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CANTO D’IGEA

(Dall’Armando)
 
A chi la zolla avita
Ara co’ propri armenti,
E le vigne fiorenti
Al fresco olmo marita,
E i casalinghi dèi
Bene invocando, al sole
Mette gagliarda prole
Da’ vegeti imenei:
A chi le capre snelle
Sparge sul pingue clivo,
O pota il sacro olivo
Sotto clementi stelle:
A chi, le braccia ignude,
Nel ciclopeo travaglio,
Picchia il paterno maglio
Sulla fiammante incude;
A questi Igea dispensa
Giocondi operatori,
I candidi tesori
Del sonno e della mensa:
Le poderose spalle
E i validi toraci
Io formo a questi audaci
Del monte e della valle.
Nè men chi si periglia
Coi flutti e le tempeste
Del nostro fior si veste,
Se il mar non se lo piglia:
Nè men chi suda in guerra
Porta le mie corone,
Se, innanzi il dì, nol pone
Lancia nemica in terra.
Ma guai chi tenta il volo
Per vie senza ritorni!
Languono i rosei giorni
Al vagabondo e solo.
Perché, mal cauti, il varco
Dare alla mente accesa?…
Corda che troppo è tesa
Spezza sè stessa e l’arco.
Dal dì che il mondo nacque,
Io, ch’ogni ben discerno,
Scherzo col riso eterno
Degli árbori e dell’acque;
E dalla bocca mia
Spargo, volenti i numi,
Aure di vita e fiumi
Di forza e d’allegria.
Sul tramite beato
Però più d’uno è vinto
Per doloroso istinto
O iniquità del Fato:
Ma può levarsi pieno
Di gagliardía divina,
S’ei la sua testa china
Nel mio potente seno.
Dal sol che spunta e cade
A voi nella pupilla,
Dall’aria che vi stilla
Il ben delle rugiade;
Dai rivi erranti e lieti,
Dal rude fior dei vepri,
Dal fumo dei ginepri,
Dal pianto degli abeti;
Da ogni virtù che il sangue
E il corpo vi compose,
Rispunteran le rose
Sul cespite che langue;
E i liberi bisogni,
Che risentir si fanno,
Nell’ombra uccideranno
Le amare veglie e i sogni.
Salvate, oimè! le membra
Dal tarlo del pensiero!
A voi daccanto è il vero
Più che talor non sembra.
L’uom che lo chiese altrove
Dannato è sul macigno,
E lo sparvier maligno
Fa le vendette a Giove.
In voi, terrestri, mesce
Vario vigor Natura;
Ma chi non tien misura,
Alla gran madre incresce.
Destrier che l’ira invade,
Fatto demente al corso,
Sui piè barcolla, il morso
Bagna di sangue… e cade.
Perchè affrettar l’arrivo
Della giornata negra?
Ne’ baci miei t’allegra,
O brevemente vivo!
Progenie impoverita,
Che cerchi un ben lontano,
Nella mia rosea mano
È il nappo della vita.
 

IN MORTE DI ALESSANDRO MANZONI

I.
 
Dio ti guardi dal dì della lode,
Che ogni labro, ogni cor ti rammenti!
Anco fossi il più giusto, il più prode,
Su te vivo non sorge quel dì;
Converrà che tu polve diventi,
Che tu lasci ogni cosa più cara,
Perché tutti t’assiepin la bara,
Idolatri del dio che fuggì.
 
II.
 
O ALESSANDRO, a te sol fu concesso
Così novo portento di gloria,
Non il capo per anco dimesso
Sul guancial, che risveglio non ha.
Contra l’uso una scabra vittoria
Conseguisti nel mondo Tu solo….
Ma il tuo spirto continua il suo volo
E più ascolto alla Terra non dà.
 
III.
 
Quante larve stupende e soavi.
T’accompagnan nell’ardua salita!
Sacre larve che un giorno creavi
Per Italia e or fan corte al suo re!
Però teco migrar dalla vita
Non potran queste larve fuggenti;
Sigillate nel cor delle Genti,
Sono eterne: son simili a Te.
 
IV.
 
Tu vedesti le altere possanze,
Tu vedesti le orrende cadute;
Seminato hai le verdi speranze
Sulle vie della terra e del ciel.
Poi le corde dell’arpa fur mute
Quando venner le spade e gli oltraggi,
Ma nei giorni o codardi o selvaggi,
Fosti a Italia ed a Cristo fedel.
 
