Jessica Ek

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Capitolo 3

23 novembre 2011

Nico è in piedi di fronte alla vetrata che dal suo ufficio guarda il magazzino sottostante, probabilmente a suo tempo serviva al direttore di quel posto per sorvegliare i dipendenti; lui invece la usa per riflettere, per dirigere lo sguardo dove ormai non c'è più nulla da vedere e nulla che lo possa distrarre.

Sta pensando a Elia, il dodicenne che anni prima, in pieno giorno, era stato caricato su un furgone all’uscita di una sala giochi e di cui si erano perse le tracce per giorni. Per un breve periodo quel povero ragazzino era stato rinchiuso in un granaio come ce ne sono a decine; e per passare il tempo, e per scongiurare la paura, raccoglieva e faceva scivolare dalle mani della semenza. Durante quell’indagine, una mattina mentre faceva colazione, Nico teneva una mano sul diario scolastico del ragazzo, mentre con l'altra si versava i cereali nella tazza.

Quel rumore, proprio come di semi che cadevano, che scivolavano giù, o semplicemente il gesto, o la loro combinazione, gli aveva permesso di vedere quei momenti di vita già passati, ma ancora presenti nell'etere.

I particolari che aveva fornito alle autorità erano stati così dettagliati da convincere la polizia a cambiare i piani e inviare una parte degli uomini destinati alle ricerche nella campagna a nord della città, togliendoli dal luogo che aveva invece indicato Matteo.

E ora c'è Francesca da salvare.

Nico si siede a un vecchio tavolo da cucina, ci sono sopra le solite cose da ufficio che generalmente riempiono una scrivania. Accarezza una cuffia di lana color violetto: la sente ruvida e nel contempo morbida, piacevole al tatto.

Si tratta del berrettino di Francesca; aveva chiesto a Silvia un oggetto poco ingombrante che appartenesse alla figlia e al quale fosse legata.

«Sai, Silvia, le persone che come me hanno questo dono, hanno bisogno di un testimone per poter rivivere gli avvenimenti passati. Può trattarsi di qualsiasi cosa, anche di una matita o di un fazzoletto, dove sono impresse le tracce psichiche della personalità e dell'emotività di chi le ha possedute. Queste ci aiutano ad aprire un canale per avere un flashback.»

«Questa potrebbe andare bene?» gli aveva chiesto lei con gli occhi lucidi. «La indossava la sera che me l'hanno portata via. La polizia l'ha trovata per terra nel parcheggio del ristorante, è l'unica cosa che hanno saputo riportarmi.»

Per il momento, la cuffia non ha aperto alcun canale, ma questo non significa nulla; semplicemente non si è ancora trovato nella situazione ideale. Perché le sue capacità si manifestino, non gli è sufficiente tenere in mano il testimone, ha bisogno anche di alcune coincidenze favorevoli: nella maggior parte dei casi, si tratta di vivere e provare le stesse sensazioni che la persona da trovare ha vissuto in quei frangenti.

Per non perdere il contatto con il testimone, indossa il berretto e, visto che non ha ancora acceso la stufa a legna, non sarà una seccatura, come non lo è la felpa in pile portata sopra il pigiama che indossa ancora, malgrado sia già l'ora di pranzo.

Fa spazio sul tavolo, aprendo quello che dovrebbe essere il cassetto delle posate, e ci fa cadere dentro la posta ancora da aprire che si sta accumulando da almeno una settimana. Da uno dei porta documenti di plastica che ha impilato sulla cassettiera laterale, prende il faldone che il papà di Francesca gli ha passato; contiene alcuni rapporti di polizia, i verbali d'interrogatorio delle ultime persone che hanno visto la ragazza, alcuni articoli di giornale e qualche fotografia.

Nico scorre tutto rapidamente e sbuffa. Quanto arriva dal commissariato fornisce poche informazioni in più rispetto a quelle già in suo possesso; probabilmente il commissario Martini ha fatto avere a Edo quei documenti unicamente per soddisfare le sue continue richieste, ma si è tenuto i rapporti con le informazioni che i media ancora ignorano.

Per il momento, nessuno di questi menziona il Killer delle Laureande, anche se sono stati redatti proprio dal team che si sta occupando di quel criminale.

Nico non si scompone. Sono più interessanti gli articoli di giornale: alcuni hanno un paio d'anni, risalgono al periodo in cui vi fu la prima vittima che oggi viene attribuita al Killer.

