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DISTRAZIONE

 
Quand’ardo intento e fisso
Nel vagheggiato arcano,
E i lucidi fantasimi
Sorgono a mano a mano
Dal ben tentato abisso
Dell’alma e del pensier,
Se mi spïasse il mondo
Sfallir la giubba, i cheti
Libri scompor, la cabala
Segnar sulle pareti,
D’un risolin giocondo
Mi schernirebbe in ver.
Distratto, a un dio di gesso
Or la ceffata accocco,
Or dell’inverso zigaro
La viva brace imbocco,
Spesso il cappel, più spesso
La testa obblìo così,
Che se le tempia rotte
Non vanno al muro è un caso.
Quindi il sedil mi sdrucciola,
O mi s’inchiostra il naso,
O aspetto il sol di notte.
O accendo i lumi il dì.
Se varco in tra la gente
Col capo nelle stelle
Urto l’incauto gomito
All’anca delle belle,
O pesto irriverente
D’un senator sul pié.
Con petulanza rea
Non bado a chi mi bada,
Fo soste, e girigogoli
Serpeggio per la strada;
Così l’intenta idea
Domina i sensi in me.
Come di fuor son degno
Del cittadino scherno!
Però, sepolti fervono
L’opra e l’affetto interno,
E nella mente io regno
Come in mio proprio ostel;
E a sentir meglio imparo
L’ore felici e corte,
Gli arcani amor, le lacrime,
La verità, la morte,
Quanto ha d’immenso e caro
La breve terra , e il ciel.
Così son nati i canti
Da quella strana incuria,
Che par demenza all’anime
Da fondaco e da curia;
E ai glorïosi amanti
Di poca polve d’òr.
Deh! segui il tuo viaggio,
O mente pellegrina.
Meglio che un cor da feretro
E un senso da fucina,
Lo schietto ardir selvaggio
Il canto ed il dolor.
Siam nati in cima ai monti,
Casti e sereni alberghi,
Dov’è costume incognito
Tanto piegar di terghi,
E umilïar di fronti,
E cupido mentir.
Non è di noi, distratti,
Il mondo e la sua gioia,
Ma neppur l’ansie e il fracido
Riso, e il cader di noia,
Cadaveri disfatti
Avanti di morir.
Noi per le nostre selve
Fieri squillando il corno,
Sotto gli acuti crepiti
Del pino a mezzogiorno
Per rompere alle belve
L’audace corsa, o il vol,
Noi liberi, e raminghi
Su per la frana ombrosa
Colà scontrando i balsami
Della montana rosa,
O agli atrii casalinghi
Il veltro e il rosignol,
Noi non attrae la viva
Gemmata aurqa de’ balli,
Nè il petulante strepito
Di cocchi e di cavalli,
Noi per deserta riva
Pensosi viator;
Ma ben ci allegra e pasce
L’interïor mistero,
E in quella sacra, tenebra
Muti adorando il vero,
L’agile carme nasce,
Come da sterpo il fior.
 

Torino, 1851.

