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Tito d’altra parte ogni cosa sentiva e con gran noia sosteneva; e conoscendo costume esser de’ greci tanto innanzi sospignersi co’ romori e con le minacce quanto penavano a trovar chi loro rispondesse, e allora non solamente umili ma vilissimi divenire, pensò più non fossero senza risposta da comportare le loro novelle. E avendo esso animo romano e senno ateniese, con assai acconcio modo i parenti di Gisippo e que’ di Sofronia in un tempio fé ragunare, e in quello entrato accompagnato da Gisippo solo, così agli aspettanti parlò: «Credesi per molti filosofanti che ciò che s’adopera da’ mortali sia degl’iddii immortali disposizione e provedimento, e per questo vogliono alcuni esser di necessità ciò che ci si fa o farà mai, quantunque alcuni altri sieno che questa necessità impongano a quel ch’è fatto solamente. Le quali oppinioni se con alcuno avvedimento riguardate fieno, assai apertamente si vedrà che il riprender cosa che frastornar non si possa, niuna altra cosa è a fare se non volersi più savio mostrar che gl’iddii, li quali noi dobbiam credere che con ragion perpetua e senza alcuno error dispongano e governino noi e le nostre cose; per che, quanto le loro operazion ripigliare sia matta presunzione e bestiale, assai leggiermente il potete vedere e ancora chenti e quali catene color meritino che tanto in ciò si lasciano trasportar dall’ardire. De’ quali, secondo il mio giudicio, voi siete tutti, se quello è vero che io intendo che voi dovete aver detto e continuamente dite, per ciò che mia moglie Sofronia è divenuta dove lei a Gisippo avavate dato, non riguardando che ab eterno disposto fosse che ella non di Gisippo divenisse ma mia, sì come per effetto si conosce al presente. Ma per ciò che il parlare della segreta providenzia e intenzion degl’iddii pare a molti duro e grave a comprendere, presupponendo che essi di niuno nostro fatto s’impaccino, mi piace di condiscendere a’ consigli degli uomini; de’ quali dicendo, mi converrà far due cose molto a’ miei costumi contrarie. L’una fia alquanto me commendare; e l’altra il biasimare alquanto altrui o avvilire. Ma per ciò che dal vero né nell’una né nell’altra non intendo partirmi, e la presente materia il richiede, il pur farò. I vostri ramarichii, più da furia che da ragione incitati, con continui mormorii, anzi romori, vituperano, mordono e dannano Gisippo per ciò che colei m’ha data per moglie col suo consiglio, che voi a lui col vostro avavate data, là dove io estimo che egli sia sommamente da commendare; e le ragioni son queste: l’una perché egli ha fatto quello che amico dee fare; l’altra perché egli ha più saviamente fatto che voi non avavate. Quello che le sante leggi della amicizia vogliono che l’uno amico per l’altro faccia, non è mia intenzione di spiegare al presente, essendo contento d’avervi tanto solamente ricordato di quelle, che il legame dell’amistà troppo più stringa che quel del sangue o del parentado, con ciò sia cosa che gli amici noi abbiamo quali ce gli eleggiamo e i parenti quali ce gli dà la fortuna. E per ciò, se Gisippo amò più la mia vita che la vostra benivolenza, essendo io suo amico come io mi tengo, niuno se ne dee maravigliare. Ma vegnamo alla seconda ragione, nella quale con più instanzia vi si convien dimostrare lui più essere stato savio che voi non siete, con ciò sia cosa che della providenzia degl’iddii niente mi pare che voi sentiate e molto men conosciate dell’amicizia gli effetti. Dico che il vostro avvedimento, il vostro