Evidentemente, Edo ha fatto delle ricerche in internet su di lui. Spesso le notizie si ripetono e sono i soliti quattro o cinque giornalisti a scrivere gli articoli.

Nico afferra un quadernino; prende nota delle informazioni che trova e le analizza; rimarca su una linea del tempo che ha tracciato su un foglio il nome del reporter, quale elemento fornisce e, se disponibile, la sua fonte.

Una cronista è sempre un piccolo passo avanti agli altri; si tratta di Erica Blum, una reporter del Quotidiano, un giornale che il sabato viene accompagnato dal settimanale d’approfondimenti Fatti. Ed è proprio su uno di questi settimanali che la Blum fa un resoconto dettagliato sui primi due delitti legati al Killer delle Laureande, appellativo che da quel momento in poi verrà usato da tutti i media.

Nell’articolo c'è anche un aggancio a Matteo, che non lavorava sul caso ma che, secondo l’autrice, avrebbe potuto dare un impulso alle indagini. Matteo che, guarda caso, ha una rubrica proprio in quel settimanale.

Gli articoli pubblicati dalle altre testate nei giorni seguenti, riportano le medesime informazioni, infoltite con qualche dettaglio in più o con una dichiarazione ufficiale del commissario Martini che conferma quanto scritto dalla donna. Evidentemente, la giornalista ha un contatto importante, qualcuno che ha accesso diretto all'inchiesta. Comunque sia, pensa Nico, ora i suoi resoconti gli vengono comodi.

Martina era stata la prima, il 15 settembre 2009. La poveretta era stata uccisa nella sua camera, in un dormitorio dell'università e trovata senza vita dalla compagna di corso con cui avrebbe dovuto partire per una piccola vacanza premio un paio di giorni dopo.

Era distesa sul pavimento con infilata in bocca la laurea in giurisprudenza ricevuta appena il giorno prima; l'assassino non gliela aveva schiacciata con violenza tra i denti: l'aveva arrotolata e fissata con un nastro per capelli che probabilmente aveva trovato nella camera, le aveva abbassato la mascella e gliel'aveva appoggiata tra le labbra.

L'esame autoptico indicava come causa del decesso il soffocamento; vi erano alcune tracce di colluttazione, ma non di strangolamento, e alcuni segni sul collo lasciavano presumere che fosse stato utilizzato un sacchetto di plastica che, però, non era stato trovato sulla scena del delitto.

A quanto pareva l'attestato di carta le era stato infilato in bocca post mortem. Nel sangue non erano state trovate tracce di stupefacenti o di medicinali. Era ipotizzabile che i due si conoscessero e che Martina avesse permesso al suo assassino di entrare in camera senza discutere; i corridoi di quello stabile erano frequentati da molti studenti e un diverbio sarebbe stato sicuramente notato e soprattutto sentito da tutti.

Il 20 settembre del 2010 era stata invece la volta di Monica, appena laureata anche lei in giurisprudenza e sparita il giorno dopo la consegna dei diplomi. Aveva festeggiato fino al mattino con i compagni neolaureati, ma non aveva fatto rientro nell'appartamento preso in affitto con altre tre ragazze. Fu ritrovata giorni dopo sdraiata su una panchina in un parco, dieci chilometri fuori città; sembrava dormire e per questo motivo solo a mattina inoltrata un giardiniere che stava sistemando un'isola di fiori lì accanto si era permesso di chiederle se si sentisse bene.

Aveva la testa appoggiata su alcuni libri e le mani sul ventre che tenevano un foglio di carta pregiata, arrotolata con un nastro rosso. Si trattava della riproduzione di una laurea in giurisprudenza con il suo nome e le firme del Rettore, del Preside di facoltà e del responsabile.

Vi era anche una nota sotto il titolo:

Per aver voluto supplire alle sue mancanze

cogliendo da sé il frutto del suo peccato

Quello era il messaggio dell’assassino, un indizio su cui inquirenti e psicologi avrebbero avuto da dibattere a lungo. A fondo pagina c’era un’ulteriore scritta: "Con decisione del: 21.02.2010".

Anche nel suo caso, la causa della morte era stata il soffocamento: non vi erano segni di lotta sul corpo, ma solo piccoli lividi sul collo che potevano ricondurre anche questa volta all'utilizzo di un sacchetto di plastica. In questo caso, però, furono trovate massicce dosi di Dormicum nel sangue.

