Za darmo

Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3

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– «E se, – continuando al primo detto», cioè a quello che di sopra avea detto, d’avere due volte cacciati i passati dell’autore; – «Egli han quell’arte», – del tornare donde cacciati sono, «disse, – male appresa», in quanto non tornano in Firenze, «Ciò mi tormenta piú che questo letto», cioè che questo sepolcro acceso, nel quale io giaccio.

«Ma non cinquanta volte fia raccesa La faccia della donna che qui regge».

A dichiarazion di queste parole è da sapere, come altra volta è stato detto, Proserpina esser moglie di Plutone e reina d’inferno; e questa Proserpina talvolta è da intendere per una cosa, e tal per un’altra. E tra l’altre cose, per le quali i poeti la prendono, alcuna volta è per la luna, la quale però si dice reggere in inferno, percioché la sua potenza è grandissima appo questi corpi inferiori, i quali, per rispetto delle cose superiori, si posson dire essere in inferno; e però, intendendosi per la luna, è da sapere la luna di sua natura non avere alcuna luce, sí come noi possiamo vedere negli ecclissi lunari, ne’ quali ella non è veduta dal sole: per la interposizione del corpo della terra tra ’l sole e lei, rimane un corpo rosso senza alcuna luce. E cosí, facendo il suo corso, quanto piú dal sol si dilunga, piú veggiamo del corpo suo lucido, insino a tanto che perviene alla quintadecima, e quivi allora veggiamo tutto il corpo suo luminoso e bello; e cosí si mostra a noi essere «raccesa», cioè ralluminata la faccia sua: poi dal luogo, dove tutta la veggiamo, partendosi, e tornando verso il sole, continuamente par diminuisca il lume suo, in quanto a’ nostri occhi apparisce meno di quello che dal sole è veduto; e cosí se ne va continuamente diminuendo, infino a tanto che entra sotto i raggi del sole; e di sotto a quegli uscendo, comincia, come dinanzi ho detto, a divenire ognora piú luminosa, infino alla quintadecima; e brievemente in trecentocinquantaquattro di ella si raccende, cioè si vede tutta accesa dodici volte, per che possiam dire che in quattro anni, pochi di piú, ella si raccenda cinquanta volte.

E però vuol qui, vaticinando, dire messer Farinata: egli non saranno quattro anni, «Che tu saprai», per esperienza, «quanto quell’arte», del tornare chi è cacciato, «pesa», cioè è grave; volendo per queste parole annunziargli che, avanti che quattro anni fossero, esso sarebbe cacciato di Firenze: il che avvenne avanti che fossero due, o poco piú.

«E se tu mai nel dolce mondo», cioè in questo, il quale, quantunque pieno d’amaritudine sia, è «dolce», cioè dilettevole, a rispetto dello ’nferno; «regge», cioè torni, «Dimmi: perché quel popolo», cioè i cittadini di Firenze, «è si empio», cioè crudele, «Incontr’ a’ miei», cioè agli Uberti, «in ciascuna sua legge»? – delle quali, poiché cacciati furono, mai alcuna non se ne fece, nella quale alcun beneficio si concedesse a’ cacciati di Firenze (se alcuna se ne fece mai), che da quel cotal beneficio non fossero eccettuati gli Uberti generalmente tutti.

«Ond’io a lui», risponde l’autore e dice: – «Lo strazio e ’l crudo scempio, Che fece l’Arbia colorata in rosso, Tali orazion», cioè composizioni contro alla vostra famiglia, «fa far nel nostro tempio», cioè nel nostro senato, nel luogo dove si fanno le riformagioni e gli ordini e le leggi: il quale chiama «tempio», si come facevano i romani, li quali chiamavano talvolta «tempio» il luogo dove le loro diliberazioni facevano.

