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RAMUSCELLO

 
O ramuscel di mandorlo,
Quando su te si posa
Il cardellino, e ai limpidi
Rigagni e al ciel di rosa
Sparge la fresca e lieta
Anima di fanciullo e di poeta;
O ramuscel, per magica
Arte io vorrei mutarmi
Nell’augellin che dondola
Su te, trillando carmi;
Su te, che spargi al vento
La molle nebbia de’ tuoi fior d’argento.
E là, cantando il giovane
Mio tempo e i dolci inganni,
Le ingrate nevi e il cumulo
Non sentirei degli anni,
Ma ognun la sua fatale
Stella ha sul capo; ed accusarla è male.
Dunque, augellin, sul candido
Ramo tu resta e trilla;
Nella consunta lampada
Io sveglio una favilla
E seguo, al tenue raggio,
Sonnambulo nell’ombra, il mio vïaggio.
E ad una pietra celtica,
A un ipogeo latino,
O sotto un dorio portico,
O un arco bizantino,
Sogno; e domando al fiore
Ciò che resta nel mondo e ciò che muore.
Sogno; e domando ai zefiri
Se, al dì della procella,
Io seguirò la bussola
D’Amalfi o la mia stella;
E se il funereo altare
Troverò sulla tolda o in fondo al mare.
Se in fondo al mar le Naiadi,
Dopo il virgineo ballo,
Non mi daran sarcofago
Di perla o di corallo,
Ma, pari a mia fortuna,
Un letticiuol di poca aliga bruna;
Grato alle Dee, dal povero
Sepolcro, a quando a quando
Mi leverò, l’erratico
Poseïdòn guardando;
E mi parrà la vita
Sentir nella sonante onda infinita.
Onda, del tutto origine,
Madre ed amante ignota,
Al cui tripudio il mistico
Gange e il divino Eurota
E l’ilice dircea
E il ramuscel di mandorlo si crea;
Onda, che sorgi ai palpiti
Di Febo innamorato,
E al cardellino e all’aquila
I nascimenti hai dato;
Onda nettunia, è pieno
Di sogni eterni chi ti dorme in seno.
 

ANTONELLO DA MESSINA

 
Croci, isolette e monti
Bacia, cadendo, il sol;
Radon canali e ponti
Le rondinelle a vol.
Sfiora il battel gli estremi
Flutti d’un’ombra al par:
Vedete! han l’ale i remi
E son già persi in mar.
Da voi, superba Annina,
Fugge, chè offeso ei fu,
E Antonio da Messina
Non tornerà mai più.
Antonio, che sui canti
Del suo romito ostel,
Quando colora i santi,
Fa maraviglia al ciel.
Perchè, mentr’ei dal seno
L’occulto amor svelò,
Pia gentilezza almeno
Tacer non v’insegnò?
Forse placato avreste
Col timido pudor
I fochi e le tempeste
Di quel potente cor.
Ma la parola irata
Fu troppo lesta a uscir:
«Pensa da chi son nata,
E bada a rinsavir!»
Di dogi e dogaresse
Voi siete figlia, è ver;
A voi ghirlande intesse
Di Candia ogni guerrier.
Chi vien da la Castiglia
Seco pensando va:
«Un fior la mia Siviglia
Pari a costei non ha.»
Sul Cassero sospira
Ogni bendato Alì:
«Non ha, non ha Casmira
Più glorïosa Urì.»
Chi vien di Francia in rada
Dice co’ suoi: «Qual re
Non pon corona e spada
Di questa dama al piè?»
Tutto v’arride, è vero;
Ma del pittor sul crin
Verdeggia un lauro altero,
Che non avrà mai fin.
Dite, superba, o dite:
Quale dei due preval,
Quando son posti in lite
La gloria ed il natal?
Egli a mestier villani
Le man fanciulle usò;
Ma quelle scabre mani
Un dio trasfigurò.
E un mondo a lui sfavilla,
Che di portenti è pien:
Un mondo che non brilla
A niun de’ vostri in sen.
Come alle sacre note
Scende dal ciel quaggiù
Nell’ostia al sacerdote
La spoglia di Gesù;
La più segreta parte
Lasciò del ciel così
L’arcana dea dell’arte,
E disse a lui: «Son qui.
I trepidi ginocchi
Perchè non reclinar,
Quando v’apparve agli occhi
Quel nume e quell’altar?
Chi potea darvi un riso
Di più beato april,
Mostrarvi un paradiso
Più grande e più gentil?
So ben, negarlo è vano,
Che a voi pur oggi in cor
Vive il fanciul Sicano
Come un celeste fior;
Ma dall’incauta Annina
Troppo spregiato ei fu,
E Antonio da Messina
Non tornerà mai più.
Però, tra queste liete
Piagge e di là dal mar
Voi ricordata andrete
Del gran fanciullo al par.
Nè già per nascimenti,
Per oro o per beltà,
Ma il mondo de le genti
Di voi si sovverrà.
Perchè un fuggiasco insonne
L’ombra de’ chiostri amò;
E ne le sue Madonne
Soltanto a voi pensò.
 

