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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3

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Sono, oltre a questo, molti che chiamano questo Attila, Totila, li quali non dicon bene, percioché Attila fu al tempo di Marziano imperadore, il qual fu promesso all’imperio di Roma, secondo che scrive Paolo predetto, intorno dell’anno di Cristo 440, e Totila, il quale fu suo successore, fu a’ tempi di Giustino imperadore, intorno agli anni di Cristo 529: per che appare Attila stato dinanzi a Totila vicino di novanta anni; e, oltre a ciò, avendo Totila occupata Roma, e giá regnato nel torno di dieci anni, fu da Narsete patrizio, mandato in Italia da Giustino, sconfitto e morto.

«E Pirro». Leggesi nelle istorie antiche di due Pirri, de’ quali l’uno fu figliuolo d’Achille, l’altro fu figliuolo d’Eacida, re degli epiroti. E, peroché ciascuno fu violento uomo e omicida e rubatore, pare a ciascuno questo tormento per le sue colpe convenirsi; ma, perché l’autore non distingue di quale intenda, come di sopra di Dionisio facemmo, cosí qui faremo di questi due: e primieramente narreremo del primo Pirro.

Fu adunque, come detto è, il primo di questi due figliuolo d’Achille e di Deidamia, figliuola di Licomede re; ed essendo stato Achille morto a Troia per l’inganno d’Ecuba, e per la sua follia, ché, tirato dall’amore il qual portava a Polissena, figliuola del re Priamo, era solo e di notte andato nel tempio d’Apolline timbreo; fu di costui cercato, e assai garzone fu menato all’assedio di Troia. E, secondo che scrive Virgilio, sí come ferocissimo giovane, non degenerante dal padre, fu di quegli li quali entrarono nel cavallo del legno, il qual fu tirato in Troia per gl’inganni di Sinone: ed essendo di quello uscito, e giá i greci essendo in Troia entrati per forza, trapassò nelle case di Priamo, e nel grembo di Priamo uccise Polite, suo figliuolo, e poi uccise Priamo altresì, quantunque vecchio fosse; e, oltre a ciò, presa Troia, domandò Polissena, per farne sacrificio alla sepoltura del padre, e fugli conceduta: ed egli, non riguardando all’etá né al sesso innocuo, crudelmente l’uccise. Poi, essendogli, fra l’altre cose, venuta in parte della preda troiana, Andromaca, moglie stata d’Ettore, ed Eleno, figliuolo di Priamo, e con questi per lo consiglio d’Eleno tornatosene per terra in Grecia, e trovando essergli stato, per l’assenza del padre e di lui, occupato il regno suo; occupò una parte di Grecia, la qual si chiamava il regno de’ molossi, li quali dal suo nome primieramente furono chiamati «pirride», e poi in processo di tempo furono chiamati «epirote»: e giá quivi fermato, secondo che alcuni scrivono, esso rapi Ermione, figliuola di Menelao e d’Elena, stata sposata ad Oreste, figliuolo d’Agamennone; e ad Eleno, figliuolo di Priamo, diede per moglie Andromaca, secondo che Virgilio scrive. Appresso questo, o che Ermione da lui si partisse, o che ella da Oreste gli fosse tolta, non si sa certamente; ma, secondo che Giustino scrive, essendo egli andato nel tempio di Giove dodoneo a sapere quello che far dovesse d’alcuna sua bisogna, e qui trovata Lasana, nepote d’Ercule, la rapi, e di lei, la quale per moglie prese, ebbe otto figliuoli tra maschi e femmine. E in questi mezzi tempi, essendo rapacissimo uomo, o bisogno o fierezza di natura che a ciò lo strignesse, armati legni in mare, divenne corsaro; e da lui furono, e ancor sono, i corsari dinominati «pirrate»; e per certo tempo rubò e prese e uccise chiunque nelle sue forze pervenne. Ultimamente per fraude di Macareo, sacerdote del tempio d’Apolline delfico, in quello fu ucciso da Oreste, forse in vendetta della ingiuria fattagli d’Ermione.