Per una settimana il rapitore aveva mantenuto la ragazza in uno stato costante di dormiveglia e non aveva avuto la necessità di tenerla legata.

Monica non aveva subito nessuna violenza sessuale, non risultava disidratata e nello stomaco aveva del pollo e delle patate consumate poco prima della morte, quindi era, per così dire, stata accudita.

Gli elementi in comune tra i due casi erano evidenti: entrambe neolaureate in giurisprudenza, aggredite il mese di settembre poco dopo la consegna dei diplomi e uccise tramite soffocamento. Sulla carta stampata la prima a collegare questi dettagli fu la Blum.

C'erano, però, anche delle differenze: Martina era stata uccisa in camera sua subito dopo aver incontrato il suo assassino, mentre Monica era morta lontano da casa dopo una settimana di prigionia; la prima aveva in bocca il diploma legato con un elastico per capelli trovato sul posto, la seconda teneva in mano una riproduzione di un diploma legato con un elegante nastro rosso, lavoro che aveva sicuramente richiesto del tempo; nel primo caso non era stato usato nessun medicamento, nel secondo la vittima aveva nel sangue del Dormicum. Questi dettagli indicavano come l'assassino era cresciuto dopo il primo crimine: per l'omicidio di Monica la preparazione era stata più accurata, non c'erano segni d'improvvisazione come l'utilizzo dell'elastico per capelli. Rapire e tenere nascosta per una settimana una ragazza comporta un grande dispiego di risorse: un veicolo per il trasporto della vittima, un luogo al riparo da occhi e orecchie indiscrete, organizzare la sussistenza, procurarsi il sonnifero e, naturalmente, avere molto tempo da dedicarle, forse anche con l'aiuto di complici.

 

Nico sorseggia il suo caffè.

Nell’anno seguente l’attenzione sul caso non calò, e quando la polizia sentiva un po' meno il fiato sul collo da parte dei media, ci pensava la giornalista a rianimare l'interesse dei colleghi.

Fu lei che arrivò a scoprire e pubblicare il messaggio lasciato dall'assassino tra le mani della povera Monica. Un aggancio al caso di Martina che aveva eliminato qualsiasi dubbio sul fatto che si trattasse del medesimo assassino.

In una prima occasione la Blum rilevò semplicemente che era stato trovato una sorta di messaggio sotto forma di diploma contraffatto, ma la cosa venne smentita dalla polizia. Qualche settimana più tardi, completò l'opera andando nei dettagli: indicò dov'era stato trovato, di chi erano le firme in calce e il testo impresso.

Per questo fu convocata dal procuratore Zappa che conduceva l'inchiesta; le chiese chi era la sua fonte, minacciandola di denunciarla per aver intralciato le indagini se non glielo avesse rivelato. La Blum, però, si era appellata all'obbligo di tutela e segretezza delle fonti ed era riuscita a mantenere il segreto.

Se la talpa fosse stata un poliziotto o un qualsiasi altro collaboratore della polizia o del pubblico ministero – cosa, tra l'altro, molto probabile vista la quantità e qualità dei dettagli a conoscenza della giornalista – oltre a perdere il posto di lavoro, si sarebbe guadagnata una denuncia penale per violazione del segreto d'ufficio.

Il messaggio del killer stimolò la fantasia di giornalisti e psicologi, che facevano a gara per dargli un significato. C'erano due particolari che davano più argomenti di discussione: il testo era vergato in terza persona e non in seconda, quindi non pareva indirizzato a Monica, ma era dedicato a chiunque avesse intrapreso la stessa strada; inoltre, era al femminile.

Qualsiasi cosa avesse voluto dire, il riferimento a Eva e alla mela colta da Adamo era fin troppo facile. Tutti, più o meno, davano il medesimo significato: “a qualunque donna avesse peccato per rimediare alle sue colpe, emettendo da sé la sua condanna a morte". Un giornalista arrivò persino a intitolare un suo articolo “Chi sarà la prossima Eva?”, facendo, con l'aiuto di un famoso criminologo, il profilo della possibile futura vittima.

Il settembre del 2011 fu un mese di paura per le laureande e le loro famiglie, soprattutto per quelle della facoltà di Legge.

L'ateneo aveva ingaggiato servizi di sicurezza privata con lo scopo di dissuadere ogni malintenzionato e di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per garantire la sicurezza nei luoghi di loro spettanza.