AL MIO PICCOLO ORIUOLO

 
Macchinetta gentile,
Che la vita e la morte
In tuo tacito stile
Misuri all’uom, qual sorte
Nel tuo breve abitacolo
Oggi tornar ti fe’?
Smarrito, o in man del ladro
Già ti credei , mio vago
Orivolin leggiadro.
Reminiscenza e immago
Di lieti dì, che l’indice
Tuo numerò per me.
Quando m’accorsi appena
Del maladetto evento
L’alma di cruccio piena
Stetti; e poi dissi al vento
Le male voci; e il vedovo
Frugai nicchietto invan.
Dagli iracondi sfoghi
Pur non traendo frutto,
Rifeci in mente i luoghi,
Mi ripalpai per tutto.
Ma sol pilucchi e collera
Strinse la vacua man.
Pensai che sull’aurora
T’armai le corde, e presi
Per te commento all’ora
Meridiana, e scesi
Teco a rifar la tessera.
Del tempo che volò.
Pensai che su me chiusa
La giubba e il ferraiuolo,
Colla selvaggia musa
Uscii romito e solo,
E che non piè, nè gombito
Di ladroncel m’urtò.
Dov’eri or dunque? L’ale
Forse tu avresti messo
Però che sai da quale
Tristezza io giaccia oppresso
Quando ti guardo, e rapida
Veggo passar l’età?
Lieve fuggendo, teco
Forse avrai detto; «Or resti
L’amico nostro al cieco
Tempo indiviso; i mesti
Occhi a un quadrante io dubito
Che più non volgerà.
Così gli erranti sogni,
Le fantasie canore,
Coi rigidi bisogni
Delle fuggevoli ore
Non urteranno; e al mobile
Cocchio de’ suoi pensier
Dato in balia, men negre
Vedrà passar le cose,
E forse con allegre
Man fia che spanda rose
Sulle milliarie lapidi
Del suo mortal sentier.»
Grazie ti rendo, amico,.
Se ciò pensasti. Intanto
Riedi al tuo nido antico,
Tu mio compagno al canto,
All’ira, al tedio, al giubilo,
All’opra ed al dolor.
Tu m’aspettavi, o mio
Fedel, nella soletta
Stanza, posto in oblio.
Or dunque in premio accetta
Del tuo cortese attendermi
Questo fermaglio d’òr.
Perdona, se la bella
Tua libertà tu perdi
Nella stagion novella;
Ma è cauto, ai dì men verdi,
Quando ogni laccio allentasi,
Gli amici incatenar.
Così più forte nodo
Avessi a Erina ordito!
Che in miserevol modo
Tu non m’avresti udito
Lungo le insonni tenebre,
Frequente sospirar.
Sta meco sempre. E poi
Che di perpetui affanni
Vittime ree siam noi,
Per tanti miseri anni.
Tre sole ore, ti supplico,
Consentimi gioir.
Dammi, coll’ora prima,
L’amor d’una cortese;
Coll’altra, i ferri lima
Del mio gentil paese.
E da quest’ombre insegnami,
Coll’ultima, a partir.
 

Torino 1851.

IN MORTE DELLA FANCIULLINA
LIDIA VAGLIENTI ALLA MADRE

 
La tua bambola vezzosa,
Che giornate ebbe sì corte,
Sai tu, madre, ov’ella posa
Fuor del secolo infedel?
Non in braccio della morte,
Non sul letto della tomba:
La tua piccola colomba,
Guarda, o madre, è là nel ciel.
Là nel ciel, che ti sorride,
Del tuo pianto afflitta appena;
Là nel ciel, che si divide
Cogli arcangeli e con te:
Dove l’aria è tutta piena
D’armonie, di gioia immensa;
Dove al mondo ancor si pensa,
Ma ove noto il duol non è.
Cessa, o Madre, il tuo lamento.
Ella uscì da un tristo nido,
Ove il riso è d’un momento,
Poca e mesta la virtù.
Non cercarne il dolce grido
Nella vedova tua stanza;
Solo in larve di speranza
Rivederla ancor puoi tu.
Quando i fior, giocondi figli
Nasceran di primavera,
Tu ornerai di rose e gigli
Il suo freddo letticciuol;
E dagli astri a te leggiera
Volerà la tua bambina,
O coll’aura pellegrina,
O confusa a’ rai del sol.
E una notte, sulla cuna
Lacrimata e solitaria,
Quando al lume della luna
Imperlando il ciel si va,
Tu vedrai calar per l’aria
La tua Lidia ancor più bella;
E il suo labbro una novella
D’allegrezza a te darà.
« Apri gli occhi! È sceso meco
« Il tuo premio, o madre amante!
« Io quest’angelo ti reco,
« Cui sorella Iddio mi fe’;
« Ti dimentica un istante
« I miei ceri e la mia bara:
« Fagli festa, o madre cara,
« Come in ciel la fanno a me.»
Tu, di giubilo rapita,
Così fuor del mortal uso,
Sentirai d’un’altra vita
L’ebre viscere tremar;
E del gaudio in te mal chiuso
Suonerà l’allegro tetto,
Come al giorno benedetto
Delle nozze e dell’altar.
 