E accioché pienamente s’abbia lo ’ntelletto della risposta che l’autore fa, è da sapere che, avendo il comun di Firenze guerra col comun di Siena, si fece per opera di messer Farinata, il quale allora era uscito di Firenze, che il re Manfredi mandò in aiuto del comun di Siena il conte Giordano con ottocento tedeschi, li quali avendo, tenne messer Farinata segreto trattato con piú cittadini ghibellini e altri, co’ quali compose quello che poi seguí, come si dirà appresso. Poi con astuzia mandati frati minori, con falsa informazione data loro, agli anziani di Firenze, e loro per parte di coloro, che luogo di comun teneano in Siena, mostrando di dover dar loro una porta di Siena, se ad oste v’andassero; trassero i fiorentini con ogni loro sforzo fuori della cittá, sotto titolo di andare a fornire Monte Alcino, e pervennero infino a Monte Aperti in Val d’Arbia: dove, contro all’opinion di tutti, usciti loro allo ’ncontro i sanesi co’ tedeschi del re Manfredi, e molti dell’oste de’ fiorentini, secondo che con messer Farinata erano in concordia, partitisi dell’oste de’ fiorentini, entrarono in quella de’ sanesi. Di che quantunque sbigottissero i fiorentini, nondimeno, fatte loro schiere, s’avvisarono con la gente de’ sanesi; ed essendo giá la battaglia cominciata, messer Bocca Abati, il quale era di quegli che con messer Farinata sentiva, accostatosi a messer Iacopo del Vacca de’ Pazzi di Firenze, il qual portava l’insegna del comune, levata la spada, ferí il detto messer Iacopo e tagliògli la mano, di che convenne la ’nsegna cadesse; per la qual cosa i fiorentini del tutto rotti, senza segno e senza consiglio, furono sconfitti, e molta gran quantitá di loro e di loro amici furono in quella sconfitta uccisi; il sangue de’ quali n’andò infino in un fiume ivi vicino chiamato Arbia; e ciò fu a dí 4 di settembre 1260. La qual cosa saputa poi pienamente per tutti, fu ed è cagione che, tornati i guelfi in Firenze, mai della famiglia degli Uberti alcuna cosa si volesse udire, se non in disfacimento e distruzion di loro. E per queste cose state per opera di messer Farinata fatte, dice l’autore che fece «l’Arbia colorata in rosso» del sangue de’ fiorentini.

E séguita: «Poi ch’ebbe, sospirando, il capo scosso», come color fanno li quali minacciano, – «A ciò non fu’ io sol – disse», cioè a far questi trattati contro al comun di Firenze; quasi voglia dire: comeché contro alla mia famiglia s’adoperi o procuri ogni disfacimento, e non contro agli altri, che ad adoperar questo fûr meco; – «né certo, Senza cagion con gli altri», che a ciò tennero, «sarei mosso», a dover far quel che si fece: vogliendo per questo intendere che il comun di Firenze, il quale il teneva fuori di casa sua, gli dava giusta cagione d’adoperare ciò che per lui si poteva, per dover tornare in casa sua. Poi segue: «Ma fu’ io sol colá, dove sofferto», cioè acconsentito, «Fu per ciascun», fiorentino che a quello ragionamento si trovò, «di tôrre via Fiorenza», cioè di disfarla, «Colui che la difesi a viso aperto», che essa non fosse disfatta: volendo per questo atto dire che egli e’ suoi dovrebbono sempre esser cari e a grado al comun di Firenze, piú che alcuni altri cittadini.

È il vero che, poi che i ghibellini furon tornati in Firenze per la sconfitta ricevuta a Monte Aperti, e i guelfi partitisi di quella, si ragunarono ad Empoli ambasciadori e sindachi di tutte le terre ghibelline di Toscana, e molti altri nobili uomini ghibellini, e cosí ancora piú gran cittadini di Firenze, per dovere riformare lo stato di parte ghibellina, e far lega e compagnia insieme a dover contrastare a chiunque contro a quella volesse adoperare; e tra l’altre cose che in quello ragunamento furono in bene di parte ghibellina ragionate, fu che la cittá di Firenze si disfacesse e recassesi a borghi, accioché ogni speranza si togliesse a’ guelfi di mai dovervi ritornare; e ciò era generalmente per tutti consentito, e ancora per li fiorentini che v’erano, fuor solamente per uno: e questi fu messer Farinata, il quale, levatosi ritto, con molte e ornate parole contradisse a questo, dicendo, nella fine di quelle, che, se altri non fosse che ciò vietasse, esso sarebbe colui che con la spada in mano, mentre la vita gli bastasse, il vieterebbe a chi far lo volesse. Per le quali parole, avendo riguardo all’autoritá di tanto cavaliere, e ancora alla sua potenza, fu il ragionamento di ciò lasciato stare.