Il secondo Pirro, per piú mezzi disceso del primo, e figliuolo d’Eacida, fu re degli epiroti. Questi, essendo piccol fanciullo, rimase in Epiro, essendo stato cacciato Eacida, suo padre, da’ suoi cittadini, per le troppo gravezze le quali lor poneva; fu in grandissimo pericolo di morte, percioché, come gli epiroti avevan cacciato Eacida, cosí di lui fanciullo cercavano per ucciderlo; e avvenuto sarebbe, se non fosse stato che da alcuni amici fu furtivamente portatone in Illirio, e quivi dato a nutricare e a guardare a Beroe, moglie di Glauco, re degl’illirii, la quale era del legnaggio del padre. Appo la quale, o per la compassione avuta alla sua misera fortuna, o per le sue puerili opere amabili e piacevoli a Glauco e agli altri, venne in tanta lor grazia che, saputo lá dov’egli era, non dubitasse Glauco di prender guerra con Cassandro, re di Macedonia, il quale, avendo il suo reame occupato, minaccevolmente il richiedea; e non solamente per servarlo sostenne la guerra, ma oltre a ciò, non avendo figliuoli, lui si fece figliuolo adottivo. Per le quali cose mossi gli epiroti, trasmutarono l’odio in misericordia, e lui raddomandato a Glauco ricevettono d’etá d’undici anni, e restituironlo nel regno del padre, e diedergli tutori, li quali infino all’etá perfetta il governassero e guardassero. Il qual poi molte e notabili guerre fece; e chiamato da’ tarentini venne in Italia contro a’ romani; e ancora chiamato in Cicilia da’ siragusani, quella occupò. Ma, riuscendo tutto altro fine alle cose, che esso estimato non avea, senza avere acquistata alcuna cosa, se ne tornò in Epiro; e quindi occupò e prese il regno di Macedonia, cacciatone Antigono re. Poi, avendo giá levato l’animo a voler prendere il reame d’Asia e di Siria, avvenne che, avendo assediata la cittá d’Argo in Acaia, fu d’in su le mura della cittá percosso d’un sasso, il quale l’uccise.

Ora, come di sopra è detto, di qual di questi due l’autor si voglia dire, non appare: ma io crederei che egli volesse piú tosto dire del primo, che di questo secondo: percioché il primo, come assai si può comprendere, per lo suo corseggiare e per l’altre sue opere, fu e crudelissimo omicida e rapacissimo predone; questo secondo, quantunque occupator di regni fosse, e ogni suo studio avesse alle guerre, fu nondimeno, secondo che Giustino e altri scrivono, giustissimo signore ne’ suoi esercizi.