Torino 1851.

TEDIO E PRIMAVERA

 
La cingallegra canta
Sul ramuscel natio,
Che april di verde ammanta.
Con dolce susurrio,
Come un’argentea zona,
Brilla fra l’erbe il rio.
La sua natal canzona
L’errante savoiardo
Sulla gironda suona.
Esce un acuto dardo
Tinto d’ebbrezza arcana
Da ogni virgineo sguardo.
Qual cervo alla fontana,
S’abbevera d’amore
Tutta la stirpe umana.
Sol io, sol io nel core
D’ogni terrestre gioia
Ho disseccato il fiore.
La solitaria noia
M’assalta, come fiera,
E la sua preda ingoia.
Oh, allegra primavera,
Come oramai mi sento
Altro da quel ch’io m’era!
All’occhio infermo e lento
Si semina di stelle
Indarno il firmamento.
Son dissipate ancelle
Dalla nativa casa
Le mie canzon più belle.
L’alma di tedio invasa,
Vinta a nefande lotte,
È come selva rasa,
Sulle cui piante rotte
Riposa il ladro, e rugge
Il vento della notte.
La mia ragion si strugge
In campo d’ombre; e il senso
Fin del dolor mi fugge.
Or che son io? che penso
A questo mondo in faccia
E a questo cielo immenso?
Ferrea catena allaccia
Lo spirito infinito
E le impotenti braccia.
E son nocchier smarrito
In barca, che si spezza
Per mar che non ha lito.
Dell’onde sull’altezza
Il Tempo mi deride
E a disperar m’avvezza.
Perché, perché mi stride
La livida tempesta
Sul capo e non m’uccide?
Ahi, la mercede è questa
Del vagheggiato sole,
Che m’è sepolto in testa!
Sulle innocenti aiuole
Io seminai sospiri,
E non mietei che fole,
Ah, nei suoi vasti giri
Altro non è la terra
Che un astro di martìri,
Dove si piange ed erra,
Sin che una zolla breve
O un sasso vil ci serra!
Nè la cadente neve,
Nè la nascente rosa,
Nè l’aura fresca e lieve,
Nè fama gloriosa,
Nè dei rimasti i lai,
Nè ogni creata cosa,
Nè il vasto ciel co’ rai,
Nè il mar colla sua voce
Ci sveglierà più mai.
Questo è il pensier che coce,
Questo è il calvario orrendo,
Questa è l’orrenda croce.
Io già su lei mi stendo,
E nell’iniqua fossa
Pria di morir discendo.
E queste polpe ed ossa
Si disfaran, siccome
Fronda dal ramo scossa.
Or che mi giova un nome
E un maledetto alloro
Sulle tradite chiome?
Sogni e fantasmi d’oro
Il mio guanciale han cinto,
Dovrò sparir con loro.
E sul caduto estinto
Sorriderà la morte,
Come al cader d’un vinto.
Oh, mie superbie corte,
Un’ombra inerme io sono,
E mi credeste un forte?
Oh, mente mia, che in trono
Un dì seder ti parve,
Sei vanità di suono!
Oh, mie celesti larve
Dell’anima fanciulla,
Quando da voi disparve
La luce della culla,
Voi mi lasciaste adulto