consiglio e la vostra diliberazione aveva Sofronia data a Gisippo giovane e filosofo, quello di Gisippo la diede a giovane e filosofo; il vostro consiglio la diede a ateniese, e quel di Gisippo a romano; il vostro a un gentil giovane, quel di Gisippo a un più gentile; il vostro a un ricco giovane, quel di Gisippo a un ricchissimo; il vostro a un giovane il quale non solamente non l’amava ma appena la conosceva, quel di Gisippo a un giovane il quale sopra ogni sua felicità e più che la propria vita l’amava. E che quello che io dico sia vero e più da commendare che quello che voi fatto avavate, riguardisi a parte a parte. Che io giovane e filosofo sia come Gisippo, il viso mio e gli studii, senza più lungo sermon farne, il possono dichiarare: una medesima età è la sua e la mia, e con pari passo sempre proceduti siamo studiando. È il vero che egli è ateniese e io romano. Se della gloria delle città si disputerà, io dirò che io sia di città libera e egli di tributaria; io dirò che io sia di città donna di tutto il mondo e egli di città obediente alla mia; io dirò che io sia di città fiorentissima d’arme, d’imperio e di studii dove egli non potrà la sua se non di studii commendare. Oltre a questo, quantunque voi qui scolar mi veggiate assai umile, io non son nato della feccia del popolazzo di Roma: le mie case e i luoghi publici di Roma son pieni d’antiche imagini de’ miei maggiori, e gli annali romani si troveranno pieni di molti triunfi menati da’ Quinzii in sul roman Capitolio: né è per vecchiezza marcita, anzi oggi più che mai fiorisce la gloria del nostro nome. Io mi taccio per vergogna delle mie ricchezze, nella mente avendo che l’onesta povertà sia antico e larghissimo patrimonio de’ nobili cittadini di Roma; la quale, se dalla opinione de’ volgari è dannata e son commendati i tesori, io ne sono, non come cupido ma come amato dalla fortuna, abondante. E assai conosco che egli v’era qui, e doveva essere e dee, caro d’aver per parente Gisippo; ma io non vi debbo per alcuna cagione meno essere a Roma caro, considerando che di me là avrete ottimo oste e utile e sollecito e possente padrone, così nelle pubbliche oportunità come ne’ bisogni privati. Chi dunque, lasciando star la volontà e con ragion riguardando, più i vostri consigli commenderà che quegli del mio Gisippo? Certo niuno. È adunque Sofronia ben maritata a Tito Quinzio Fulvo, nobile, antico e ricco cittadin di Roma e amico di Gisippo: per che chi di ciò si duole o si ramarica, non fa quello che dee né sa quello che egli si fa. Saranno forse alcuni che diranno non dolersi Sofronia esser moglie di Tito ma dolersi del modo nel quale sua moglie è divenuta, nascosamente, di furto, senza saperne amico o parente alcuna cosa. E questo non è miracolo, né cosa che di nuovo avvenga. Io lascio star volentieri quelle che già contro a’ voleri de’ padri hanno i mariti presi e quelle che si sono con li loro amanti fuggite, e prima amiche sono state che mogli, e quelle che prima con le gravidezze o co’ parti hanno i matrimonii palesati che con la lingua, e hagli fatti la necessità aggradire: quello che di Sofronia non è avvenuto, anzi ordinatamente, discretamente e onestamente da Gisippo a Tito è stata data. E altri diranno colui averla maritata a cui di maritarla non apparteneva: sciocche lamentanze son queste e feminili e da poca considerazion procedenti. Non usa ora la fortuna di nuovo varie vie e istrumenti nuovi a recare le cose agli effetti diterminati? Che ho io a curare se il calzolaio più tosto che il filosofo