«E Sesto». Questi fu figliuolo di Pompeo magno, ma male nell’opere fu simigliante a lui; percioché, poiché esso fu morto in Egitto, e Gneo Pompeo, suo fratello, fu morto in Ispagna, essendo giá Giulio Cesare similmente stato ucciso, e Ottavian Cesare insieme con Marco Antonio e con Marco Lepido avendo preso l’oficio del triumvirato, e molti nobili uomini proscritti; sentendo sé esser del numero di quegli, raccolte le reliquie degli eserciti pompeiani, e ancora molti servi tolti dal servigio loro, e armate piú navi, si diede come corsaro ad infestare il mare e a prendere e a rubare e ad uccidere quanti poteva di quegli che delle sue parti non erano. E, tenendo Cicilia e Sardigna, intrachiuse quasi sí il mare, che le opportune cose non potevano a Roma andare, di che egli la condusse a miserabil fame. Col quale essendosi poi paceficati li tre predetti prencipi, poco perseverò nella pace; percioché, raccettando i fuggitivi, li quali erano rimasi degli eserciti di Bruto e di Cassio, fu giudicato nemico della republica. Per la qual cosa avendo trecentocinquanta navi armate, primieramente Menna, suo liberto, con sessanta navi, da lui ribellato, passò nelle parti d’Ottaviano; appresso Statilio Tauro combatté in naval battaglia contro a Menecrate, uno de’ duchi di Sesto, e sconfisselo, e Ottavian Cesare ancora combattendo contro a’ pompeiani gli sconfisse; appresso Marco Agrippa similmente tra Melazzo e Lipari combatté contro a Pompeo e contro a Democare e vinsegli, e nel terzo di trenta navi sommerse in mare o prese; e Pompeo si fuggí a Messina, e Cesare incontanente trapassò a Tauromena, e quivi nella prima giunta fieramente afflisse Pompeo e’ suoi: e in quella rotta molte navi furono affondate, e Pompeo, perdutavi molta della sua gente, se ne rifuggí in Italia. Poi ancora ricolte insieme le sue navi, essendo Agrippa venuto in Cicilia, e Ottaviano veggendo l’armata di Pompeo ordinata, comandò al detto Agrippa che contro ad essa andasse, il quale atrocissimamente commessa co’ nemici la battaglia, vinse i pompeiani e nel torno di centosessantatré navi prese e affondò, e Pompeo si fuggí con forse diciotto, con gran fatica scampato delle mani de’ nemici. Che molte parole? Colui, che poco avanti era signore di trecentocinquanta navi, con sei o con sette si fuggí in Asia. Ultimamente, sforzandosi in Grecia di rifare il suo esercito, e quivi essendo venuto Marco Antonio, e avendo sentito come esso era stato vinto da Cesare, gli mandò comandando che con pochi compagni venisse a lui; ma Pompeio fuggendosi, fu da Tizio e da Furnio, antoniani duci, piú volte vinto, e ultimamente preso e ucciso. Dopo il quale miserabile fine, percioché violento raptore, corseggiando e guerreggiando, fu dell’altrui sostanze e vago versatore del sangue degli uomini, in questo fiume di sangue bogliente, secondo che qui mostra l’autore, fu dalla divina giustizia dannato.

«Ed in eterno munge», questo fiume cosí bogliente, «Le lagrime che col bollor disserra», cioè manda fuori, «a Rinier da Corneto». Questi fu messer Rinieri da Corneto, uomo crudelissimo e di pessima condizione, e ladrone famosissimo ne’ suoi di, gran parte della marittima di Roma tenendo con le sue perverse operazioni e ruberie in tremore. «A Rinier Pazzo». Questi fu messer Rinieri de’ Pazzi di Valdarno, uomo similmente pessimo e iniquo, e notissimo predone e malandrino, per le cui malvagie operazioni l’autore qui il discrive esser dannato. «Che fecero alle strade tanta guerra», pigliando, rubando e uccidendo chi andava e chi veniva.

«Poi si rivolse». Qui comincia la sesta e ultima parte del presente canto, nella quale l’autore, poi che ha discritto ciò che dal centauro dice essergli stato mostrato, ed è stato da lui dall’altra parte portato, mostra come esso, ripassato il fiume, se ne tornasse, dicendo: «Poi», che cosí ebbe detto, «si rivolse», al passo donde passato l’avea, «e ripassossi ’l guazzo», cioè quel fossato del sangue.

II
Senso allegorico

«Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Avendo la ragione co’ suoi utili e sani consigli condotto l’autore, senza lasciarlo nelle miserie temporali intignere l’affezion sua, per infino a qui, e mostratogli i supplici che sostiene la eretica pravitá, e similmente disegnatogli l’ordine degl’inferiori cerchi della prigione eterna, e la qualitá de’ peccatori che in essi si puniscono; in questo canto il conduce a vedere i tormenti della prima spezie de’ violenti, cioè di quegli che nel sangue e nelle sustanzie del prossimo hanno bestialmente usata forza. E, percioché in questo luogo primieramente entra nel cerchio settimo, dove la matta bestialitá è punita, per farne l’autore accorto, gli dimostra la ragione, in un dimonio discritto in forma d’un Minotauro, in che consista la bestialitá. Ad evidenza della quale primieramente presuppone l’autore essere stata vera la favola di sopra narrata del Minotauro, accioché per questa presupposizione piú leggermente si comprenda quello che di dimostrare intende; [e però, questo presupposto, è da considerare qual sia la generazione di questo Minotauro, e quali sieno i suoi costumi; e, questi considerati, assai bene apparirá qual sia la qualitá della bestialitá, e per conseguente de’ bestiali.]