BACIO DI GIOVE

… sunt laeva Tonantis

Oscula.

Frammento antico
 
Corcossi Giove sulla madre Terra,
Che di bellezza giovanil vestita,
Dormia sommersa nell’ambrosia luce.
Sotto l’insania del divino amplesso,
Ella fu pregna e partorì la schiatta
Dei futuri giganti. Eran dapprima
Pargoli in grembo di petrose cune,
Nutriti ai fochi dell’Olimpo e ai venti
Della rigida selva. Orma di riso
Però non apparia su quelle fronti,
Non luceva in quegli occhi orma di pianto;
E il dì che uscîr col giovinetto piede
Tentando i passi, trepidâr d’intorno
A quelli strani e nomadi fanciulli
La montagna e la valle. E quando il giro
Di più lune fu vôlto, essi in altezza
Superaron le querce, e il minaccioso
Tauro in possanza, e nelle tetre fauci
La lupa e il tigre ne’ fulminei sdegni.
Quindi tesero gli archi; e il primo sangue
Stillante fuor dalla portata preda
Scaldò del fiero cacciator le spalle;
Fumâr nelle caverne e sulle rupi,
Coronate di falchi e di bufere,
Le mense enormi; e sui villosi petti
De’ coloni le figlie e de’ pastori
Imparâro il connubio. Indi risolta
Tra i frassini del Pelio e dell’Olimpo
Fu la perfidia, e cominciò la pugna
Dei fulminati. E Prometèo sull’Ida
La grifagna tormenta, e nel macigno
Urla Encelado sempre, e Flegra tutta
De’ combusti cadaveri nereggia.
Questo fruttò dalle incestate nozze
E dai baci di Giove. E non per tanto
Ridon nell’aria le gioconde stelle,
Ornano a’ fior le giovinette il crine,
E ai vivi e ai morti le materne braccia,
Mentre cantan le Parche, apre la Terra.
Figli siam noi di questi padri! e pace
A noi l’avara carità de’ Numi
Consente appena in quello stesso grembo
Che produsse il misfatto. O bella emersa
Dalle spume del mar, bella Afrodite,
Fior di Cipro e di Milo, i dì son brevi:
Tu ce li allegra: della vita il nappo
Sente d’amaro; e tu ce lo incorona
Di molle ambrosia: a noi l’ultima luce
Spunta imprevisa; non lasciar che il nembo,
Del suo tristo color ce la dipinga
Sul cristal della stanza ove domani
Più non saremo. Benedetti i pochi
Che s’alzaron nell’armi, e al ferreo squillo
Delle trombe guerriere han dato in campo
L’anima e il sangue. Nel felice Eliso
Già raccolti son essi; e se non mènte
La parola de’ tempi, al capo in giro
Recan la fronda che i più degni eterna.
 