V.
 
Cara e nota allo strano e al natìo,
Fu un altar la modesta tua casa;
Fu il recesso d’un tacito iddio
La villetta che in sen ti serbò.
Là, romito, pensasti che invasa
Non per sempre saria la tua terra,
E, origliando, un accento di guerra
Tu aspettavi da Sesia e dal Po.
 
VI.
 
Lo aspettavi: e un mattino i Lombardi
Dier lo sfratto al fatal Barbarossa:
E tu, fermi al Ticino gli sguardi,
Mormorasti: «Il Sabaudo verrà?»
L’hai veduto: e dall’alma commossa,
Divin vecchio, t’usci questa voce:
«Vien dall’Alpi una candida Croce,
Ecco, Italia, la tua libertà!»
 
VII.
 
Da quel dì quanta storia d’affanni!
Che ritorni alle colpe, ai furori!
La mia voce non sorga e condanni
In quest’ora che insegna a pregar;
Ma tu hai visto, o gran vecchio, i colori
Della Francia venir dal Ceniso,
E i bei giorni del Mincio e l’eliso
Rifiorito fra i monti ed il mar.
 
VIII.
 
Su que’ campi, a quell’ora, in que’ balli,
La tua Patria il tuo Re gli hai veduti!
Poi sentisti d’Arminio i cavalli
Sovra i ponti dell’Elba nitrir:
E poi quanti sul Reno i caduti!
Che terror! che stupor! che destino!,
E poi quanta sul Tebro divino
La speranza del nostro avvenir!
 
IX.
 
Sarà lieto?… O fedel patriarca,
Tu che guardi dall’alto del clivo,
La colomba hai tu visto nell’arca
Dall’abisso dell’acque tornar?…
Hai tu visto la fronda d’ulivo
In quel rostro fiorir più vivace,
E poi chiusi in un arco di pace
Dell’Italia la Reggia e l’Altar?…
 
X.
 
Nobil sogno!… Foss’egli una fede,
O un inganno dell’egra pupilla,
Questo sogno sì dolce a chi crede
Le tue meste agonie consolò:
Fu rugiada che tacita stilla
Sopra un fior che già i lembi ha conserti,
E già s’alza e profuma i deserti,
Che di stelle il Signor seminò.
 
XI.
 
Roma eterna, l’Asil dei Baroni,
Quel di Micca, Fiorenza cortese,
Di san Giorgio e san Marco i pennoni,
Del Carroccio le ardite città;
Son qui tutti, col bruno alle imprese,
Per dar lauri al funereo tuo calle:
E a’ suoi bimbi chi fosti ogni valle,
Ogni terra, ogni borgo dirà.
 
XII.
 
Verecondo tu fosti cogl’imi,
Fosti degno coi Grandi ed umano:
Le parole più dolci e sublimi
Ti sgorgàr dall’ingenuo pensier:
Cittadin d’ogni tempo lontano,
Tu adorasti ogni forma del bello,
In ogn’uom tu vedesti un fratello,
Pur di lingua e di culto stranier.
 
XIII.
 
Dormi, o giusto. Non ira di parte
Sovra l’ossa tue sante si leva:
Degno figlio d’Ausonia e dell’arte,
Uno in tutti è l’orgoglio e il dolor;
E a te, sciolto dai vincoli d’Eva,
Non increscan le pompe del rito,
Non ti turbi, o celeste sopito,
Quest’assalto d’umano splendor.
 
XIV.
 
So che pari a fil d’erba la fama
Si scolora e che tutto è follía;
So che il giusto non cerca e non brama
Che una pace ben lungi da qui:
Ma se un’urna gli spirti ravvia
Ai concordi e solenni pensieri,
Non dolerti, o fìgliuol d’Alighieri,
Che l’Italia si mostri così.
 

Roma 1873.

