti,
La culla a ribaciar torna e sospira.
Io l’amo sì, dal vulgo inavvertita
Quest’umil casa, ove sognar si ponno
Le larve più soavi della vita.
Ma al par di questa, che con dolci tempre
Chiama sugli occhi ai pargoletti il sonno,
Amo quell’altra ove si dorme sempre!
 
V.
 
Amo quell’altra ove si dorme in pace,
Ove allo stanco figlio del dolore
È pio conforto una solinga face,
Una stilla di pianto, un mesto fiore.
Colà dentro sepolto, il rumor tace
Di tanti sogni, che fêr nodo al core.
Oh, ben s’apre ai dolenti la tenace
Porta onde vassi all’ultime dimore!
Io quando sento come si consuma
In me il vigor della nascosta vita,
Visibil cosa alle persone accorte,
D’una subita luce si ralluma
L’anima vagabonda; e un’infinita
Gioia mi prende in vagheggiar la morte.
 
VI.
 
Sì tu verrai; verrai, morte invocata,
Ultimo dono che il Signor dispensa.
E: «Vieni, amico, mi dirai, la mensa
Nuzïal che volesti, è preparata.
Vieni meco alla piaggia avventurata,
Ove da lunga cecità rinsensa
Questa misera polvere, che pensa
Pensieri ed opre che non han durata».
Ed io verrò, cortese ultima amica,
Verrò nella tua pace. E il vïatore
Chi sa che alla modesta urna non dica:
Dorme là dentro un infelice ingegno
Consumato da sè nel più bel fiore.
Ma sofferse, e di pace egli era degno!
 
VII.
 
Quel dì che dentro agli occhi moribondi
Mi nuoterà la fuggitiva luce,
Della barchetta mia chi sarà duce
Sul mar che mena negli eterni mondi?
Rimembro io ben d’un cherubino il truce
Brando, e la pena delle offese frondi;
E so che a quei perduti orti giocondi
Nessun merito mio mi riconduce.
Pure ho speme, buon Dio, che tu sia mite
Ad un che amò, che delirò cercando
Suo bene in terra, e non trovò che duolo.
Ahimè! Signor, da tenebre infinite
I’mi sento cerchiar, sino da quando
Il buon angelo mio mi lasciò solo!
 
VIII.
 
Il buon angelo mio fu quella cara
Che, or è il quart’anno, s’è da noi partita,
Tramutando le rose della vita
Negli oscuri giacinti della bara.
Di quella donna affettuosa e rara
In noi la ricordanza illanguidita
Par talvolta alle genti; e la romita
Nostr’alma il riso dei felici impara.
Ma, Dio! Qual riso d’amarezza pieno,
Riso che sfiora i freddi labbri appena,
E dentro al cuore in lagrime si muta!
Ond’io gli occhi sollevo, e chiudo al seno
Le braccia, e tra me dico: Or la serena
Stagion volga per altri: io l’ho perduta.
 
IX.
 
Volga per altri la stagion serena,
Che a me rise negli occhi, or nella mente
Sì mi travaglia, che da mesta vena
Spuntar sempre i miei carmi ode la gente.
E tuttavia l’afflitta anima sente
Anco una gioia; ed è che fatta piena
Sia la speranza di veder possente,
Come un tempo già fu, l’itala arena
D’una schiatta animosa, alta e gentile,
Che si rammenti degli antichi padri,
Stelle fiammanti in procelloso nembo;
E fiorisca una volta il forte aprile
Dai fiori eterni; e sentano le madri
Con gioia il peso che lor vive in grembo
 

ALLA MALINCONIA

I.
 
Vieni, dolce compagna alla pensosa
Anima, che pur volge ove tu sei;
E non molto tardar, se alcuna ascosa
Simpatia di dolor t’annoda a lei.
Vieni soletta, e accanto mi riposa,
Poiché tutto in custodia io mi ti diei;
E dolce parla, e dimmi alcuna cosa
Che dia pace una volta a’ pensier miei.
Tedio m’occupa l’alma e l’intelletto
Per sè già stanco nel rumor, che mena
Tanto popol che ciancia e che non sente!
Talchè ogni lume di soave affetto
Mi si fa gel di dentro, e ne ho gran pena.
Provvedi, amica, il mio viver dolente!
 
II.
 
Provvedi, amica, sì com’è tuo stile,
Che di soavi godimenti mesti
Fai tremar l’alma e in animo gentile
Ogni pensier più desolato vesti;
Se alcun mio canto, in che ti manifesti,
Dritto ti parve non tenerlo a vile,
Provvedi, amica (e non sia tardo), a questi
Ultimi dì del mio cadente aprile.
So che da te si move ogni armonia
Di verità, che come il tempo dura
E come la immortale anima mia.
E so che, se i begli occhi in me tu giri,
Rimarrà forse nell’età ventura
Qualche parte di me ne’ miei sospiri.
 
III.
 