PATRIA

 
Non sonora abbastanza è la tua onda,
O padre Adige.
Sin che al mio verde Tirolo è tolto
Veder l’arrivo delle tue squadre,
E con letizia di figlio in volto,
Mia dolce Italia, baciar la madre;
Sin ch’io non odo le mute squille
Suonare a gloria per le mie ville,
Nè la tua spada, nè il tuo palvese
Protegge i varchi del mio paese;
No, non son pago. Chiedo e richiedo
Da mane a vespro la patria mia:
E il suo bel giorno sin ch’io non vedo
Clamor di feste non so che sia.
Cantai di gloria, cantai di guerra,
Cantar credendo per la mia terra,
Quanta ne corre da Spartivento
All’ardue Chiuse di là da Trento.
L’han pur veduta la festa loro
L’altre del Lazio città reine!
E tu, gran Madre, del proprio alloro
Tu ne hai vestito l’augusto crine:
Ma la mia terra negletta e sola
Geme nell’ombra: chi la consola?
Dai ceppi amari chi la disgrava?
Chi l’aura e il lume rende alla schiava?
Eppur, quand’era peccato e scorno
Stringer la mano degli stranieri,
Coi prodi figli d’Italia, un giorno
Sorsero i figli de’ miei manieri;
E ai patrî greppi gentil lavacro
Diedero il sangue più puro e sacro.
E il sa Bezzecca, sulle cui glebe
Fiori di sangue brucan le zebe.
Umile è certo la terra nostra:
Archi, colonne, templi non vanta.
Ma con orgoglio c’è chi la mostra,
Ma con orgoglio c’è chi la canta;
Terra d’onesti, terra di prodi,
Cerca giustizie, non cerca lodi.
Ti chiede, o Italia, se madre sei,
Che il cor ti morda, pensando a lei.
Ella il tuo sangue dagli avi assume,
Ella negli occhi porta il tuo raggio;
Ella s’informa del tuo costume,
Pensa e favella col tuo linguaggio.
Arde di sdegno, piange d’amore,
Parte divina del tuo gran core!
Qual colpa è dunque se non si noma
Milan, Fiorenza, Napoli o Roma?
Pia rondinella, che appender suoli
A’ miei nativi frassini il nido,
Da cielo in cielo stendi i tuoi voli
Sin del Danubio sul verde lido:
E al cor pensoso di due Potenti
Bisbiglia un’eco de’ miei lamenti,
Cader lasciando dal picciol rostro
Un fior bagnato del pianto nostro.
E se Belguardo si fa una gloria
D’accôr la dolce Sabauda Stella,
Col fiore azzurro della memoria
Parla ai due Prenci, pia rondinella.
Per me ad Absburgo, per me a Savoia
Chiedi una patria prima ch’io muoia;
Morire io possa libero e grato
Nei verdi boschi dove son nato.
Per quelle nude mie dolci lande
Possa la sorte farmi indovino!
Che plauso allora, che osanna al grande
Fratello e amico del re latino!
Allor da vero chiusi i gagliardi
Saran nell’ombra de’ due stendardi!
In cima all’Alpi, già vecchio danno.
Le nuove stirpi s’abbracceranno!
Sovra ogni torre, sovra ogni foce.
Di sè rendendo l’aere giocondo,
L’aquila bruna, la bianca croce
Saran due segni di pace al mondo.
Fervor di genti, silenzio d’armi,
Fronde d’ulivo, festa di carmi,
L’animo in alto, questa è l’aurora
Che nel mio sogno balena ancora!
 