IDEALE

 
Ingenii custos, si vis tu nata Deorum,
Si vis, non moriar.
Io con te parlo, tu il sai, nell’ora
Che il fatuo foco dentro la valle
La tenue cima de’ giunchi sfiora
E al pellegrino contrasta il calle:
Al pellegrino che, bianco in volto,
Dentro quel foco mira un sepolto.
Io parlo teco, fanciulla, quando
L’alba è vermiglia sulla montagna,
E alla ginestra rileva il blando
Capo e di fresche perle la bagna,
Mentre negli orti la capinera
Canta l’idillio di primavera.
Io con te parlo quando la greve
Aura le foglie semina al piano,
O a larghe falde casca la neve
Sovra il tugurio del mandrïano:
Non spunta giorno, sereno o bieco,
In ch’io, fanciulla, non parli teco.
Parlo negli atrii, lungo la via,
Parlo fra i campi, sotto le stelle;
Geme col vento la voce mia,
Scoppia sonora colle procelle;
Nel santüario, prosteso all’ara,
Sempre a te parlo, fanciulla cara.
Dal grembo d’Eva tu non sei nata,
Nè il crin ti veste rosa mortale;
Tu non hai bruna verga di fata;
Dea dell’Olimpo, non t’armi d’ale:
Dolce, segreto, libero, intero
S’apre il tuo mondo nel mio pensiero.
Tu meco piangi, meco sorridi
Di queste nostre favole oscure:
Le tue speranze tu mi confidi,
Io ti confido le mie paure;
L’ora del tempo del par ci preme,
Cara fanciulla, sognando insieme.
Nel fresco raggio del tuo sembiante
Innamorarmi non mi vergogno;
Coi crin già bianchi, tacito amante,
Io notte e giorno seguo il mio sogno;
Sinché la Parca, forse domani,
Non ne recida gli stami arcani.
Questa parola d’un vel d’affanno
Deh, non t’oscuri l’amabil viso!
In tristi giorni vivere è danno,
Pur consolati dal tuo sorriso;
Eppoi, la gloria d’un grande amore
Meglio si sente quando si muore.
So ben che sopra defunta spoglia
Brevi dell’uomo durano i lai,
Come su pioppo di morta foglia
Canto d’augello non dura assai;
Chè chi dell’oggi segue le larve
Raro sospira su ciò che sparve.
Ma i’ credo e spero che, chiuse l’ossa
In pochi palmi d’aiuola verde,
Tu qualche giglio sulla mia fossa
Darai piangendo; se non si perde
Nell’infinito mar dell’oblio
La navicella del canto mio.
Però, in quel giorno, come tu stessa,
Prenderò il volo per altri mondi;
Tu me n’hai fatto la gran promessa,
E tu, fanciulla, me ne rispondi,
Alto levando la nivea mano
Verso un pianeta lontan lontano.
Dunque, o fanciulla, voghiam sull’acque,
Voghiam cercando quel dolce porto;
S’io t’ho seguita, come a te piacque,
E tu mi guida, felice o morto,
Verso la piaga dove tu dèi
Stringerti meco d’altri imenei.
Bella nocchiera, su questa barca
La tua canzone cantami intanto:
Oh come, oh come lievi si varca
Dietro la nota del dolce canto!
Oh come, oh come tutta s’infiora
Di rose eterne la nostra prora!
China il soave capo tuo biondo,
Angiolo stanco, sovra il mio seno:
Mentre alle mura di Faramondo
Arminio i carri lancia dal Reno,
Dormi, o fanciulla. Meglio è sognare
Sulla stellata conca del mare.
 

Viareggio, 1870.

 

I MIEI VERSI

 
Scandit et, instar avis, cantat super ilice Carmen.
Come un nido d’uccelletti
Che tu senti pispigliar
Sovra i gelsi o in cima ai tetti
Quando allegro il maggio appar,
Van cantando i versi miei,
Bruna figlia di Corfù;
Belli no, come tu sei;
Freschi no, come sei tu.
Van cantando; ed uno vola
Dentro un cespite di fior,
E consegna all’agil gola
L’allegria che chiude in cor.
Dentro i rami d’un cipresso
Si va un altro a rifuggir,
E con murmure sommesso
Dice all’ombra il suo martir.
Sulla barca i patrii carmi
Dice un terzo al timonier;
Canta un quarto amori ed armi
Sulla tenda del guerrier.
E nei lutti e nelle feste
Niun di loro ha nodi al piè,
Nè darebbe la sua veste
Per la porpora d’un re.
San le glorie dell’Egèo,
Sanno il riso del Velin,
Sanno i riti del Pangèo,
Sanno il carme Sibillin.
Or le zuffe dei leoni
Vanno in Roma a celebrar,
Or negli attici odeoni
D’Afrodite il bianco altar.
Con le faune dormon lieti
Tra le mente del ruscel,
O coi silfi nei frutteti
Quando Cinzia arride in ciel.
Se una bianca margherita
Foglia a foglia si disfà,
Sulle sorti della vita
Per saper quel che dirà;
O se a Pasqua gioca al Verde
Una bella ed un garzon,
Essi trillano a chi perde
Dal mirteto una canzon.
Se le lepri a notte aperta
Van danzando in gaio stuol,
O la pallida lucerta
Cerca i sassi a’ rai del sol;
Questi miei pellegrinanti
Fanno gli alberi stormir,
E dai rami arcani canti
Si cominciano a sentir.
E poi van per la campagna
Sui covoni al falciator,
Van seguendo alla montagna
La cornetta del pastor.
Van nell’ombra delle valli
Con le fate a conversar,
Raccontando i freschi balli
Delle naiadi sul mar.
E van sempre, araldi eterni,
Van lontano e più lontan,
Van dal cielo ai foschi averni
E van sempre e sempre van.
O mal cauti, a tanto volo
Non fidatevi così:
Qui nell’atrio afflitto e solo
Io v’attendo e notte e dì.
Non c’è guardia sui confini;
Procellosa è la stagion:
Uccelletti pellegrini,
Deh, tornate al mio balcon!
 