Dal canto suo la polizia, senza fare pubblicità, aveva messo in atto una serie di provvedimenti, inserendo personale in abiti civili in tutte le cerimonie di consegna dei diplomi, con lo scopo d'individuare ogni possibile elemento sospetto prima che potesse agire.

Nelle strade dove erano organizzate le feste per i laureandi c'erano pattuglie che facevano il giro senza sosta e appostamenti discreti nei punti più a rischio. Cercando di non fare troppo allarmismo, con l'aiuto di radio e televisione, erano state date delle linee di comportamento non solo per le giovani donne, ma per tutti coloro che avessero notato qualcosa d’insolito.

In particolare, la polizia voleva essere subito informata nel caso una laureanda non fosse stata rintracciabile o ci fossero stati movimenti sospetti, così da attivare nel minor tempo possibile un piano di posti di blocco che avrebbero permesso d’intercettare chiunque avesse voluto lasciare la città. L'idea era quella di essere il più discreti possibile; in realtà, le segnalazioni di ragazze scomparse furono così tante che i posti di blocco restarono attivi ventiquattro ore su ventiquattro nei tre fine settimana che avevano seguito i venerdì della consegna dei diplomi.

Alla fine, fortunatamente, si trattò solo di falsi allarmi: ragazze in locali con la musica così alta da non sentire il cellulare, oppure troppo sbronze o stanche per rispondere. Alcune di queste si erano dimenticate di chiamare a casa come promesso e automaticamente le famiglie avevano fatto scattare l'allarme.

A ogni modo, i giornali non smisero di parlare del Killer delle Laureande: dovevano dare una motivazione al mancato atteso omicidio. Avevano sbagliato i criminologi? Forse la polizia con la sua presenza aveva dissuaso l'omicida dai suoi intenti, o lo aveva semplicemente fatto arrabbiare e si sarebbe ripresentato più in là, magari contro più ragazze?

Ci fu addirittura chi lo collegò all’omicidio in Svezia della giovane Ingrid, studentessa in medicina; forse, non potendo agire in casa sua, l'assassino era emigrato all'estero. Un’ipotesi caduta quasi subito, quando si scoprì che la giovane era stata vittima di un omicidio passionale da parte del suo ex ragazzo, che non aveva accettato la sua nuova avventura sentimentale.

In novembre la tensione iniziò a scemare: i giornalisti cominciavano a dubitare che il Killer delle Laureande avrebbe colpito ancora e nella raccolta di articoli del signor Motta non vi erano più articoli della Blum.

Nico a quel punto ha bisogno di una pausa. Appoggia i fogli e si lascia andare contro lo schienale della sedia girevole. Incrocia le dita e mette le mani dietro la testa. Chiude gli occhi.

Mentalmente ripassa le prime informazioni ricavate da quanto letto finora. I rapporti di polizia non sono molti in effetti, è chiaro che non sono tutti, ma deve accontentarsi di quello che ha.

Gli allegati sono invece parecchi: rapporti della scientifica, verbali d'interrogatorio di parenti e conoscenti delle vittime, persino i rapporti sulle condizioni meteorologiche al momento dei fatti.

Nico apre gli occhi e ricomincia a scartabellare; i giornalisti hanno scritto molto, ma le informazioni effettivamente utili sono poche e molto ripetitive. Farebbero comodo degli articoli più recenti della Blum, Nico si prefigge di cercarne altri in internet.

Si sistema meglio sulla vecchia poltrona quasi sfondata, dall’imbottitura lisa e così schiacciata da sembrare marmo. Era già lì quando, anni prima, aveva affittato quel magazzino. E l'aveva sempre ritenuta una sedia comoda, finché a casa di Matteo aveva provato la sua e aveva capito la differenza tra una semplice sedia girevole e una vera poltrona da scrivania.

Nico si alza e si gira verso la parete facendo qualche esercizio di stretching. Appesa al muro, c'è una una pubblicità vintage in metallo: il disegno di una ragazza in minigonna e pattini a rotelle che tiene in mano un vassoio con una bottiglietta di Coca-Cola e un hamburger; poco più a destra un orologio di plastica ingiallito è fermo sulle due e venti. Il resto della parete è spoglio, qua e là ci sono dei chiodi dove un tempo probabilmente erano appesi dei quadri e magari un calendario; Nico ne ha usato uno per appenderci la sua autorizzazione a esercitare come investigatore privato e uno per attaccare una sua fattura non pagata da un cliente, ci aveva scritto con un pennarello rosso: Rintracciare Poretti!!!, ma finora nonostante quel memorandum, non ci ha mai provato. Gli altri chiodi li ha semplicemente lasciati al loro posto e ormai non ci fa più caso.