MAB

 
Mab vocor atque iocor: nigris me linquere corvis
Gaudeo; subque dio teneros insector amores.
Mentre ai gelidi passaggi
Del crepuscolo s’abbruna
La foresta, e si richiudono
Nelle siepi i tenui fior;
E fan tresca in cima ai faggi
Gli scoiattoli alla luna,
E i mastini intorno latrano
Nello stabbio del pastor’;
Mab, la piccola reina
Delle fate, in veste azzurra,
Che ha per cocchio un guscio d’ebano
E due corvi per destrier’,
Sulla fonte cristallina,
Che fra l’eriche susurra,
All’ombra d’un bianco mandorlo
Va cantando i suoi pensier.
Gira gira la tua ruota,
Bella Parca;
Lancia lancia, buon pilota,
La tua barca;
Passa lieve sul quadrante,
Sfera errante;
Metti nido nel mio core,
Dolce Amore;
Mentre d’astri il ciel s’ammanta,
Noi si canta:
«Da qual madre, a qual ora, in quali sponde
Venni alla vita, indovinar non so.
Nè lo sanno quest’acque e queste fronde,
Nè questa luna, che va pellegrina
Di collina in collina,
E mai del mio natal non mi parlò.
Mi rammento dell’Asia, e vidi i sassi
Di Ninive e di Menfi, e udii nitrir
Il cavallo di Ciro, e a tardi passi
Mirai per le stellate arabe lande
L’aspro cammello e il grande
Dromedario le armate orde seguir.
In margine all’Egeo vidi i misteri
D’Ecate; e nei latini antri l’altar
D’Ilia bendata; e i popoli guerrieri
Spâurir colle truci aquile il mondo,
E lunge il furibondo
Odoacre l’enorme asta agitar.
Quel dì non più nelle romulee cene
D’allegra spuma il calice fiorì,
E di Cinara e Cloe, dolci sirene,
Bagnâr la chioma i molli unguenti invano,
E sul triclinio arcano
Il gemito d’Amor più non s’udì.
Elmi di ferro ed orride zagaglie
Vennero: e i numi non sentîr pietà.
E fu misto l’incendio alle battaglie,
E dalla verde tiberina valle
Le barbare cavalle
Vidi lanciarsi sulla gran Città.
E poi monaci e re chiusi nell’armi
Sorsero, e in cima al mar mi balenò
La rossa croce; e di Sïon sui marmi
Gli emiri in pugna disperata ho visto
Coi cavalier’ di Cristo;
E com’altro già vidi, altro io vedrò.
Ma voi, stelle del ciel, voi foste, o rose,
Voi, glauchi fiumi, il mio profondo amor;
E, se patria o natal mi si nascose,
Le verdi terre, i pampini fiorenti
E il sibilo de’ venti
E il lume ambrosio mi fu vita al cor.
Quaggiù secoli molti ho numerati,
Ma corallo m’è il labbro, ebano il crin:
E di me senza posa innamorati
Sono i falchi dell’aria, i tersi fonti,
Il frassino de’ monti
E il bianco silfo che mi sta vicin.
Questo è il compagno mio. Spirito arcano,
Sempre la notte e il dì canta con me:
Egli sal sul mio cocchio, e andiam lontano
Lontano a interrogar boschi e caverne,
E delle cose eterne
Rapir qualcuna, io gentil dama, ei re.
Ei mi dice che Febo, il biondo e bello
Signor dell’armonia, padre a noi fu,
E mi giura che Marte è il mio fratello,
E gli altri Dei la mia superba corte,
E là dopo la morte
Noi salirem per non lasciarci più.
Anzi sarem due novi astri al notturno
Padiglion dell’Olimpo: ed in beltà
Forse a noi cederan Sirio e Saturno,
I due Gemini, Urano, Espero e l’Orse
E la gran Lira: e forse
Men superba di sè Venere andrà.
Qui frattanto nel mondo è nostra usanza
Chiedere l’ombra a un mandorlo fedel,
O sui rivi intrecciar magica danza,
O sulle fosse dei fanciulli estinti
Falciar rute o giacinti,
Quando scintilla il plenilunio in ciel.
È nostra usanza a mattutino il canto
Spargere nella valle o sul burron,
E di rosso vestita o azzurro manto,
Sempre nel guscio d’ebano, mi piacque
Girar le terre e l’acque,
E dare ai miei fantasmi anima e suon.
Ed ora il guscio d’ebano traete,
Piccoli corvi, al nostro angusto asil;
E voi, stelle del ciel, voi risplendete
Sopra le chiome della selva bruna;
E tu zampilla, o luna,
Sul vestibolo mio sparso d’april.
E tu, Silfo, mi canta; e nel vïaggio
Salvami da procella o masnadier’;
Sferza i cavalli, e coll’ardor d’un paggio
Mordi del roseo pollice il liuto;
O se non vuoi, sta muto,
Ch’io già so quel che pensi, o mio Scudier.
Tu pensi che su morbido guanciale
D’odorate giunchiglie io giacerò;
E tu, acceso, qual sei, d’aura immortale,
Colle tue braccia mi farai catena,
E là, di gioia piena,
Come è mio l’universo, io tua sarò.»
Così Mab cantando, vola
Co’ suoi corvi piccioletti:
Per gli arbusti il bianco Spirito
Curva l’ali e a lei fa vel;
Spuntan fiori in ogni aiuola,
Le falene e gli augelletti
Son ridesti, e sotto l’eriche
Par che canti ogni ruscel.
Oh grandezze, o maraviglie
Della candida Natura!
Quando saltan gli scoiattoli
Delle stelle allo splendor,
Ed un letto di giunchiglie
Fa obliar la sepoltura,
E gli affanni si addormentano
Nelle braccia dell’Amor!
 