 

[Dico adunque primieramente essere da riguardare in che forma fosse questo animale generato, accioché per questo noi possiam conoscere come negli uomini la bestialitá si crei. Fu adunque, sí come nella favola si racconta, generato costui d’uomo e di bestia, cioè di Pasife e d’un toro: dobbiamo adunque qui intendere per Pasife l’anima nostra, figliuola del Sole, cioè di Dio Padre, il quale è vero sole. Costei è infestata da Venere, cioè dall’appetito concupiscibile e dallo irascibile, in quanto Venere, secondo dicono gli astrologi, è di complessione umida e calda, e però per la sua umiditá è inchinevole alle cose carnali e lascive, e per la sua caldezza ha ad escitare il fervore dell’ira. Questi due appetiti, quantunque l’anima nostra infestino e molestino, mentre essa segue il giudicio della ragione, non la posson muovere a cosa alcuna men che onesta: ma come essa, non curando il consiglio della ragione, s’inchina a compiacere ad alcuno di questi appetiti o ad amenduni, ella cade nel vizio della incontinenzia e giá pare avere ricevuto il veleno di Venere in sé, percioché transvá ne’ vizi naturali. Da’ quali non correggendosi, le piú delle volte si suole lasciare sospignere nell’amor del toro, cioè negli appetti bestiali, li quali son fuori de’ termini degli appetiti naturali, percioché, naturalmente, come mostrato è di sopra, disideriamo di peccare carnalmente, e di mangiare e d’avere, e ancora d’adirarci talvolta: ne’ quali appetiti se noi passiamo i termini della ragione, pecchiamo per incontinenza, e, non trapassando i termini della natura, come detto è, naturalmente pecchiamo; ma, come detto è, di leggieri si trapassano questi termini naturali; percioché poi qualunque s’è l’uno de’ due appetiti ha tratto il freno di mano alla ragione, non essendo chi ponga modo agli stimoli, si lascia l’anima trasportare ne’ disideri bestiali, e cosí si sottomette a questo toro, del quale nasce il Minotauro, cioè il vizio della matta bestialitá generato nell’uomo, in quanto ha ricevuto il malvagio seme degli appetiti e della bestia, in quanto s’è lasciato tirare all’appetito bestiale ne’ peccati bestiali.]

[I costumi di questa bestia, per quello che nella favola e nella lettera si comprenda, son tre: percioché, secondo i poeti scrivono, esso fu crudelissimo, e, oltre a ciò, fu divoratore di corpi umani, e appresso fu maravigliosamente furioso; per li quali tre costumi sono da intendere tre spezie di bestialitá. Ma, vogliendo seguire l’ordine, il quale serva l’autore in punire queste colpe, n’è di necessitá di permutare l’ordine il quale nel raccontare i tre costumi di questa bestia è posto, e da cominciare da quel costume, il quale esser secondo dicemmo, cioè dal divorare le carni umane. Il qual bestial costume ottimamente si riferisce alla violenza, la quale i potenti uomini fanno nelle sustanze e nel sangue del prossimo, le quali essi tante volte divorano con denti leonini o d’altro feroce animale, quante le rubano, ardono o guastano o uccidono ingiustamente: le quali cose quantunque molti altri facciano, ferocissimamente adoperano i tiranni. L’altro costume di questa bestia dissi ch’era l’esser crudelissimo: il qual costume mirabilmente si conforma con coloro che usano violenza nelle proprie cose e nelle loro persone, percioché, come assai manifestamente si vede, quantunque crudel cosa sia l’uccidere e il rubare altrui, quasi dir si puote esser niente per rispetto a ciò ch’è il confonder le cose proprie e all’uccidere se medesimo, percioché questo passa ogni crudeltá che usar si possa nelle cose mondane; e cosí per questo costume ne disegna l’autore in questo animale la seconda spezie de’ violenti. Il terzo costume di questa bestia dissi che fu l’esser fieramente furioso: e questo terzo costume s’appropria ottimamente alla colpa della terza spezie de’ violenti, li quali, in quanto possono, fanno ingiuria a Dio e alle sue cose, o bestemmiando lui, o contro alle naturali leggi o contro al buon costume dell’arte adoperando: e contro a Dio e contro alle sue cose non si commette senza furia, percioché la furia ha ad accecare ogni sano consiglio della mente e ad accenderla e renderla strabocchevole in ogni suo detto e fatto; e cosí per questo terzo costume ne disegna la terza spezie de’ violenti.]