avrà d’un mio fatto secondo il suo giudicio disposto o in occulto o in palese, se il fine è buono? Debbomi io ben guardare, se il calzolaio non è discreto, che egli più non ne possa fare, e ringraziarlo del fatto. Se Gisippo ha ben Sofronia maritata, l’andarsi del modo dolendo e di lui è una stoltizia superflua; se del suo senno voi non vi confidate, guardatevi che egli più maritar non ne possa, e di questa il ringraziate. Nondimeno dovete sapere che io non cercai né con ingegno né con fraude d’imporre alcuna macula all’onestà e alla chiarezza del vostro sangue nella persona di Sofronia; e quantunque io l’abbia occultamente per moglie presa, io non venni come rattore a torle la sua verginità né come nemico la volli men che onestamente avere, il vostro parentado rifiutando; ma ferventemente acceso della sua vaga bellezza e della vertù di lei, conoscendo, se con quello ordine che voi forse volete dire cercata l’avessi, che, essendo ella molto amata da voi, per tema che io a Roma menata non ne l’avessi, avuta non l’avrei. Usai adunque l’arte occulta che ora vi puote essere aperta, e feci Gisippo, a quello che egli di fare non era disposto, consentire in mio nome; e appresso, quantunque io ardentemente l’amassi, non come amante ma come marito i suoi congiugnimenti cercai, non appressandomi prima a lei, sì come essa medesima può con verità testimoniare, che io e con le debite parole e con l’anello l’ebbi sposata, domandandola se ella me per marito volea: a che ella rispose di sì. Se esser le pare ingannato, non io ne son da riprendere, ma ella, che me non dimandò chi io fossi. Questo è adunque il gran male, il gran peccato, il gran fallo adoperato da Gisippo amico e da me amante, che Sofronia occultamente sia divenuta moglie di Tito Quinzio; per questo il lacerate, minacciate e insidiate. E che ne fareste voi più, se egli a un villano, a un ribaldo, a un servo data l’avesse? quali catene, qual carcere, quali croci ci basterieno? Ma lasciamo ora star questo: egli è venuto il tempo il quale io ancora non aspettava, cioè che mio padre sia morto e che a me conviene a Roma tornare, per che, meco volendone Sofronia menare, v’ho palesato quello che io forse ancora v’avrei nascoso; il che, se savi sarete, lietamente comporterete per ciò che, se ingannare o oltreggiare v’avessi voluto, schernita ve la poteva lasciare: ma tolga Idio via questo, che in romano spirito tanta viltà albergar possa giammai. Ella adunque, cioè Sofronia, per consentimento degl’iddii e per vigor delle leggi umane e per lo laudevole senno del mio Gisippo e per la mia amorosa astuzia è mia. La qual cosa voi, per avventura più che gl’iddii o che gli altri uomini savi tenendovi, bestialmente in due maniere forte a me noiose mostra che voi danniate: l’una è Sofronia tenendovi, nella quale, più che mi piaccia, alcuna ragion non avete; e l’altra è il trattar Gisippo, al quale meritamente obligati siete, come nemico. Nelle quali quanto scioccamente facciate io non intendo al presente di più aprirvi, ma come amici vi consigliare che si pongan giuso gli sdegni vostri, e i crucci presi si lascino tutti e che Sofronia mi sia restituita, acciò che io lietamente vostro parente mi parta e viva vostro: sicuri di questo che, o piacciavi o non piacciavi quel che è fatto, se altramenti operare intendeste, io vi torrò Gisippo, e senza fallo, se a Roma pervengo, io riavrò colei che è meritamente mia, mal grado che voi n’abbiate; e quanto lo sdegno de’ romani animi possa, sempre nimicandovi, vi farò per esperienza conoscere.»