PRIMAVERA

 
Isis, vere novo, cunas thalamosque tuetur,
Magna parens.
Primavera non vien fuor che una volta
A fiorir l’anno: e quando
Dal canestro versò l’ultima rosa,
La bella giovinetta in sè raccolta
Parte da noi, lasciando
Un soave ricordo in ogni cosa.
Delle rugiade il pianto
Resta all’alba: alla siepe un fil d’odore:
A qualche gelso un canto
Di solingo augelletto:
E resta all’uman petto
Una malinconia che sembra amore.
Poi s’imbionda la spica
Al povero colono:
Sotto i cocenti lampi
Di Febo s’affatica
Il falciator pe’ campi:
Di plaustri le callaie
Stridono: e, misurato alle promesse,
Ne’ portici e per l’aie
Splende l’ôr della messe.
E tutto questo è dono
Dell’olimpica Figlia,
Che va pellegrinando
Sotto le terre; e non so come o quando,
Dolcemente scompiglia
I piccioletti germi e li conduce
Fuor nella rosea luce.
Indi s’avanza il dio
Che aggioga al carro i pardi:
E fiamme dagli sguardi
Lancian Polinnia e Clio,
Mentre il sacro licor ferve e s’affina
Nell’anfora divina,
E coi corimbi in testa
Menan le madri sul Pangèo la festa.
Poi gialliscon le foglie
E cadono; s’accampa
Di fuor la buffa; e nelle interne soglie,
Mentre luce la vampa
Sui vasti focolari,
Novellando si va di cose arcane.
Ha già varcato i mari
La rondinella: senza vol rimane
Il pecchietto alle siepi, e senza grido
La cingallegra al nido:
Con suo mugolo roco
S’aggomitola al foco
Il can sull’ora bruna
O all’uscio, per entrar, raspa e si lagna,
Fiori di gel sui vetri
Ricama il verno; e gli alberi alla luna
Paiono bianchi spetri
Per l’immensa campagna.
Ohimè! dagli occhi miei
Per clivo o per riviera
Ove fuggita sei,
Fanciulla Primavera?
Come attesi l’amante, al tempo verde
Attendo io te: nè perde,
Benchè tu mi sia tolta,
La sua speranza il cor. Più d’una volta,
È ver, tu, giovinetta
Primavera, non vieni a fiorir l’anno.
Ma quando se ne vanno
L’ultime nevi e spunta
La prima violetta
Cantan tutte le terre: «È giunta, è giunta
La fanciulla gioconda!»
E il riso e il canto abbonda
Per l’acque immense e per gl’immensi cieli,
E in radïosi veli
Sovra il Saturnio altare
Sin la tacita e grande Iside appare.
O Primavera, eterna
Per l’arcana natura
E sì breve per noi, chi ti governa
Il virgineo pensier? chi prende in cura
Le tue sembianze belle?
Da qual poter tu mossa
Vieni beata e vai? Forse tu vivi
Al di là delle stelle,
Al di là della fossa
E in quel campo fiorito
A te ci attendi privi
Di fastidio e dolor schiatta immortale?
Chè in verità non vale
La poca ora di qua tanto infinito
Delirar di dottrine e di speranze.
E queste ambigue stanze
Che per antico danno
Abitiam colla Morte, un dì saranno
Trasfigurate in una
Primavera senz’ombra e mutamento,
Ove nè sol, nè luna
Nè mar d’acque, nè vento
Nè nulla agiterà nostro intelletto,
Tranne il proprio diletto
D’amar senza confine.
Primavere divine,
Io vi sogno sovente: e il sognar mio
Fa che talor nè invano
Son primavera anch’io:
E con gorgheggio arcano
Qui nella mente il rosignol mi geme,
Qui nella mente mi tremola il fiore,
E una fresc’onda preme
E una fresc’aura il core;
E a quanto ascolto e miro
Di grande e di gentile
Con infinita voluttà sospiro
Come a un eterno Aprile.
 