Per il resto la stanza che funge da ufficio è spoglia e minimale. Una cassettiera di metallo è appoggiata alla parete di fronte la scrivania e una felce finta e coperta di polvere e brandelli d’intonaco che vengono giù dal soffitto campeggia davanti la finestra che affaccia sull’interno della fabbrica.

La vicina ferrovia è il motivo del prezzo bassissimo dell’affitto: le vibrazioni al passaggio di decine di convogli ogni giorno stanno facendo sbriciolare i vecchi intonaci. Nico quando era entrato lì per la prima volta si era innamorato dell’aspetto vintage di quel luogo e, pur proponendosi di dare una restaurata, magari una bella passata di bianco alle pareti e una ripulita al linoleum stinto, poi non lo aveva mai fatto.

Gettato uno sguardo alla stanza si rimette al lavoro. In fondo Matteo crede di essere migliore di lui, solo perché possiede quella graziosa baita vicino al bosco e un discreto buon gusto nel vestire, ma lui gli vuole dimostrare che è perfettamente all’altezza di portare a termine un ingaggio importante come quello. La cosa più importante è ritrovare quella ragazza sana e salva, questo è certo, ma la vorrebbe trovarla lui.

Dal plico che aveva già passato in rassegna, prende la fotografia più grande di Francesca, circa venti per quindici centimetri, e l'appende vicino al promemoria di pagamento con tre punti esclamativi. È un mezzo busto di profilo, ma con il volto girato verso l'obiettivo; lei sta sorridendo e ha una mano all'altezza del petto con il pollice alzato. Indossa un maglione di lana a rombi di tutti i colori e lo sfondo, che non è a fuoco, va dal giallo all'arancione, con qualche sfumatura di rosso; Nico non riesce a capire se si tratti di un muro o di un telo da fotografo, gli è chiaro invece quanto Francesca sia una ragazza fotogenica.

Prima di tornare a sedersi stacca il foglio con la scritta in rosso e lo infila nel cassetto con la posta non aperta, poi apre il suo portatile e va alla ricerca degli ultimi lavori di Erica Blum, solo per rendersi conto che Edo è stato molto efficiente: nella cartella che gli aveva passato non mancava neppure un articolo che facesse riferimento al serial killer.

Gli articoli più recenti che trova nel web scritti dalla giornalista del Quotidiano si riferiscono però a tutt'altro, un argomento decisamente più leggero: le micro comunità contadine.

L'estate precedente il suo reportage l'aveva portata un paio di settimane in Sudamerica, e al suo ritorno aveva raccontato la storia di alcuni ecuadoriani che ogni autunno giungevano in città, occupando le uscite dei grandi magazzini e chiedendo soldi in cambio di un po' di musica suonata con il flauto di Pan. Con l'appoggio del suo editore, interessato a realizzare una serie di servizi per il settimanale Fatti, aveva poi sostenuto e realizzato una piccola comunità di sudamericani nelle colline del Piemonte. Là riescono a vivere coltivando e imparando differenti metodi di produzione. Alla scadenza del permesso di soggiorno rientreranno nella loro terra e insegneranno ad altri quanto appreso in Italia, e al loro posto giungeranno altri connazionali.

Nico sorride tra sé e sé.

Quel ciclo si sarebbe ripetuto finché il giornale avrebbe avuto un riscontro in termini d'interesse da parte dei lettori, poi il finanziamento, seppur di rilevanza minima, sarebbe andato a farsi benedire .

Secondo quanto scritto nella copia dell'ultimo rapporto di polizia comunque, il 15 novembre 2011 era giunta al centralino della polizia la telefonata di una madre preoccupata: la figlia di ventiquattro anni non era rientrata a casa dopo una cena con i nuovi colleghi dell’Ufficio tecnico della città, dove aveva appena trovato lavoro come ingegnere civile.