LACRYMAE RERUM

 
Saltem si, rebus fractis, mihi nomina restant!
A voi, fior della terra, a voi, gioconde
Stelle del cielo, i sogni e le speranze
Della ridente gioventù son pari.
Se non che l’astro e il fior passano immuni
Da colpa e da castigo, e noi travaglia
Pur giovinetti una tristezza arcana,
Quando parliam col limpido pianeta
E colle rose.
Sulla verde cima
Delle mie rupi, in margine a’ miei laghi,
Nel silenzio dell’ombra, oh! quante volte
Piansi pur io fanciullo, il ciel mirando
Pien di tremoli fochi o il sottoposto
Pendio stellato di silvestri gigli
E di pervinche!
In verità, si piange
Dunque nel mondo, e sin la primavera
Ha le lacrime sue. Forse non solo
Piangon gli occhi dell’uom, ma la pupilla
Pur dell’avida belva il pianto oscura.
Mai non vedesti, Elisa, un errabondo
Can, che ha smarrito il suo signor, corcarsi
Malinconico in terra? O sotto l’ala
Piegar la testa un povero augelletto
In gabbia d’ôr? Dai perfidi spiragli
Il bel verde de’ campi e il cielo ei guarda,
E la perduta libertà sospira.
Tutte piangon le cose; e i petti affanna
Ciò ch’è nato a perir.
Voi che venite,
Pellegrini del mondo, a questa Roma,
Non per recar nelle native terre
Qualche santo rosario od amuleto,
Ma per chinarvi a interrogar la spoglia
Dell’olimpico Lazio, il pianto vostro
Colle rugiade dell’eterna luna
Qui spargerete, e in qualche ermo cespuglio
Del Palatin la capinera al vento
Lancerà la sua nota.
Or io mi levo
Sulle alture del Celio, e mentre l’ôra
Nei sacri mirti come fa, si tace,
Pellegrini del mondo, a voi favello:
Questa Roma di Dardano, per molti
Rischi di terra e mar, seco ha recato
Colle ceneri d’Ilio il suo destino.
Qua giunse larva nel pensier d’Enea,
E qua crebbe e regnò. L’arido bruco
Nel novilunio suo non altrimenti
Fatto è farfalla. Un’intima possanza
Trasfigura le cose, e dalla morte
Nasce la vita, ed ambedue compagne
Van per la terra, altar di maraviglie
E di ruine.
Ma perpetuo il falco
Garrisce al monte, ma s’abbraccia il Sole
Col perpetuo nettuno e col deserto,
Mentre l’ora dell’uom va più veloce
Che non la rota della sua fortuna
Senza ritorni.
Virïate, il prode
Fulminator dai cantabri dirupi,
Come passò? dov’è l’asta di Brenno?
Dove il biondo cherusco e l’implacato
Cartaginese?
Io per le ripe indarno
Cerco Cesare nostro e le vestali
E i pontefici sacri: odo il galoppo
Del caval d’Alarico, e penso e piango,
Pellegrini del mondo, insiem con voi!
Figlio d’Italia, in vetta alle nevose
Mie tirolesi balze ebbi la cuna
Come il camoscio, e le varcai cantando
Fra’ miei vecchi pastori.
E ancor la squilla
Delle mandre disperse alla boscaglia
Nel cor mi suona, e dalle chiese alpestri
Gemere ascolto il passero solingo,
E rivedo le vie che i battaglioni
Vider di Francia ed or sotto l’accesa
Ferza canicular son traversate
Dal fulmineo ramarro.
Agile e fresca
Allor ne’ polsi mi correa la vita
E nello spirto: allor caro soltanto
M’era il mio borgo, e mi parea più noto
Che non il Tebro, eredità di Giove,
Il più ignoto ruscel delle mie valli.
Oggi, affranto le membra e misto il crine,
Me condusser le Parche alla fatale
Città d’Ascanio; ed ospite pensoso
Odo dalle disfatte are il lamento
Dei numi d’Asia, e porto, a quando a quando,
Sul Gianicolo sacro o l’Aventino
L’alte malinconie del dì che fugge.
 