VOCI

 
Arcana interdum fert murmura cerulus aether
Et mare purpureum.
A rallegrarmi l’ore
Che passano veloci,
Misterïose voci
Mi scendono nel core;
E sotto il vecchio saio
E’ tanto mi si affina,
Che torna fresco e gaio,
Com’acqua a le sue foci.
N’è vero, Azzarelina?
Dicon le stelle: «Oh! guarda
Come siam glauche e belle».
Ed io rispondo: O stelle!
La mia pupilla è tarda,
Ma sempre vi ritrova
Nell’aria cilestrina,
Dove nuotar vi giova,
Lucenti navicelle.
N’è vero, Azzarelina?
Dicono i venti: «Schiudi
L’orecchio: o non ci senti?»
Ed io rispondo: O venti!
Melodiosi o rudi,
I vostri suoni ascolto
Al monte e alla marina,
E spesso ho da voi tolto
Le collere e i lamenti.
N’è vero, Azzarelina?
Dicon le rose: «Oh! bevi
Le nostre aure odorose».
Ed io rispondo: O rose!
Comunque incerte e lievi,
Quando più l’ora imbruna
V’ho cêrche a la collina,
E il raggio della luna
A me vi disascose.
N’è vero, Azzarelina?
Dice la fonte: «Irroro
Io le tue labbra al monte».
Ed io rispondo: O fonte!
Pur io, pur io t’infioro
Di libere canzoni
Nell’ora mattutina,
Quando su’ tuoi burroni
Mi batte il sol la fronte.
N’è vero, Azzarelina?
E tutto con me suona,
Ed io del par con tutto:
L’astro, la rosa, il flutto,
Il vento in me ragiona:
E qual da un’arpa immensa,
La melodia divina
Esce, favella e pensa,
E ciò d’un sogno è il frutto.
N’è vero, Azzarelina?
Dunque sogniam. Crudeli
Son gli uomini e le sorti:
Son solamente i morti
Benevoli e fedeli:
E, dopo lor, la maga
Natura, che incammina
Quest’errabonda e vaga
Nostra barchetta ai porti.
N’è vero, Azzarelina?
Sogniam. Di noi sorride
Chi numera e chi pesa,
Ma la villana offesa
È scorpio che s’uccide.
Di là dal nostro verno
Quest’anima indovina
L’aiuola e il fiore eterno,
Che ai più non s’appalesa.
N’è vero, Azzarelina?
I più son erbe uscite
Da margine selvaggio:
Scabre, villose, al raggio
Del sole inavvertite:
E il mandrïan non falla;
Le falcia e le destina
Ai capri della stalla:
E questo è il lor passaggio.
N’è vero, Azzarelina?
Ed or ch’io ti commisi
Il mio fedel pensiero,
Le anella del crin nero
Ti vesto a fiordalisi,
E nel romito speco
Su morbida cortina,
M’è dolce il sognar teco,
Come tu fai. N’è vero?
N’è vero, Azzarelina?
 