– «Deh! se riposi mai». Qui comincia la sesta particella della terza parte di questo canto, nella quale l’autor muove un dubbio a messer Farinata, ed egli gliele solve. Dice adunque cosí: – «Deh! se riposi mai vostra semenza», – cioè i vostri discendenti; e in queste parole alquanto capta la benivolenza di messer Farinata, accioché piú benivolmente gli sodisfaccia di quello di che intende di domandarlo: «Prega’ io lui, – solvetemi quel nodo», cioè quel dubbio, «Che qui ha inviluppata mia sentenza», cioè il mio giudicio, in tanto che io non ne posso veder quello che io disidero. «El par che voi», cioè anime dannate, «veggiate, se ben odo» quello che voi m’avete detto, e comprendo quello di che messer Cavalcante mi domandò; veggiate «Dinanzi», cioè preveggiate, «quel che ’l tempo seco adduce», nel futuro, «E nel presente» tempo, «tenete altro modo», – in quanto non par che cognosciate né veggiate le cose presenti. E questo dice, percioché messer Farinata gli avea detto che, avanti che quattro anni fossero, egli sarebbe cacciato di Firenze, in che si dimostra loro veder le cose future; e messer Cavalcante l’avea domandato se il figliuolo vivea, in che si dimostra che essi non conoscono le cose presenti.

E messer Farinata gli risponde: – «Noi veggiam come quei c’ha mala luce, Le cose, – disse, – che ne son lontano». Suole questo vizio avvenire agli uomini quando vengono invecchiando, per omori li quali vengon dal cerebro, ed essendo nell’occhio, per la vicinanza loro alla virtú visiva, alquanto l’occupano intorno alla vista delle cose propinque; ma, come la virtú visiva si stende piú avanti, e lontanasi dall’adombrazion dell’omore, tanto men mal vede, e con piú sinceritá riceve le forme obiette. Cosí adunque i dannati, offuscati dalla propinquitá della caligine infernale, non posson le cose propinque vedere; ma, ficcando con la meditazione l’acume dello ’ntelletto per le cose superiori, veggion le piú lontane. E come queste possan vedere o no, quello che per Tullio se ne tiene è dimostrato nel precedente canto, dove l’autore induce Ciacco a predire quello che esser deve della «cittá partita». E séguita: «Cotanto», quanto odi, «ancor ne splende», cioè presta di luce, «il sommo Duce», cioè Iddio, senza la grazia del quale alcuna cosa non si può fare. «Quando s’appressan», le cose future, «n’è del tutto vano Nostro intelletto». in quanto niuna cosa ne conosciamo; «e s’altri», o demonio o anima che tra noi discenda, «non ci apporta», vegnendo dell’altra vita, e di quella ci dica novelle, «Nulla sapem di vostro stato umano», cioè di cosa che lassú si faccia. «Però comprender puoi», da ciò ch’io ti dico, «che tutta morta, Fia nostra conoscenza da quel punto, Che del futuro fia chiusa la porta», – cioè dal dí del giudicio innanzi; percioché allora seranno serrate tutte quelle arche con i loro coperchi, e non saranno piú uomini, se non o dannati o beati, de’ quali niuno fará transito l’uno all’altro; né si faranno sopra la terra alcune operazioni, le quali eziandio gli spiriti dannati possano laggiú riportare; [anzi, secondo tengono i santi, gli spiriti maladetti, de’ quali tutto questo caliginoso aere è pieno, saranno tutti rinchiusi e serrati nel profondo dello ’nferno.]

 

«Allor, come di mia». Qui comincia la settima particula di questa terza parte principale, nella quale l’autore scrive quello che a messer Farinata dicesse che dicesse a quello spirito caduto, e dice: «Allor, come di mia colpa compunto», cioè pentuto di ciò che io non aveva prestamente risposto a messer Cavalcante, che il figliuol vivea; «Diss’io: – Or dicerete a quel caduto», cioè a messer Cavalcante, «Che ’l suo nato», cioè Guido Cavalcanti, «è tra’ vivi», di questa mortal vita, «ancor congiunto», e perciò ancora vive; «E s’io fu’ dianzi», quando me ne domandò, «alla risposta muto», cioè in quanto tacendo non gli risposi, «Fat’ei saper che ’l fe’, perché pensava Gia nell’error che m’avete soluto», – qui poco di sopra.