Col mio saper che è nulla!
Studii del mondo occulto,
Baldanze del pensiero,
Io vi beffeggio e insulto.
Trista rugiada è il vero:
Altro non nutre e pasce
Che il fior del cimitero.
Beato è chi non nasce,
O generato appena,
Muor nelle bianche fasce!
Ah, su quest’empia arena
D’esilio e di peccato,
Sola una larva è piena
Dei raggi del creato:
La larva che matura
Sotto uno sguardo amato!
Larva che poco dura,
Ma che di fior coperti
Ci mena in sepoltura,
Della sua mano i serti
Trasformano in altari
I funebri deserti.
Ella gli spasmi amari
Del tormentato ingegno
Rende soavi e cari.
Ella di Dio dà segno
In questa buia chiostra
Dove ha Satàno il regno,
Deh, se il mio cor si prostra
A’ cenni tuoi, gran Dio,
Deh, per pietà mi mostra,
Scossa dal lieve oblio,
La dolce larva ancora
Del paradiso mio!
Dai vesperi all’aurora
Ben io la sogno, e l’alma
Come il pensier l’adora.
Simile a nivea salma,
Ella talor mi brilla
Per notte azzurra e calma.
Talor la sua pupilla
Il solitario foco
Dal cor mi dissigilla.
E allor celeste è il loco
Dond’io la guardo e tremo,
Divino è il tempo e poco.
Allor l’inerte e scemo
Vigor mi torna, e sento
Tutto il mio ben supremo.
E in mute ebbrezze intento,
Fuor che il pensier, che l’ama,
Di me tutt’altro è spento.
Nulla il mio cor più brama,
Perché rapito in lei
Altri che lei non chiama,
Nè ben narrar potrei
Se sien di morte o vita
I rapimenti miei.
Ma so ch’è una romita
Gioia profonda e strana,
Ch’io non ho mai sentita.
E forse ancor l’insana
Mente delira, e crede
A una fredd’ombra e vana,
Ombra che vola e riede,
Ombra che inutil vive,
O ad altri amor dà fede.
Cocenti e fuggitive
Ore del nostro sogno,
Perché si piange e scrive?
Penna, che invan rampogno,
Perché non ti rifiuti
A questo reo bisogno
Lampa, che guizzi e muti
Gli ermi chiarori tuoi,
Perché non mi saluti,
Perché morir non vuoi?
Segni d’inchiostro informi,
Perché vivete or voi?
Mente, perché non sciormi
Dalle malíe fallaci?
Pensier, perché non dormi?
Cor mio, perché non giaci?
Taci, indignata musa:
China la testa e taci.
La fantasia confusa
Cinta è d’angoscia e d’ira,
Come caverna chiusa,
Dove il lion s’aggira,
O dove, occulta a tutti,
Crepita ardente pira.
Ah! del pensiero i lutti
Lo rodono e lo sfanno,
Come la nave i flutti!
E l’uom, vivente inganno,
Altro non sente alfine
Che il suo pensier tiranno.
E voi, nelle divine
Aure del ciel, che fate,
Perpetue pellegrine
Prima dell’uom create,
Stelle d’arcane tempre?…
Ah! voi di là ruotate
Sull’uom che sogna sempre!…
 