INCANTESIMO

 
Magnis parva sonant; resonant et maxuma parvis:
Mensque animusque favent et Dî portenta loquuntur.
La maga entro la rena
Girò, cantando, l’orma:
Con frasca di vermena
M’ha tôcco in sull’occipite
Ed io mi veggio appena in questa forma.
Sì picciolo mi fei
Per arte della maga,
Che in verità potrei
Nuotar sopra dïafane
Ale di scarabei per l’aura vaga.
O fili d’erba, io provo
Un’allegria superba
D’essere altrui sì novo,
Sì strano a me. Deh! fatemi,
Fatemi un po’ di covo, o fili d’erba.
Minuscola formica
O ruchetta d’argento
Sarà mia dolce amica
Nell’odoroso e picciolo
Nido che il sol nutrica e sfiora il vento.
E della curva luna
Al freddo raggio, quando
Nella selvetta bruna
Le mille frasche armoniche
Si vanno ad una ad una addormentando;
E dentro gli arboscelli
Si smorza la confusa
Canzon de’ filinguelli,
E sotto i muschi e l’eriche
L’anima dei ruscelli in sonno è chiusa;
Noi, cinta in bianca vesta,
La piccioletta fata
Vedrem dalla foresta
Venir nei verdi ombracoli,
Di bianchi fior la testa incoronata.
E dormirem congiunti
Sotto l’erbetta molle;
Mentre alla luna i punti
Toglie l’attento astrologo,
E danzano i defunti in cima al colle.
I magi d’Asia han detto
Che quanto il corpo è meno,
Più vasto è l’intelletto
E il mondo degli spiriti
Gli raggia più perfetto e più sereno.
Infatti, io sento l’onde
Cantar di là dal mare,
Odo stormir le fronde
Di là dal bosco; e un transito
D’anime vagabonde il ciel mi pare.
Da un calamo di veccia
Qua un satirin germoglia,
Da un pruno, a mo’ di freccia,
Là sbalza un’amadriade:
E in parto ogni corteccia ed ogni foglia.
Lampane grazïose
Giran la verde stanza;
E, strani amanti e spose,
I gnomi e le mandragore
Coi gigli e con le rose escono in danza.
Del mondo ameno o tetro
Com’è che ai sensi tardi
Mi piove il raggio e il metro?
E nè cornetta acustica
Mi soccorre nè vetro orecchi e sguardi?
Com’è che le mie colpe
Non anco all’olmo e al pino
Latra la iniqua volpe?
Nè il truculento martoro
Mi succhiella le polpe a mattutino?
Sono un granel di pepe
Non visto: ecco il mistero.
L’erba sul crin mi repe,
Ed è minor che lucciola
Nell’ombra d’una siepe il mio pensiero.
O fata bianca, come
Un nevicato ramo,
Dagli occhi e dalle chiome
Più bruni della tenebra,
E dal soave nome in ch’io ti chiamo;
O Azzarelina! in pegno
Dell’amor mio, ricevi
Questo morente ingegno,
Tu che puoi far continovi
Nel tuo magico regno i miei dì brevi.
L’erbetta ov’io m’ascondo,
So ch’è incantata anch’ella;
Nè vampa o furibondo
Refolo o gel mortifica
Lo smeraldo giocondo in ch’è sì bella.
So che, d’amor rapita,
In un perpetuo ballo
Mi puoi mutar la vita
O su fra gli astri, o in nitide
Case di margherita e di corallo.
Sien acque, o stelle, o venti,
Dove abitar degg’io,
Per primo don m’assenti
Il bacio tuo: per ultimo,
Dei rissosi viventi il pieno oblio.
Ascolta, Azzarelina:
La scïenza è dolore,
La speranza è ruina,
La gloria è roseo nugolo,
La bellezza è divina ombra d’un fiore.
Così la vita è un forte
Licor ch’ebbri ci rende,
Un sonno alto è la morte;
E il mondo un gran fantasima
Che danza con la Sorte e il fine attende.
Vieni ed amiam. L’aurora
Non spunta ancor; gli steli
Ancor son curvi; ancora
Il focherel di Venere
Malinconico infiora i glauchi cieli.
Vieni ed amiam. Chi vive,
Naturalmente guada
Alle tenarie rive:
Ma chi è prigion nel circolo,
Che la tua man descrive, a ciò non bada.