«E giá il maestro mio mi richiamava; per ch’io pregai lo spirito», di messer Farinata, «piú avaccio», piú tosto, «Che mi dicesse chi con lui stava», in quell’arca.

«Dissemi: – Qui con piú di mille giaccio», quasi voglia dire con infiniti. «Qua dentro», in quest’arca, «è il secondo Federico».

Questo Federigo fu figliuolo d’Arrigo sesto imperadore e nepote di Federigo Barbarossa. Il quale Arrigo per introdotto d’alcuni suoi amici, essendo senza donna, prese con dispensazion della Chiesa per moglie Gostanza, figliuola che fu del buon re Guglielmo di Cicilia, la quale era monaca e giá d’etá di cinquantasei anni, ed ébbene in dota il reame di Cicilia, il quale allora teneva Tancredi (il quale fu de’ discendenti del re Ruggieri, ed era male in concordia con la Chiesa), e dopo lui rimase ad un suo figliuolo chiamato Guglielmo, contro al quale andò il detto Arrigo imperadore, e per tradimento il prese, e rimase libero signor del reame. E della detta Gostanza generò un figliuolo, il qual fu quel Federigo del qual diciamo. E, morendo la detta Gostanza pochi anni appresso la nativitá del figliuolo, lui lasciò nelle braccia e nella guardia della Chiesa, la quale con diligenza l’allevò, e come ad etá perfetta divenne, gli diede la possessione del reame di Cicilia, e non passò guari di tempo che, fattolo eleggere, il coronò imperador di Roma.

Divenne costui maraviglioso uomo e in molte cose eccellente e virtuoso, ma non durò guari in concordia con la Chiesa, per lo volere usurpare le ragioni di quella. Poi, venuto in concordia con lei, sí come ne’ patti della pace par che fosse, fece il passaggio oltre mare; nel quale essendo occupato, la Chiesa gli fece tutto il reame di Cicilia ribellare, e, oltre a ciò, scrisse il papa al soldano la via la qual dovesse tenere a farlo di lá morire. Le quali lettere il soldano, non per amor che portasse allo ’mperadore, ma per seminar zinzania e malavoglienza tra lui e la Chiesa, accioché esso potesse piú sicuro vivere dello stato suo, mostrò allo ’mperadore. Le quali come egli vide e conobbe, concordatosi col soldano, e sapendo ancora come la Chiesa gli avea ribellato il reame, occultamente e con poca compagnia se ne tornò di qua, e fu ricevuto, secondo che alcuni raccontano, in Benevento, e brievemente in piccolissimo spazio di tempo recuperò tutto senza alcuna arme il reame suo. E per dispetto della Chiesa mandò a Tunisi per una gran quantitá di saracini, e diede loro per istanza una cittá stata lungamente disfatta, chiamata Lucera, comeché i volgari la chiamino Nocera, nel mezzo quasi di Puglia piana; ed egli per sé dall’una delle parti, la quale è alquanto piú rilevata che l’altra, vi fece un mirabile e bello e forte castello, il quale ancora è in piè. I saracini nel compreso della terra disfatta fecero le lor case, come ciascun poté meglio; ed essendo il paese ubertoso, volentieri vi dimorarono, e moltiplicarono in tanta quantitá, che essi correvano tutta la Puglia, quando voglia ne venía loro. Oltre a ciò, in Lombardia e in Toscana indebolí forte i sudditi e la parte della Chiesa, e gran guerra menò loro, e molti danni fece, non lasciando nel suo regno usare alcuna sua ragione alla Chiesa.