A UN ROSIGNOLO

 
Covato nel materno
Nido, spuntasti al dì. La molle piuma
Ti crebbe al mite april. Modesto e solo
Nella selvetta canti,
Fantastico usignuolo,
Canti all’alba, alla luna, al mezzogiorno,
Or lieto, ora dolente,
Se è ver che la natura,
Come t’ha dato la canzon d’amore,
Ti desse il cor che sente:
Così, simile al fiore,
Alla notturna luccioletta e al vento,
Vita gentil, tu nasci,
E vai cantando. Vai
Via della terra; e forse
Nulla comprendi, o sai.
Quanta del nostro seme
Parte che pensa e geme,
Rosignol fortunato,
Vorrebbe al par di te, cedere al fato!
Vorrebbe, e non l’è dato,
Chè ’l pensier l’affatica e il duol la scarna,
E ’l tempo immane e morte la spaventa,
Però che la comprende;
Anzi par che la senta
Prima ancor del suo dì. Tu sulla verde
Tua frasca mattineggi;
E non vedi che ’l ciel, le ripe intorno
E il pastor colla mandra, a cui non badi;
Chè te possiede il canto,
Tua legge antica. Intanto
Battagliano i mortali
Sopra ogni plaga. In ciel qualche pianeta
Consumando si va. Simili a foglie
Cadon le umane vite. E indifferente
Le insepolcra l’obblio.
E la speme e l’error diversamente
Mena le turbe. Addio,
Addio cantor soave.
Forse diman morrai privo d’affanno,
E di sgomento. E il breve
Loco de’ tuoi riposi
Ignoreran le genti.
Di te chi mai s’avvede?
Nè il bosco rimarrà senza tuoi pari,
Nè l’alba, nè la luna
Senza i gorgheggi usati.
Ahi! perché v’ami alcuna
Alma gentil v’è d’uopo,
Augelletti dell’aria,
Perder la libertà: dal colorato
Carcere alzar la voce, e a chi vi pasce,
Il tedio consolar del dì che fugge.
Allor carezze e baci
Di bimbi e verginelle
Vi piovon sopra. Chè l’avara schiatta
Nulla dà mai per nulla.
Nè forse il duol vi preme
D’essere in ceppi! Ignoto
V’è dunque il lutto della terra nostra?
Veracemente? Io ’l credo,
Perchè le melodie voi neghereste
All’uom che v’imprigiona.
O forse a voi natura
Più che a noi, generosa indole dona?
Ah! no. Non è la prole
Dell’uom cui pianga o rida
Il vostro canto. È quest’arcana immensa
Beltà dell’universo.
Oh rosignol, divino
Flauto de’ boschi, avessi
I tuoi notturni carmi,
Come ho l’aura immortal del mio destino.
Chi per selva, o cittade
Disamar mi potría? chi somigliarmi?
Ma desïar che vale?
Io non ho le vostr’ale,
Nè voi le mie. Cantiamo,
Augelletti, cantiam, finchè la scura
Notte chiuda su noi l’ultima porta,
E Dio trasformi questa poca e morta
In immortal natura.
Allora, allor soltanto
Volo perpetuo e canto
Avremo e libertà. D’ira e di frode
Troppo ci mette in gara
Quest’aiuoletta avara,
Che dalle savie lingue ha poca lode.
 