MORBI

 
Agrescunt animi, vel corpora: morbus et ipsa Mens est.
«Malato è l’uomo di parecchio male»
E l’aspra verità tutti ci smaga.
La miglior delle cure in questo mondo
È il non curar. Ricacciami, o fantesca,
Il medico alla porta; udir non voglio
Favole al letto mio. M’urge la tosse?
Berrò tepido tiglio. Ho le tonsille
Chiuse? Datemi ghiaccio. È il ventre in doglie?
Non mangerò. M’assalgono i ribrezzi
Della quartana? Ebben moltiplicate
Sovra il povero mio corpo che trema
Coltri e piumacci. Assai furono incise
Le mie vene già tempo; e un zinganume
Di farmachi passò per questa mia
Casa di creta. Se al martel degli anni
Or la casa comincia a screpolarsi,
Che far ci posso?
Ed anco all’intelletto
Salgon del corpo i mali. Alcun ci narra
Un triste sogno e ci turbiam: se il gufo
Canta sui fumaioli, ha da colpirci
Qualche infortunio. E a quei della natura
Confondiam di sovente i mali nostri:
Strani amor’ senza gloria e senza pace,
Strane idee senza freno, ond’han poi vita
Cabale, ubbie, malurie e un indefesso
Gioco di spettri: e ci ostiniam la colpa
A versar non su noi, ma sull’iniqua
Fatalità: gli arguti!
I morbi vanno,
Ospiti come son di ogni dimora,
Del pari all’alma: ove non sia di questi
Il primo nido.
Un dì, povero pazzo,
Versai lacrime anch’io per mal d’amore
E ululai sulle sabbie o in riva al mare,
Vagabondo lipomane; e ne’ sogni
Mi si corcò sull’anelante petto
Il salvanello: anch’io tenni per sacro
Quanto mi disse, in fe’ di galantuomo,
Il gabbamondo; e mi restò l’inganno
Come stampo di foco entro il cervello
E ingiallii di corruccio. Il mal del grullo
Questo si chiama. E mozzerai la mano
Pria di far beneficio: in tetra gleba
Tu spargi un seme da cui certo nasce
Foglia di tosco. Nè per esser mite
Scorda gli schermi: fra l’agnello e il lupo
Non c’è patto qual sia: far l’uom del pari
Vidi coll’uomo: chi ha più duro il pugno
L’emulo atterra e son contenti i Numi.
Ed io, ciuco! mirando il rugiadoso
Fior della siepe, o la notturna stella,
O il zampillo dell’acque, o in orïente
La rosea luce, spiriti benigni
In servigio dell’uom, che inferno è questo,
Sclamai, dipinto in sì leggiadre forme?
Oggi però, con lepido sorriso,
I nomi appulcro alla saturnia prole
E fo spallucce e più non mi dispero.
Fors’è pur questo un morbo: e non di manco
Ne so la cura; e vo pellegrinando
Fuor della turba a ritornar poeta.
Ma a quanti amici miei son fatti bianchi
Nell’affanno i capelli: e a testa china
Passan, com’ombre, per l’amara valle!
Ridete, amici: il mondo è sempre stato
Pari a se stésso: un bindolo da forca
Che fa gran cose. È ver ch’egli a’ più destri
Lambe le cuoia e i suoi più rari uccide:
Ma come il coccodrillo a compensarli
Quindi li piange. Non vi par codesta
Gentil mercede? All’asino la soma
S’addice, al savio il ben usato ingegno,
Se c’è savio quaggiù sotto la luna.
Vorrei quasi gridar: bravo a chi mente
E scampa da rossor; bravo a chi ruba
E scampa da bargello; e sette volte
Bravo a chi sa giuocar dentro a quest’acque
Con l’altrui barca e il suo nemico affoga
E commisera in porto il suo nemico.
Chi ha più dura la man l’emulo atterri
E sien paghi i Celesti. Ora son pochi
I mali miei: qualche innocente stizza,
Che mi dà chi compila e chi rivende
La farina ghermita all’altrui sacco
E con ciò si fa dotto: o raspa e becca
Sin che balza superbo alla curule,
E sa l’arte dell’arte e al volgo piace.
Qualche malinconia che colle nubi
Viene e col sol dilegua, antica e cara
Mia poetica insania: un tedio breve
O un lungo sonno a udir sempre e poi sempre
Le stesse ciancie ed a veder che in nulla
Ciò turba i nervi ai simulacri e ai bronzi
Che stan sulle colonne. Il resto è cosa
Di nessun conto. Se non ho valsenti
Non mi cruccia pensar com’io li spenda;
Se più su non salii, son franco almeno
Dal capogiro: l’unica rancura
Che mi morde talvolta insino all’osso
È non poter scordar quest’alfabeto
Che mi scema il piacer d’essere un’erba
Sconosciuta, fra tanto italo fiore.
Candidi amici, ripetiam sovente:
«Malato è l’uomo di parecchio male
Nè poi certo è il guarir.» Per consolarmi
Io conchiudo cosi: Tre son le Parche:
Una fila, una tesse, una recide;
E quest’ultima, parmi, è la più saggia.
Di là riposerem; l’Ade ha due regni:
L’Eliso e l’Orco: il primo apresi ai rari
Ch’ebber l’aura di Giove; all’altro in seno
Cade la ciurma che dal fango è nata.
Ma poi, comunque sia, dolce è il riposo.
 