Fu gran litterato, e nella Magna fu reputato da molto, e gl’infedeli avevan gran paura di lui. Ebbe di diverse femmine piú figliuoli, de’ quali, cosí de’ non legittimi, come de’ legittimi, fece da cinque o vero sei re. Ed essendogli stato da un suo astrolago predetto che egli morrebbe in Fiorenza, sempre si guardò di venire in questa cittá; poi, avvenendo che egli infermò in Puglia, da Manfredi, allora prenze di Taranto, suo figliuolo naturale, e da altri suoi baroni, ne fu cosí infermo portato in una terra di Puglia, la quale ha nome Fiorenza. E quivi, crescendo la ’nfermitá, domandò dove egli fosse; ed essendogli risposto che egli era in Fiorenza, si dolse forte, e subitamente si giudicò morto, e cosí disse a’ suoi. Poi, comeché la infermitá l’aggravasse forte, vogliono alcuni che l’ultima notte che fece in terra, che ’l prenze Manfredi, per disidèro d’avere il mobile suo, gli ponesse un primaccio in su la bocca e facessel morire; e cosí scomunicato e in contumacia di santa Chiesa finí in Fiorenza i giorni suoi. E percioché egli, vivendo, in assai cose aveva mostrato tenere che l’anima insieme col corpo morisse, il pone l’autore in questo luogo esser dannato con gli epicúri, chiamandolo Federigo «secondo», percioché fu il secondo imperadore che avesse nome Federigo.

«E ’l cardinale». Par qui che tutti s’accordino che l’autore, il qual non nomina questo cardinale, voglia intendere del cardinale Ottaviano degli Ubaldini: e percioché egli fu uomo di singulare eccellenza, voglia che, dicendo semplicemente «cardinale», s’intenda di lui. Il quale, secondo che alcuni scrivono, tenne vita piú tosto signorile che chericile; né fu alcuno altro che tanto fosse e si mostrasse ghibellino, quanto egli, in tanto che, senza curarsi che papa o altri se ne avvedesse, fieramente favoreggiò i ghibellini, nemici della Chiesa. E, avendo, senza guardarsi innanzi, aiutati in ciò che potuto avea sempre i ghibellini, e in suo bisogno trovandosi da loro abbandonato, e di ciò dolendosi forte, tra l’altre parole del suo rammarichío disse: – Se anima è, perduta l’ho per li ghibellini. – Nella qual parola fu compreso per molti lui non aver creduto che anima fosse, la qual dopo il corpo vivesse; per la qual cosa l’autore dice lui con gli altri eretici epicúri essere in questo luogo dannato. «E degli altri mi taccio» – quasi voglia dire: io te ne potrei molti altri contare.

«Indi s’ascose». Qui comincia la quarta parte principale del presente canto, nella quale l’autor dice come, tornato a Virgilio, dove con lui, seguitandolo, pervenisse. Dice adunque: «Indi», cioè poi che cosí ebbe detto, «s’ascose», nella sua arca, riponendosi a giacere, «ed io inver’ l’antico poeta volsi i passi», tornandomi a lui, «ripensando A quel parlar che mi parea nimico», cioè a quel che messer Farinata gli avea detto («Ma non cinquanta volte fia raccesa», ecc.).

«Elli», cioè Virgilio, «si mosse», veggendo me tornare, «e poi, cosí andando, Mi disse: – Perché se’ tu si smarrito»? – cioè sbigottito; «Ed io gli satisfeci al suo dimando», dicendogli quello che del mio dovere esser cacciato di Firenze aveva udito da messer Farinata.

– «La mente tua conservi quel ch’udito Hai contra te, – mi comandò quel saggio, – Ed ora attendi qui», a quel ch’io ti vo’ dire, «e drizzò il dito», quasi disegnando, come fanno coloro che piú vogliono le lor parole impriemer nello ’ntelletto dell’uditore. «Quando sarai dinanzi al dolce raggio», cioè alla chiara luce, «Di quella», cioè di Beatrice, «il cui bell’occhio», cioè il santo e divino intelletto, «tutto vede», cioè il preterito, il presente e il futuro; «Da lei saprai di tua vita il viaggio», – cioè come ella dee andare e a che riuscire. E vuole in queste parole Virgilio, per confortar l’autore, mostrare non sempre dire il vero l’anime de’ dannati delle cose che sono a venire; e per questo vuole si conforti, quasi dicendo esser possibile non dover cosí avvenire; ma che, quando sará in cielo, da Beatrice, la quale in Dio vede la veritá d’ogni cosa, saprá il vero di ciò che avvenir gli dee.