IL DUBBIO

 
Là di Lutezia assisi
In un fiorito parco,
Caldi dal nappo i visi,
D’Egina il bel Nearco,
Sir Dunistan brittannico,
Il polonese Ermano,
E Pedro il cordovano
Fean brindisi all’Amor.
L’Anglo sclamò giocondo:
– Viva di Kent la rosa.
Vince ogni donna al mondo
La mia futura sposa.
L’occhio cilestre ha simile
All’onda de’ suoi laghi,
Biondi i capelli e vaghi
Come la luce e l’or. —
– Viva, sclamò l’Ibero,
Il fìor d’Andalusia.
Nessuna ha il piglio altero
D’Alma, la vergin mia.
Le cade il crin sull’omero
Come la notte bruno,
Passa e non cura alcuno,
Ma le son tutti al piè. —
Quel di Polonia alzando
Il nappo arrubinato,
– Dal dì, sclamò, che al bando
Lo Czar m’ha condannato,
Geme in Varsavia un angelo
Sotto virgineo velo,
Sì altero e pio, che in cielo
Uno simil non v’è. —
E l’Eginese: – O stolti,
Vedeste Argia d’Atene?
Qual de’ femminei volti
Al paragon le viene?
Cinzia una volta e Venere
D’Egeo sonaron l’acque,
Ma quando Argía ci nacque
L’inno alle Dee finì. —
Dai paragoni offeso
Ciascun nella sua cara,
L’onor vantonne. E sceso
Nella seconda gara,
L’un punse l’altro. E avrebbono
L’armi fors’anche tratto,
Ma quel di Spagna a un patto
Gli ebri discordi unì,
– Balziam, compagni, in sella.
Corta è d’Amor la strada.
Tutti la nostra bella
Ad impalmar si vada.
Poi qui, fra un anno, i talami
Vengano all’ardua prova.
Chi indugia o non si trova
Nota d’infame avrà. —
Giuraron tutti. E in dorso
Salito al suo destriero,
Ognun lo spinse al corso
Verso il nativo impero;
Securo ognun di vincere
In quel torneo cortese,
Dove sarian discese
La Fede e la Beltà.
Baciâr le donne liete
I ritornati amanti.
Poi con un’ara e un prete
Furon tranquilli i santi.
Dopo le nozze, il tacito
Destin gittò il suo dado;
E, i dì raccolti al guado,
L’anno fatal scoccò.
Là di Lutezia antica
Sul Parco il vespro scende.
Di Venere pudica
La stella in alto splende.
Tre da un vïal comparvero,
Ma scompagnati e in duolo;
Tranne Nearco solo,
Che Argía per man guidò.
E con cipiglio oscuro
Nearco ai tre si volse:
– Così teneste il giuro? —
E l’Anglo il labbro sciolse:
– Splendea di Kent sui margini
Cordelia, e mia divenne;
Ma la sua fè non tenne,
E di brillar cessò.
Ella sul ghiaccio eterno
Di Montebianco il passo
Con me traea. L’inferno
La spinse in orlo al sasso,
E scompari. – Qui pallido
Si fece l’Anglo in viso,
E quel ch’ei tacque, un riso
A rivelar bastò.
Sclamò l’Ispano: – Il fiore
Dell’Andalusia è spento.
Lo sdegno del Signore
L’ha dissipato al vento.
Alma sorrise al giovine
Don Diego in una festa;
Ma l’onor mio v’attesta,
Ch’ei sul mattin perì.
Poscia, una volta, in mare,
L’empia, a scomposte chiome,
Tremò sognando, e urlare
La udii nell’ombre un nome…
Siedea sul vasto Atlantico
La notte e l’uragano;
Io non frenai la mano,
E il mar se la inghiottì. —
E anch’ei con un sogghigno
Chinò la fronte oscura,
L’Arcangelo maligno
Sembrando alla figura.
Allor con più terribile
Riso proruppe il Greco:
– Fior d’innocenza io reco
La bella Argía con me.
I vostri fior son morti;
Il mio m’è sempre accanto,
Sorridi, Argía. Tu porti
Su tutte l’altre il vanto. —
E ogni proferta sillaba
Di tal velen fu tinta,
Che ai piè cadergli estinta
Era miglior mercè.
Quel di Polonia allora
Con mesto ardor gentile,
Sclamò: – Felice Eudora
Che non fu rea, nè vile.
Ella pregò per l’esule,
Pianse le notti e i giorni,
Ne disperò i ritorni,
E i suoi la seppellîr.
Dormi in funerea veste,
Mia povera solinga.
Non più sorrisi o feste,
Non più d’Amor lusinga.
Sol quando i brandi s’alzino
Per la natal mia terra,
Sui patrii campi in guerra,
Chiedo pur io morir. —
I tre chinâr le ciglia
Di reverenza in segno
Alla defunta figlia,
E di Sobieski al regno.
Ma allor la illustre vergine
Della contrada Argiva,
Fatta di fiamma viva,
Sorse, e così parlò:
– Rea non son io. Da frodi
E tradimenti altrui
Son maculati i nodi,
In che felice io fui.
Beata, Eudora! All’Erebo
Tu discendesti almeno,
E d’un vivente i a seno
La fede tua restò.
Da Satana voi nati,
E noi dal fianco d’Eva,
Sempre sui nostri fati
La vostra man si aggreva.
E un sogno, un’ombra, un impeto
Dell’ira o dell’orgoglio,
A noi sovverte il soglio,
Che un breve amor ci dà.
Là in dorso al Montebianco
E sui nembosi flutti,
Quell’altre due fors’anco,
Per accusarvi tutti,
Al Dio che non ingannasi,
Levan le fronti caste,
E voi che giudicaste
Quel Dio giudicherà. —
Uno sghignazzo obliquo
Dal bel Nearco uscía.
Era Nearco iniquo,
O menzognera Argía?
Come due fredde immagini,
Quegli altri due rimasi,
Sentian de’ proprii casi
Dubbio e spavento al cor.
Quindi saliti in tergo
Dei corridor focosi;
Tutti al nativo albergo
Volâr nell’ombre ascosi;
Dietro seguiali Satana
Per valli e per caverne,
E sulle sfere eterne
Gemea velato Amor.
 