Inizialmente il caso fu sottovalutato: una direttiva interna disponeva che ogni denuncia di scomparsa che poteva rientrare nel caso del Killer delle Laureande doveva essere passata al team appositamente creato. Il fatto che fossimo a metà novembre e che la ragazza fosse già inserita a tutti gli effetti nel mondo del lavoro, fece sì che solo durante la denuncia formale – più di trentasei ore dopo la sua scomparsa – l'agente si rendesse conto che si trattava di una neolaureata in architettura e che, quindi, doveva dare subito l'informazione ai colleghi, con un ritardo di quasi due giorni.

Il mattino seguente la Blum – e il giorno dopo tutti gli altri giornalisti – fece riesplodere la paura, parlando della povera Francesca.

Nico si alza e passeggia nervoso per la stanza.

Martina l'ha uccisa subito, Monica dopo sette giorni e oggi sono nove giorni che è sparita Francesca. Se è stato lo stesso assassino a rapirla, significa che sta prendendo coraggio: si prende più rischi e non ha fretta di ucciderla. Ma perché aspettare? Certo che se quello che vuole è far passare un messaggio, più giorni passano e più la gente parla di lui e della falsa laurea di Monica. Ma se non lo fermiamo, alla fine ucciderà anche lei. Dobbiamo trovarla al più presto.

 

***

Scesa dalla macchina, Jessica prova sensazioni particolari: riconosce l'ingresso dell'istituto Santa Margherita dalle foto viste su internet, ma non le sembra di trovarsi in un posto dove possano essere stati cresciuti dei bambini piccoli, come erano Ronaldo e Matteo.

Il prato incolto che vede, con l'erba ormai divenuta fieno e con i cespugli spinosi che hanno attecchito qua e là, una volta doveva essere stato un gioioso parco giochi, con un tappeto verde, un’altalena, uno scivolo e magari una vasca riempita di sabbia, il tutto guarnito dal baccano di bambini che s'inseguivano e si divertivano.

Sul cortile di sabbia e ghiaia dove ha parcheggiato vi sono uno scooter e un paio di motorini, uno dei quali con parti del motore smontate e degli attrezzi da meccanico accanto.

Grazie alle ricerche fatte in internet, si è documentata sulla storia dell'orfanotrofio: era una struttura all’avanguardia e molto apprezzata, grazie ai metodi di lavoro con i bambini. Con gli anni, aveva saputo adeguarsi alle nuove esigenze dei suoi ospiti, cercando di essere moderno ed efficace. La direttrice Del Biagio aveva raccolto molte simpatie tra la gente e le aziende della regione che, oltre a qualche piccolo contributo finanziario, si offrivano per ospitare alcuni ragazzi in laboratori, officine o fattorie, così da insegnare loro un mestiere da mettere in pratica una volta lasciato l’istituto. Ogni anno al più dotato la provincia di Frosinone offriva anche una borsa di studio per l'università, e nessuno dei ragazzi aveva mai deluso le aspettative.

Purtroppo, la percentuale di quelli collocati nelle famiglie non era molto alta: fino agli anni 50, le famiglie senza figli adottavano un ragazzo o una ragazza per necessità, per dare una mano nei campi, nell'azienda di famiglia o in casa. Ora i tempi sono cambiati e a rivolgersi agli orfanotrofi sono solo le coppie che non possono avere figli, ma sentono che è quello che manca loro per dare un senso al matrimonio e potersi definire una vera famiglia.

Comunque, i ragazzi che restavano a vivere presso l'istituto ricevevano più che una semplice educazione e istruzione: avevano intorno una grande famiglia che li amava e li sosteneva.

Negli anni le richieste di alloggio per orfani erano calate drasticamente, ma nel contempo aumentavano i ragazzi che vivevano situazioni familiari difficili, magari cacciati da casa o con uno o entrambi i genitori in carcere.

La signora Del Biagio non era rimasta indifferente a questa nuova necessità e aveva cominciato ad accogliere anche loro. Spesso si trattava di persone più grandi degli ospiti abituali, con un carattere difficile da conciliare con il clima di serenità che si tentava di mantenere nell'istituto, ma lei faceva tutto il possibile per far funzionare al meglio le cose.

All’inizio degli anni novanta, la regione aveva deciso di convertire l'Istituto Santa Margherita in una casa-famiglia prettamente per minori disagiati.

La direttrice, che era ormai prossima alla pensione, non volle essere presente a questo – per lei – triste passaggio e si ritirò in anticipo.

Pur non vedendo nessuno, a Jessica giungono dei pensieri scomposti, da persone diverse. Anche concentrandosi, non riesce a distinguerne il significato preciso, ma può comprendere che non provengono da persone serene.