E, poiché la ragione ha mostrato all’autore la bestialitá e’ suoi effetti, ed ella discendendo gli mostra a qual pena dannati sieno quelli che nella prima spezie di violenza peccarono, cioè i tiranni e gli altri che furono micidiali e rubatori e arditori e guastatori delle cose del prossimo; e, sí come nel testo è dimostrato, questi cotali violenti sono in un fiume di sangue boglientissimo, e, secondo il piú e ’l meno aver peccato, sono piú e men tuffati in questo sangue; e, oltre a ciò, accioché niuno non esca de’ termini postigli dalla divina giustizia, vanno d’intorno a questo fiume centauri, con archi e con saette, i quali, incontanente che alcuno uscisse piú fuori del sangue che non si convenisse, quel cotale senza alcuna misericordia saettano e costringono a dover rientrare sotto il sangue. Della qual pena è in parte assai agevole a veder la cagione, percioché e’ par convenevole che in quello, in che l’uomo s’è dilettato, in quello perisca: questi furon sempre, sí come per le loro operazioni appare, vaghi del sangue umano, e, percioché essi quello ingiustamente versarono, vuole la divina giustizia che in esso tuffati piangano; e, percioché essi furono a questa malvagia operazion ferventissimi, vuol similmente la giustizia che per maggior fervore, cioè per lo bollir del sangue, sia in eterno punito il loro: e, oltre a ciò, percioché queste violenze far non si possono senza la forza di certi ministri, sí come sono masnadieri e soldati e i seguaci de’ potenti uomini, gli fa la giustizia saettare a questi cotali, stati nella presente vita loro ministri ed esecutori de’ loro scellerati comandamenti, li quali l’autore intende per li centauri: [de’ quali, peroché nella esposizion letterale alcuna cosa non se ne disse, è qui da vedere un poco piú distesamente.]

[È dunque da sapere che in Tessaglia fu giá un grande uomo chiamato Issione, figliuolo di Flegiás, del quale di sopra si disse; e costui, secondo le poetiche favole, fu di grazia da Giove ricevuto in cielo, e quivi fu fatto da lui segretario di lui e di Giunone. Laonde egli insuperbito per l’oficio, il quale era grande, ebbe ardire di richiedere Giunone di giacer con esso lei; la quale, dolutasi di ciò a Giove, per comandamento di lui adornò in forma e similitudine di sé una nuvola, e quella in luogo di sé concedette ad Issione, non altrimenti che se sé medesima gli concedesse: il quale, giacendo con questa nuvola, generò in lei i centauri. Ed essendo poi da Giove, sdegnato della sua presunzione, gittato del cielo e in terra venutone, ardí di gloriarsi appo gli uomini che esso era giaciuto con Giunone: per la qual cosa turbato Giove il fulminò e mandonnello in inferno, e quivi con molti e crudeli serpenti il fece legare ad una ruota, la quale sempre si volge. L’allegoria della qual favola se attentamente riguarderemo, assai bene cognosceremo che cosa sieno gli appetiti del tiranno, e il tiranno, o di qualunque altro rapace uomo, ancoraché tiranno chiamato non sia, e che cosa i centauri, e come essi il tiranno saettino.]