«Appresso volse a man sinistra», piegandosi, «il piede; Lasciammo il muro», della terra, dilungandocene, «e gimmo inver’ lo mezzo», della cittá dolente, «Per un sentier ch’ad una valle fiede», cioè riesce, «Che ’nfin lassú facea spiacer suo lezzo», cioè suo puzzo.

Questo canto non ha allegoria alcuna.

CANTO DECIMOPRIMO

«In su l’estremitá d’un’alta ripa», ecc. Continuasi l’autore nel principio di questo canto alla fine del precedente, come è usato infino a qui di fare, e dimostra dove, seguendo Virgilio, pervenisse; il quale è di sopra detto che, lasciando il muro della terra, cominciò ad andar per lo mezzo. E dividesi il presente canto in sette parti: nella prima discrive il luogo dove pervenuti si fermarono e quel che vi trovarono; nella seconda discrive l’autore distintamente tutta la esistenza dello ’nferno, e ancora le qualitá de’ peccatori, le quali deono, procedendo, trovare; nella terza muove l’autore un dubbio a Virgilio, perché piú i peccatori, che ne’ seguenti cerchi sono, sieno puniti dentro alla cittá di Dite, che quegli de’ quali di sopra ha parlato; nella quarta Virgilio, dimostrandogli la cagione, gli solve il dubbio; nella quinta muove l’autore un altro dubbio a Virgilio; nella sesta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella settima Virgilio sollecita l’autore a seguitarlo. E comincia la seconda quivi: «Lo nostro scender»; la terza quivi: «Ed io: – Maestro»; la quarta quivi: «Ed egli a me»; la quinta quivi: – «O sol, che sani»; la sesta quivi: – «Filosofia»; la settima quivi: «Ma seguimi oramai». Cominciando adunque alla prima, dice che pervennero, andando come nella fine del precedente canto ha detto, «In su l’estremitá d’un’alta ripa». «Ripa» è, o artificiale o naturale ch’ella sia, o terreno o pietre, la quale da alcuna altezza discenda al basso, sí diritta che o non presti, o presti con difficultá la scesa per sé di quell’altezza al luogo nel quale essa discende, sí come in assai parti si vede ne’ luoghi montuosi naturalmente essere, o come per fortificamento delle castella e delle cittá gli uomini artificiosamente fanno. E poi séguita: «Che», questa alta ripa, «facevan gran pietre rotte in cerchio», e però appare che non artificialmente fatta, ma per accidente era ruinata; ed erano le pietre «rotte in cerchio», per la qualitá del luogo ch’è ritondo, sí come piú volte è stato dimostrato; «Venimmo» dopo l’essere alquanto andati, «sopra piú crudele stipa». Intende qui l’autore per «stipa» le cose stipate, cioè accumulatamente poste, sí come i naviganti le molte cose poste ne’ lor legni dicono «stivate»; e da questo modo di parlare prendendo l’autore qui forma, vuol che s’intenda che, sotto il luogo dove pervennero, erano stivate grandissime moltitudini di peccatori, in piú crudel pena che quegli li quali infino a quel luogo veduti avea. «E quivi per l’orribile soverchio Del puzzo che ’l profondo abisso», cioè inferno, «gitta», svaporando in su, «Ci raccostammo indietro», accioché men lo sentissimo che standovi dirittamente sopra; e dice s’accostarono «ad un coperchio D’un grand’avello», percioché ancora erano nel cerchio degli eretici, li quali di sopra mostra essere seppelliti in grandissime sepolture ardenti; «ove», cioè al quale avello, «io vidi una scritta», sí come veder si suole nelle sepolture; «Che diceva: ’Anastasio papa guardo’», quasi l’avello parlasse in dimostrazione di chi in lui era seppellito; «Lo qual», Anastasio, «trasse Fotin della via dritta». – Dove è da sapere che questo Anastasio fu di nazione romano, e figliuol d’uno il qual fu chiamato Fortunato, e negli anni di Cristo quattrocentonovantanove fu eletto papa, ma poco tempo visse nel papato; e avendo costui singulare famigliaritá con uno il quale fu chiamato Fotino, e che primieramente era stato diacono di Tessaglia e poi fu fatto vescovo di Gallo-Grecia, una contrada in Asia molto rimota dal mare, fu adunque da questo Fotino corrotto e tratto della cattolica fede, e cadde in una abbominevole eresia, della quale era stato inventore e seminatore uno chiamato Acazio, singulare amico di Fotino. Ed era la eresia questa: che questo Acazio affermava Cristo non essere stato figliuol di Dio, ma di Giuseppo, e ch’esso carnalmente giacendo con la Vergine Maria l’aveva acquistato; e cosí non era vero che la Vergine Maria fosse vergine innanzi il parto e dopo il parto, come i cattolici cristiani fermamente credono. Per la quale eresia il detto Fotino fu dannato e rimosso dalla comunione de’ cristiani. E, volendolo questo papa Anastasio riducere nella comunione cristiana, essendosi contro a ciò levati molti santi padri, e a questo resistendo; avvenne che, essendo il detto papa durato giá un anno e undici mesi e ventitré dí, andato al segreto luogo dove le superfluitá del ventre si dipongono, per divino giudicio, sí come per tutti universalmente si credette, per le parti inferiori gittò e mandò fuori del corpo tutte le interiora, e cosí miseramente nel luogo medesimo spirò. E per questo l’autore estima lui essere stato eretico di quella eresia che detta è, e perciò qui dimostra tra gli altri eretici esser dannato, dicendo lui essere stato da Fotino predetto tratto della «via diritta», cioè della fede cattolica, dalla quale n’è mostrato, e, credendola, siam menati per la diritta via, la quale ne perduce in vita eterna.