IL 2 DICEMBRE

A LUIGI NAPOLEONE
 
Hai vinto. Or ben, qual premio
Dalla vittoria attendi?
Sali. E l’antica porpora
Di Clodoveo ti prendi.
Ma la Fortuna, o Principe,
Ha infami giochi. E bada
Che può fallir la strada
Pur di chi vince al piè.
Se col vorace e barbaro
Settentrion t’annodi,
Perduto sei. La gloria
Ti mancherà de’ prodi,
E un’ignea palla, un vindice
Pugnal senza perdono
Rovescerà dal trono
Il parricida e il re.
Nè fra le morte tenebre
Fia che dormir tu possa;
Chè il civil sangue a vortici
Ti bagnerà la fossa,
E da ogni vacuo talamo,
Da ogni disfatto lido
Udrai levarsi un grido
Di fremebondi al ciel.
Bada. Chi ingiuria semina,
Miete furor. Chi incesta
Colla viltate, in triboli
Posa l’infame testa.
E al fulminato tumulo
Quando d’accanto passa,
Fin la Pietade abbassa
Sugli occhi irati un vel.
Bada che fai. L’attonita
Terra, che dubbia or pende,
Con un immenso palpito
La tua parola attende.
Bada che fai. Da Satana
Oppur da Dio sei messo?
Vuoi tu levar l’oppresso?
Farti oppressor vuoi tu?
Guarda le plaghe e i popoli
Dell’Occidente. È bello
Questo da sofi e màrtiri
Glorificato ostello.
Tutti, dall’alpe a Cadice,
Tutti siam tuoi, se il chiedi.
L’ora, che ha l’ale ai piedi
Sai che non torna più.
E l’ora è questa. Affrettati,
Se tu sei l’uom. Signore
Di due frementi eserciti,
Osa, se hai grande il core.
Destin del tuo più splendido
Non ebbe il mondo. E il tieni
Oggi in tua man. Far pieni
Puoi d’ogni gloria i dì.
L’Ungaro, il Belga, l’Italo,
Il Lusitan, l’Ibero,
L’Anglo, e del novo Atlantico
Il liberal nocchiero,
Tutto è con te, se l’anima
Al suo destin non mente,
Se gridi all’Occidente:
«Un uom volesti: è qui.»
Come de’ bruni arcangeli
Alle tremende squille
Ogni umil fossa, aprendosi,
Darà i suoi morti a mille,
Tal tu vedrai. Sull’aride
Ossa il gran soffio spandi,
E a selve a selve i brandi
Il suol partorirà.
Cinto è di sdegni il solio,
Cinto è l’altar di lutto.
Tutto è crollante. Ed unico
Tu rinnovar puoi tutto.
Col cor di Scipio e Cesare
Manda sull’orbe spento
Un redentore accento
Di gloria e libertà.
Fiero contendi ai despoti
Le mal rapite glebe.
Strappa possente ai cupidi
Suoi traditor la plebe.
Tu Gedeon sul Tempio
Alza di Dio l’insegna,
Vendica il Mondo; e regna
Come nessun regnò.
Vasta è la via. Puoi vincere
Il sangue onde sei nato.
Guai se tu manchi all’opera
Per cui t’ha Dio mandato!
O infame o grande. Il tacito
Mondo ti guarda, e spera:
Altro a chi vince e impera
Vaticinar non so.
Sol, pei materni visceri,
Ti prego a giunte mani,
Non obliar, nel turbine
Del tuo fatal dimani,
Questa obliata Italia
Dal sangue tuo; quest’Eva,
Che a te le braccia leva
Consunte di dolor.
Mille de’ suoi, che dormono
Là tra le scizie nevi,
Per chi tu ’l sai, fantasimi
Tetri, placar tu devi.
Pensa alla madre, al cenere
Dell’Alighier. Nefando
Di Bonaparte è il brando,
S’egli altri numi ha in cor.