BRINDISI GRECO

 
Tuque, tenace pater, nunc adsis: ter pede terram
Tundite nunc, pueri: fugiunt super aequora Persae.
D’Ismara quando
L’oro, sprillando,
Sotto la spuma
Si torce e fuma
Nel mio bicchier;
Col sole in fronte
D’Anacreonte,
Doventa allegro
Fino il più negro
De’ miei pensier.
Nel dorio nappo
Mi sprema il grappo
La tua di rosa
Man rugiadosa,
Fanciullo Amor;
E questo crine,
Sparso di brine,
Nel dolce rito
Vedrai vestito
D’idalio fior.
E nell’arcano
Simposio, in mano
La sacra conca
Dove si cionca
Per la beltà;
Nonchè i volanti
Felici istanti
Quei della pira
La lesbia lira
Mi tarderà.
Sento alla chioma
L’aura di Roma;
Ma i rosei carmi
Di Milo ai marmi
Sempre io darò.
Me il doppio ha vinto
Mar di Corinto;
E Tespi e l’onda
D’Imetto bionda
Scordar non so.
D’ognun sul labro
Suona il Velabro,
Suona Laurento,
Suonan le cento
Vestali e i re;
Ma più le belle
Driadi sorelle
Danzanti in giro
Pel verde Epiro
Piacciono a me.
Nei pepli chiuse,
Salvete, o muse;
Salvete, o fiumi,
Di ninfe e numi
Cuna ed altar;
D’Antella in vetta,
Salve, o diletta
Lacena prole,
Gloria del sole,
Festa del mar.
Baia divina
Di Salamina,
Quand’io son teco
L’aura d’un Greco
Parmi vestir:
Vivo giocondo
Nel greco mondo,
E con un riso
Del greco Eliso
Vorrei morir.
 