 

«Lo nostro scender convien». Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l’autore discrive distintamente la esistenza dello ’nferno, e ancora la qualitá de’ peccatori, li quali deono, procedendo, trovare; e dice: «Lo nostro scender», alle parti inferiori, «convien che sia tardo», cioè adagio; e dimostra la ragion perché, dicendo: «Sí che s’aúsi in prima», che noi vi giugniamo, «un poco il senso», dell’odorato, «Al tristo fiato», cioè puzzo, «e poi» che adusato sará alquanto, «non fia riguardo», – cioè non bisognerá di molto curarsene, «quia assuetis non fit passio». E nel vero e’ si vuole a cosí fatte cose andar con discrezione, percioché assai giá hanno gravissime alterazioni ricevute per lo entrar subito in luoghi o molto odoriferi o molto fetidi; percioché l’uno e l’altro offende il cerebro forte, quando il senso di colui che entra in essi non è familiare o degli odori o de’ puzzi.

«Cosí il maestro», (supple), disse; «ed io: – Alcun compenso – Dissi lui – truova, che ’l tempo non passi Perduto». Questo fu ottimamente detto, e in ciò ciascuno dovrebbe a suo potere dare opera, cioè di non perder tempo, percioché, secondo che a Seneca piace, di quante cose noi abbiamo nella presente vita, solo il tempo è nostro, tutte l’altre cose sono della fortuna; e perciò con gran sollecitudine dobbiamo adoperare che egli non ci passi tra le mani perduto. «Ed egli», rispuose: – «Vedi ch’a ciò penso». Nelle quali parole si può comprendere la circunspezione del savio uomo, il quale mai alle cose opportune non aspetta d’esser sollecitato: e, fattagli la risposta, tantosto séguita quello che nel pensiero gli è venuto di fare, per non dover perder tempo, e dice:

«Figliuol mio, dentro da cotesti sassi», – li quali tu puoi veder di sotto da te, «Cominciò poi a dir, – son tre cerchietti», cioè il settimo e l’ottavo e il nono: e chiamali «cerchietti», percioché sono di circúito piccoli a rispetto di quegli di sopra: «Di grado in grado», cioè, discendendo, l’uno appresso l’altro si trovano, «come» trovati hai «quei che lassi», di sopra da noi. «Tutti», questi tre cerchietti, «son pien di spirti maladetti», cioè dannati; «Ma, perché poi ti basti pur la vista», cioè il vedergli, quando ad essi perverremo, «Intendi come e perché son costretti», gli spirti maladetti che dentro vi sono.