Qualche parte di me; però che il vano
Desio, la folle speme e il cieco amore
Dormiran muti nel funereo piano,
Come questa infedel creta che muore.
Spero soltanto che con senso umano
Talun di me favelli. E quando il core
Gli anderà mesto dietr’un ben lontano,
Goda di conversar col mio dolore.
Dolor vestito in abito diverso,
Ma mio pur sempre, e in me riverberato
Dal vario lacrimar dell’universo.
Talchè il mio nome non andrà lodato
Per la dolcezza del leggiadro verso,
Ma forse per quell’aura ond’egli è nato.
 
IV.
 
E se anco eterne imperversasser l’ire
Della sorte, che in noi volge sì dura,
E accorresse la turba a seppellire
Meco i miei carmi, (infausta sepoltura!)
Veramente la mia trista ventura
Non sarà piena; chè gli udran ridire
Da quella, or piccioletta creatura,
Che Elisa mi lasciò pria di morire.
Lunghesso un rivo, al tramontar del sole,
Ella verrà piangendo; e in quell’affanno
Canterà i carmi che le piacquer tanto.
E gli uccelletti e l’aure e le vïole
Con pietosa dolcezza esclameranno:
Come è gentil la cantatrice e il canto!
 
V.
 
Com’è gentil la cantatrice e il canto!
Così diran di quelle dolci note:
E tu repente sulle rosee gote
Sentirai, figlia mia, scorrerti il pianto.
Se un curïoso, che ti passa accanto,
Di ciò s’avvegga, interrogar ti puote;
E tu le inchieste di responso vuote
Non lasciar, nè ti pesi il suo compianto.
Ei tutto e presto obblïerà. Ma quando
(E ciò s’avvera), al tempo ahi! non più vivo,
Gli anderà mesto e intenerito il cuore,
Fia che rammenti, e forse lacrimando,
Una pia giovinetta in margo a un rivo,
E un sol morente, ed un canto d’amore.
 
VI.
 
Tutti di rose a te rideran presto
Gli anni di gioventù, cara angiolella,
Nè molto andrà che sentirai quel mesto
Turbamento gentil, che amor s’appella.
O figliuoletta mia! poiché da questo
Mondo è fuggita la materna stella,
Il tuo povero cor fa manifesto
A me, che per me t’amo, e più per quella.
Io parlerò col tuo povero core,
E alcun conforto, o dolce anima cara,
Stillerò forse sulla tua ferita;
Perchè l’uom che negli occhi ebbe il dolore,
O figliuoletta, agevolmente impara
La mesta intelligenza della vita.
 

OMBRE E LUCE

 
Tu che il giovane capo orni di rose,
Le hai ridenti sull’alba e a vespro morte!
Tu ne’ balli t’avvolgi, all’amorose
Vergini arridi, e al piè compri ritorte.
Piangerà chi la lieve anima pose
Dietro larve di bene, ahi! così corte;
Chi non ha senso dell’eccelse cose
Avrà il tedio custode alle sue porte.
Oh! inver beato il pellegrin, che il piede
Mette per questa landa orrida e grama,
E gli è cibo l’amor, tenda la fede
Verso le torri, e la città che il chiama!
Poco intende quaggiù cor che non crede,
Nulla intende quaggiù cor che non ama.
 

A UGO FOSCOLO

I.
 
E tu, caldo di gloria e libertade,
Ahi! d’Albïon sotto le rupi brune,
Dove il raggio del sol sì pigro cade,
Teco traesti l’ultime fortune.
E hai dovuto varcar l’atre lacune
Pria di veder le maledette spade,
E i rei turbanti e le falcate lune
Dar volta dalle tue belle contrade!
Chè Zante no, ma il riso tutto quanto
Di Grecia a te fu patria, Ugo, che avesti
Di Pindaro e Tirteo l’anima e il canto.
E pur nudo e ramingo, in piagge estrane.
Ahimè! non lacrimato i dì chiudesti.
Ecco, ingegni frementi, il vostro pane!
 
II.
 
Ma lungo il fiume dell’elisia valle
La verde riva appena ebb’egli presa,
Che sentissi gridar dietro le spalle:
«Ugo, qua rompe ogni terrena offesa!
Guarda come di fior, d’erbe e farfalle
Tinta è l’aria e la terra, e con che accesa
Trepidanza gentil vincono il calle
L’anima di Ricciarda e di Teresa,
E tua madre con lor». Baci e saluti
Fûr molti; e arrise la immortal pianura,
Quand’ei narrò, senza dolor nè sdegno,
Rea mercede del canto, i combattuti
Anni e l’ira e l’esiglio, e quanto dura
Nelle memorie d’un afflitto ingegno.
 

A G. PLANA

 
M’odi, signor. Quand’io m’innamorai
Di te, come per fama avvenir suole
D’uom, che da queste miserande aiuole,
Batte l’ale all’altezza ove tu stai,
Veramente in quegli anni io non sperai
Vederti in viso ed ascoltar parole
Di quel pensier che sta cogli astri e il sole,
E inutilmente, non li tenta mai.
E or t’assidi al mio letto; e mi favelli
Con tal riso d’amor, come faresti
Con un dei tuoi lucenti astri più belli.
Oh ben t’avvenga, illustre alma pietosa,
Che cittadina delle vie celesti,
Cerchi il dolor come celeste cosa.