Fa un respiro profondo e si dirige alla porta d'entrata, un vecchio portone di pietra, semi coperto dall’edera, sormontato da un fregio raffigurante un adulto che tiene per mano un bambino; e nel varcare la soglia quelli che prima erano stati solo pensieri confusi diventano voci e grida, in particolare quelle di un ragazzo che ride e impreca. Sente anche le urla di una ragazza.

Jessica è indecisa se provare a suonare o aspettare che all'interno si calmino un po' le acque. La porta, però, si spalanca e un giovanotto sui sedici anni con la testa quasi rasata a zero esce come un treno in corsa e le urta la spalla, facendole fare mezzo giro su se stessa. Appena sopra la nuca sembra avere un tatuaggio; lei lo guarda correre via con un libro in mano. Continuando a ridere il ragazzo si gira come per scusarsi, o forse solo per controllare chi lo insegue. Subito dietro arriva alla porta una ragazza che sembra avere la stessa età, il cui abbigliamento consiste in un paio di mutandine e una maglietta rosa raffigurante Hello Kitty. A Jessica viene la pelle d'oca per lei: è vero che non fa molto freddo, ma diamine, siamo in novembre!

Cazzo, il mio diario!

Questa volta il pensiero della ragazza le arriva forte e chiaro.

«Brutto figlio di puttana! Se ti azzardi a leggerlo, ti uccido. E tu che cazzo hai da guardare?» urla in faccia a Jessica. «Lo potevi fermare, no?»

La ragazza corre all'interno, forse a rivestirsi. Jessica la segue con lo sguardo attraverso la porta e la vede prendere le scale che vanno al piano superiore, due gradini alla volta.

«Si può sapere che succede qui? Avevo chiesto solo dieci minuti per parlare con Marco in tranquillità e invece…»

A parlare è probabilmente un educatore; sta arrivando dal corridoio alla sua destra. È sui trent'anni, indossa un paio di Lewis con una cintura in pelle e una fibbia di ferro grande come un limone che raffigura un cavallo rampante; tiene le maniche della camicia color caco arrotolate.

Quando vede Jessica, s'interrompe e riprende a parlare con un tono più gentile.

«Mi scusi, a volte questi ragazzi sono incontrollabili. Non so cos'avessero da strillare tanto.»

«Non c'è problema, capisco benissimo. Piuttosto, sono io che devo scusarmi per la mia intrusione senza preavviso.»

«Io sono Roberto, il responsabile del centro Santa Margherita.»

I due si stringono la mano e la ragazza nota che porta al polso destro un orologio in acciaio cromato con cinturino in pelle.

«Come posso aiutarla?»

Dal piano superiore riappare la ragazza di prima; ora indossa jeans e scarpe. Mentre vola giù per le scale, strilla a Roberto: «È tornato Franco? È tornato?»

«Fermati un attimo e spiegami cosa…»

La ragazza non si ferma e corre all'esterno. Jessica sta bene attenta a non prendersi un'altra botta e nello spostarsi si rende conto che le fa male la spalla. Se la massaggia con la mano e l’uomo le rivolge uno sguardo comprensivo.

«Come le ho detto» le dice Roberto, «non sono facili da controllare.»

«Lo vedo» dice lei sorridendo. «Mi chiamo Jessica Ek, sono venuta qui per cercare delle informazioni sulle origini della mia famiglia.»

«Ah, capisco» Roberto ricambia il sorriso. «Si tratta dell'Orfanotrofio Santa Margherita, immagino. Prego, accomodiamoci nel mio ufficio.»

Mentre lo segue, Jessica lo osserva meglio: non è alto – neppure i tre centimetri della suola in gomma dei suoi scarponi lo aiutano a superarla di statura – ma ha un bel fisico e la tenuta da cowboy gli dona un sacco; inoltre, la barba appena accennata lo rende affascinante.

Pur non avendolo mai visto, Jessica riconosce quel locale: c’è la scrivania dov'era seduta la direttrice Del Biagio quando ancora era in servizio e la finestra dove Elisa era andata a piangere quando le aveva comunicato della malattia di Ronaldo.

Evidentemente, a quel tempo sulla scrivania non c'era il computer e l'ufficio era un po' più ordinato, ma la sensazione è quella di esserci già stata.

«Lei, quindi, era un'ospite qui al Santa Margherita?»

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