«D’ogni malizia ch’odio in cielo acquista». Malizia è di due maniere: o è malizia corporale, o è malizia mentale. Malizia corporale è quella la quale noi generalmente chiamiamo «infermitá o difetto di corpo»; e questa può essere ancora nelle cose insensibili, quando in esse naturalmente è alcun difetto, sí come alcuna volta è in uno albero, il quale nasce torto o noderoso, o con alcuna altra cosa meritamente biasimevole, secondo la sua qualitá. O è malizia d’anima, la qual propriamente è perversitá di pensiero e di disiderio che nelle nostre anime sia; e questa è pessima spezie di malizia, percioché d’essa mai altro che male non nasce, né può nascere. E perciò l’autore mostra di fare questa distinzione nelle sue parole, in quanto dice «d’ogni malizia ch’odio in cielo acquista», intendendo di questa ultima; percioché la prima alcun odio non acquista in cielo, quantunque ella sia in terra in odio a colui che la patisce; e per tanto dice «odio», perché l’operazioni, le quali seguono della malizia delle nostre menti, son malvagie e dispiacciono a Dio, il qual dimora in cielo; e quindi, perduta la sua grazia, meritiamo l’ira sua, la quale, perseverando noi nel male adoperare, diventa odio, se in esso male adoperare senza pentirci moiamo. «Ingiuria è il fine»; percioché quante volte i nostri maliziosi pensieri si mettono ad esecuzione, mai non si mettono se non per fare ingiuria ad alcuna persona; «ed ogni fin cotale», cioè di fare ingiuria ad alcuno, «O con forza o con frode altrui», cioè colui che riceve la ’ngiuria, «contrista», affligge e noia; mostrando in queste parole due essere i modi ne’ quali per la malizia della nostra mente si fa altrui ingiuria, cioè o violentemente o fraudolentemente.

E questo dimostrato, ne chiarisce in qual di questi due modi piú s’offenda Iddio, dicendo: «Ma perché frode è dell’uom proprio male», cioè che in esso si crea, nasce e dilibera, e in questo è «proprio male» dell’uomo; «Piú spiace a Dio», che non spiace la forza, la quale non è proprio male dell’uomo, conciosiacosaché molte cose esteriori siano all’uomo di necessitá per dovere potere usar la forza, le quali se l’uomo non le si sentirá, non si metterá a doverla usare: «e però», che la fraude spiace a Dio piú che la forza, per la ragion detta, «stan di sotto Gli frodolenti», nell’ottavo e nel nono cerchio, li quali sono di sotto al settimo, nel quale intende dimostrare esser posti e dannati coloro, li quali per forza fanno ingiuria ad altrui, «e», percioché si stanno ne’ cerchi piú inferiori, «piú dolor gli assale», cioè sono oppressi da maggior tormenti.

E, detto questo, viene alla prima parte della sua distinzione, cioè a dimostrare in quanti modi e a quante persone si possa fare per forza ingiuria altrui, e questi modi e persone dimostra esser tre: e cosí dimostra il settimo cerchio esser distinto in tre parti come apparirá. Dice adunque: «Di violenti», cioè di coloro li quali con forza fanno altrui ingiuria, «il primo cerchio è tutto», cioè il primo cerchio de’ tre, li quali mostra essere sotto quei sassi, il quale nel numero de’ cerchi dello ’nferno è settimo; e dice, «è tutto», percioché il distingue, come detto è, in tre parti, le quali tutte e tre son piene di violenti.

E mostra la ragione perché in tre parti il distingua, dicendo: «Ma, perché si fa forza a tre persone», in se medesime diverse e separate, come apparirá; «in tre gironi è distinto e costrutto», questo primo cerchio. E, detto questo, mostra quali sieno le tre persone, alle quali i violenti o fanno o si sforzan di fare ingiuria, dicendo; «A Dio», il qual noi dobbiamo amare e onorare sopra ogni altra cosa, e lui solo adorare, e questi è l’una persona; «a sé» medesimo, cui noi dobbiamo, appresso a Dio, amare piú che alcuna altra cosa, e questo è la seconda persona; «al prossimo», il quale noi dobbiamo amare come noi medesimi.