[Fu adunque, secondo le istorie de’ greci, Issione oltre modo disideroso d’occupare e possedere alcun regno, in tanto che egli si sforzò d’ottenerlo per tirannia. Ora, come altra volta è detto, Giuno intendono alcuna volta i poeti per lo elemento dell’aere, e alcuna volta la ’ntendono per la terra, volendo lei ancora essere reina e dea de’ regni e delle ricchezze; la quale, quando per la terra s’intende e i regni li quali sono in terra, pare che mostrino avere in sé alquanto di stabilitá; quinci intendendosi per aere, il quale è lucido, pare che essa aggiunga a’ reami terreni alcuno splendore, il quale nondimeno è fuggitivo e quasi vano, e leggiermente, si come l’aere, si converte in tenebre. Oltre a ciò, la nuvola si crea nell’aere per operazion del sole, de’ vapori dell’acqua e della terra umida surgenti e condensati nell’aere; ed è la nuvola, cosí condensata, di sua natura caliginosa al viso sensibile, e non si può prendere con mano, né è ancora da alcuna radice fermata, e per questo leggiermente da qualunque vento è in qua e in lá trasportata e impulsa, e alla fine o è dal calore del sole risoluta in aere, o dal freddo dell’aere convertita in piova. Che adunque vuol dire? Non dobbiamo per la nuvola, quantunque infra’ termini della deitá di Giunone creata sia, intendere regno, ma, in quanto ella è in similitudine di Giunone apposta ad alcuno, diremo per quella doversi intendere quello che violentemente in terra si possiede; alla qual cosa è alcuna similitudine di regno, in quanto colui, che violentemente possiede, signoreggia i suoi sudditi, come il vero re i suoi; e cosí pare, mentre le forze gli bastano, che esso comandi e sia ubbidito da’ suoi come è il re. Ma, si come tra ’l chiaro aere e la condensata nuvola è grandissima differenza, cosí è intra ’l re e ’l tiranno: l’aere è risplendente e cosí è il nome reale, la nuvola è oscura e cosí è caliginosa la tirannia; il nome del re è amabile, e quello del tiranno è odibile. Il re sale sopra il real trono ornato degli ornamenti reali, e il tiranno occupa la signoria intorniato d’orribili armi; il re per la quiete e per la letizia de’ sudditi regna, e il tiranno per lo sangue e per la miseria de’ sudditi signoreggia; il re con ogn’ingegno e vigilanza cerca l’accrescimento de’ suoi fedeli, e il tiranno per lo disertamento altrui procura d’accrescere se medesimo; il re si riposa nel seno de’ suoi amici, e il tiranno, cacciati da sé gli amici e i fratelli e’ parenti, pone l’anima sua nelle mani de’ masnadieri e degli scellerati uomini. Per le quali cose, sí come apparisce, diversissimi sono intra sé questi due nomi e gli effetti di quegli; e perciò il re meritamente si può intendere per l’aere splendido, ed essere con lui congiunta alcuna stabilitá, se alcuna cosa si può dire stabile fra queste cose caduche; dove il tiranno, per rispetto della real chiaritá, si può dir nuvola, alla quale niuna stabilitá è congiunta, e perciò ancora che agevolmente si risolve, o dal furore de’ sudditi o dalla negligenza degli amici.]

[Premesse adunque queste cose, leggermente quello che i poeti nella finzion della favola d’Issione si potrá vedere. Dice la favola che Issione fu assunto in cielo: nel qual noi allora ci possiam dire essere ricevuti, quando noi con l’animo contempliamo le cose eccelse, sí come sono le porpore e le corone de’ re, gli splendori egregi, la esimia gloria, la non vinta potenza e i comodi de’ re, li quali, secondo il giudicio degli stolti, sono infiniti; né indebitamente paiono fatti segretari di Giove e di Giunone, quando quello, che a loro appartiene, noi con presuntuoso animo riguardiamo; e allora siamo tirati nel disiderio di giacere con Giunone, quando noi estimiamo queste preeminenze reali essere altro che elle non sono; e allora Issione richiede Giunone di giacer seco, quando, non procedente alcuna ragione, il privato uomo ogni sua forza dispone per essere d’alcuno regno signore. Ma che avviene a questo cotale? È apposta allora la nuvola, avente la similitudine di Giunone: del congiugnimento de’ quali incontanente nascono i centauri, li quali furono uomini d’arme, di superbo animo e senza alcuna temperanza, e inchinevoli ad ogni male, sí come noi veggiamo essere i masnadieri e’ soldati e gli altri ministri delle scellerate cose, alle forze e alla fede de’ quali incontanente ricorre colui il quale tirannescamente occupa alcun paese.]