PACHITA

Adpropera quo fata vocant: te regna sequuntur.
I
 
Su un pilastro deposto il sonoro
Tamburino, e le bende sue d’oro
Alla chioma intrecciando, sentì
La leggiadra Pachita assai cose
Da un gentil caballero: e rispose
Finalmente l’arguta così:
«Caballero dell’alta Aragona,
Se aver brami la nostra persona,
Tre fatiche tu devi compir.»
«Bruna fìglia dei cantabri lidi,
Parla sempre e parlando sorridi;
Le fatiche noi stiamo ad udir ».
«Caballero, se il braccio ti vale,
Non concètto da grembo mortale
Qua tu devi condurci un destrier».
«È l’inchiesta terribile e nova,
Ma l’hai detto e siam pronti alla prova
Per far pago il bizzarro pensier».
«Caballero, c’è un’altra fatica:
Qui recarci tu devi una spica,
Non sui campi, ma nata nel mar».
«Strana molto è l’inchiesta seconda,
Che niun semina o miete nell’onda,
Pur la spica giuriam di recar».
«Caballero, se ciò ti conviene,
Qui condurci tu devi in catene
Quel superbo Don Pedro tuo Re».
«Questa è poi la più rea delle imprese,
Ma chi t’ama è tremendo e cortese;
Noi trarremo Don Pedro al tuo piè».
«Do tre giorni a ogni prova e t’aspetto;
Batti a notte tre volte al mio tetto,
Io la porta ad aprir ti verrò;
E nell’ultimo di senza fallo
Le mie nozze otterrai, se il cavallo
E la spiga e Don Pedro vedrò».
Col piè breve stellato d’argento
Detto questo, girossi nel vento
La Pachita dei cembali al suon.
E per selve, per borghi e cartelli
Ascoltavan le aurette e i ruscelli
Di Pachita la gaia canzon.
E il gentil caballero frattanto,
Fosse mesto o pentito del vanto,
Nè sapesse a che termine uscir,
Gìa pensoso all’aperta campagna,
Nè quel vago giardin della Spagna
Dava tregua ai cocenti sospir.
 
II
 
Sul terzo vespro Pachita invero
Della bizzarra celia stupia,
Pur sull’intrigo del caballero
Le galoppava la fantasia,
Nulla aspettando. Ma in questo mentre
Dati alla porta tre colpi udì;
Quindi una voce: «Da mortal ventre
Il non concètto cavallo è qui».
Ell’apre e vede di marmo bianco
Come scolpito fosse in Corinto
Nè certo sceso da mortal fianco
Il bel cavallo di Carlo Quinto:
Fosse comunque, l’ardito ingegno
Ella del ladro molto lodò,
E il caballero, d’ossequio in segno,
Curvo un ginocchio, si congedò.
Dopo tre giorni facea gran vento,
Facea gran pioggia: ma irrigidita
Senza pur anco dare un lamento
Al suo balcone sedea Pachita:
E già tremava sul dubbio arrivo,
Ma udì tre colpi, corse ad aprir….
E alla Pachita d’un foco vivo
Le belle guance si ricoprir.
«Dolce mia dama, poco or mi resta
Per ch’io consegua la vostra mano,
Ecco la spiga che mi fu chiesta
Non tolta ai campi ma all’oceàno.»
Ed ei di perle straniere al mondo
Trasse una spiga che la stupì,
Poi con un riso lieto e profondo
Il caballero se ne partì.
D’amor frattanto Pachita accesa
Nei dì seguenti non ha più pace:
«Ahimè alla terza nefanda impresa
Perché ho tentato l’anima audace?
Cavallo e spiga certo ei mi diede,
Ma il Re in catene come il potrà?
E se ciò manca, m’è indizio e fede
Che queste nozze Dio non vorrà».
Così dicendo venia la sera
Ultima; e in cielo sorgea la luna:
E di Pachita per la costiera
La insofferente pupilla bruna
Giva spïando se mai vedesse
O poca o molta gente arrivar,
O almen due soli; ma dalle spesse
Macchie sol uno vede spuntar.
Quest’un conosce che incerto e lasso
Alla sua porta sosta e non batte:
Ella raddoppia, poi frena il passo
E una gran pugna fra sé combatte:
Vado?… non vado?… Ma poi… che temo?
Tra noi, dirassi, celiato fu;
E dopo alquanto che riso avremo
Chiusa la porta nol vedrò più.
Scese ed aperse: «Chè non picchiasti,
Bel caballero?» «C’era un imbroglio;
Le mani ho avvinte.» «La celia basti;
Cavallo e spiga render vi voglio».
Dolce mia dama, l’istante vola,
Io le tre prove compiute ho già;
Don Pedro è in ceppi: tien la parola
Il Re Don Pedro quando la dà».
Qui ginocchiossi. l’aria dei viso,
Degli occhi il lampo, l’augusta voce
Ruppe il mistero: con un sorriso
Ella da terra lo alzò veloce
Poi tutto tacque. Don Pedro a Corte
Per quella notte non ospitò,
E dopo un mese, cangiando sorte,
Di Spagna al trono Pachita andò.