[E dicono alcuni in singularitá di questi, li quali le favole dicono essere stati generati da Issione, che essi furono nobili cavalieri di Tessaglia, e i primi li quali domarono e infrenarono e cavalcarono cavalli. E percioché cento ne ragunò Issione insieme, furono chiamati «centauri», quasi «cento armati» o «cento Marti», percioché «inarios» in greco viene a dire «Marte» in latino; ovvero piú tosto «cento aure», percioché, sí come il vento velocemente vola, cosí costoro sopra i cavalli velocemente correvano: ma questa etimologia è piú tosto adattata a vocaboli latini che a grechi, e, quantunque ella paia potersi tollerare, non credo però i greci avere questo sentimento del nome de’ centauri.]

 

[E, percioché essi sono figurati mezzi uomini e mezzi cavalli, racconta di loro Servio una cotal favola, in dimostrazione donde ciò avesse principio; e dice che, essendo certi buoi d’un re di Tessaglia fieramente stimolati da mosconi, e per questo essersi messi in fuga, il detto re comandò a certi suoi uomini d’arme gli seguitassero; li quali, non potendo appiè correre quanto i buoi, saliti a cavallo, e giuntigli, gli volsono indietro, e abbeverando essi i lor cavalli nel fiume di Peneo; e tenendo i cavalli le teste chinate nel fiume, furono da quelli della contrada veduti solamente la persona dell’uomo e la parte posteriore de’ cavalli; e da que’ cotali, li quali non erano usi di ciò vedere, furono stimati essere uno animal solo, mezzo uomo e mezzo cavallo; e dal rapportamento di questi trovò luogo la favola e la figurazion di costoro.]

[Ma, tornando alla cagione della loro origine, sono detti costoro essere nati d’Issione, cioè del tiranno e d’una nuvola, cioè delle sustanze del regno ombratile, come di sopra per la nuvola disegnarsi mostrammo; le quali sustanze sono i beni de’ sudditi, de’ quali si mungono e traggono gli stipendi, de’ quali i soldati in loro disfacimento e oppressione sono nutriti e sostenuti. E cosí per le dette cose si può comprender del tiranno, il quale da se medesimo è impotente, e della tirannia occupata, nascere i soldati, cioè essere convocati dal tiranno in difesa di sé, accioché con la forza di questi cotali soldati, essi possan fare, come veggiamo che fanno, le violenze e le ingiurie a’ sudditi, delle quali essi soldati le piú delle volte sono ministri e facitori: ] e perciò vuole la divina giustizia che, cosí come costoro furono strumento alle malvagie opere de’ tiranni, cosí sieno alla lor punizione.

Potrebbesi ancor dire che l’autor avesse voluto intendere, per gli stimoli delle saette de’ centauri ne’ violenti, s’intendessero le sollecitudini continue de’ tiranni, le quali si può credere che abbiano, sí per la non certa fede di cosí fatta gente, e sí ancora per l’avere a trovar modo donde venga di che pagarli; e ancora intorno al tenergli sí corti, che essi [non possano o] non facciano, ne’ sudditi suoi, quello che esso solo vuol fare: e questo è faticoso molto. Ma, comeché nella presente vita si sia, nell’altra si dee intendere le saette, da questi centauri saettate ne’ violenti, essere l’amaritudine della continua ricordazione, la quale hanno delle disoneste e malvagie opere, le quali giá fecero con la forza della gente dell’arme; e cosí coloro, nella cui fede vivendo si misero, nelle cui forze si fidarono, con le mani de’ quali versarono il sangue del prossimo, rubarono le sustanze temporali, occuparono la libertá, sono stimolatori, tormentatori e faticatori delle loro anime nella perdizione eterna.