 

Poi che Tito così ebbe detto, levatosi in piè tutto nel viso turbato, preso Gisippo per mano, mostrando d’aver poco a cura quanti nel tempio n’erano, di quello crollando la testa e minacciando s’uscì.

Quegli che là entro rimasono, in parte dalle ragioni di Tito al parentado e alla sua amistà indotti e in parte spaventati dall’ultime sue parole, di pari concordia diliberarono essere il migliore d’aver Tito per parente, poi che Gisippo non aveva esser voluto, che aver Gisippo per parente perduto e Tito per nemico acquistato. Per la qual cosa andati, ritrovar Tito e dissero che piaceva lor che Sofronia fosse sua, e d’aver lui per caro parente e Gisippo per buono amico: e fattasi parentevole e amichevole festa insieme, si dipartirono e Sofronia gli rimandarono; la quale, sì come savia, fatta della necessità vertù, l’amore il quale aveva a Gisippo prestamente rivolse a Tito, e con lui se n’andò a Roma, dove con grande onore fu ricevuta.

Gisippo, rimasosi in Atene quasi da tutti poco a capital tenuto, dopo non molto tempo per certe brighe cittadine con tutti quegli di casa sua povero e meschino fu d’Atene cacciato e dannato a essilio perpetuo. Nel quale stando Gisippo e divenuto non solamente povero ma mendico, come poté il men male a Roma se ne venne per provare se di lui Tito si ricordasse; e saputo lui esser vivo e a tutti i roman grazioso e le sue case apparate, dinanzi a esse si mise a star tanto che Tito venne. Al quale egli per la miseria nella quale era non ardì di far motto ma ingegnossi di farglisi vedere, acciò che Tito ricognoscendolo il facesse chiamare; per che, passato oltre Tito e a Gisippo parendo che egli veduto l’avesse e schifatolo, ricordandosi di ciò che già per lui fatto aveva, sdegnoso e disperato si dipartì.

E essendo già notte e esso digiuno e senza denari, senza sapere dove s’andasse, più che d’altro di morir disideroso, s’avenne in un luogo molto salvatico della città: dove veduta una gran grotta, in quella per istarvi quella notte si mise, e sopra la nuda terra e male in arnese, vinto dal lungo pianto, s’adormentò. Alla qual grotta due, li quali insieme erano la notte andati a imbolare, col furto fatto andarono in sul matutino e a quistion venuti, l’uno, che era più forte, uccise l’altro e andò via. La qual cosa avendo Gisippo sentita e veduta, gli parve alla morte molto da lui disiderata, senza uccidersi egli stesso, aver trovata via; e per ciò senza partirsi tanto stette che i sergenti della corte, che già il fatto aveva sentito, vi vennero e Gisippo furiosamente ne menarono preso. Il quale essaminato confessò sé averlo ucciso, né mai poi esser potuto della grotta partirsi; per la qual cosa il pretore, che Marco Varrone era chiamato, comandò che fosse fatto morire in croce, sì come allora s’usava.

Era Tito per ventura in quella ora venuto al pretorio; il quale, guardando nel viso il misero condennato e avendo udito il perché, subitamente il riconobbe esser Gisippo e maravigliossi della sua misera fortuna e come quivi arrivato fosse; e ardentissimamente disiderando d’aiutarlo, né veggendo alcuna altra via alla sua salute se non d’accusar sé e di scusar lui, prestamente si fece avanti e gridò: «Marco Varrone, richiama il povero uomo il quale tu dannato hai, per ciò che egli è innocente: io ho assai con una colpa offesi gl’iddii uccidendo colui il quale i tuoi sergenti questa mattina morto trovarono, senza volere ora con la morte d’un altro innocente offendergli.»

Varrone si maravigliò e dolfegli che tutto il pretorio l’avesse udito; e non potendo con suo onore ritrarsi da far quello che comandavan le leggi, fece indietro ritornar Gisippo e in presenzia di Tito gli disse: «Come fostù sì folle che, senza alcuna pena sentire, tu confessassi quello che tu non facesti giammai, andandone la vita? Tu dicevi che eri colui il quale questa notte avevi ucciso l’uomo, e questi or viene e dice che non tu ma egli l’ha ucciso.»

Gisippo guardò e vide che colui era Tito e assai ben conobbe lui far questo per la sua salute, sì come grato del servigio già ricevuto da lui; per che, di pietà piagnendo, disse: «Varrone, veramente io l’uccisi, e la pietà di Tito alla mia salute è omai troppo tarda.»

Tito d’altra parte diceva: «Pretore, come tu vedi, costui è forestiere e senza arme fu trovato allato all’ucciso, e veder puoi la sua miseria dargli cagione di voler morire: e per ciò liberalo, e me, che l’ho meritato, punisci.»

Maravigliossi Varrone della instanzia di questi due e già presummeva niuno dovere esser colpevole; e pensando al modo della loro absoluzione, e ecco venire un giovane, chiamato Publio Ambusto, di perduta speranza e a tutti i romani notissimo ladrone, il quale veramente l’omicidio avea commesso; e conoscendo niuno de’ due esser colpevole di quello di che ciascun s’accusava, tanta fu la tenerezza che nel cuor gli venne per la innocenzia di questi due, che, da grandissima compassion mosso, venne dinanzi a Varrone e disse: «Pretore, i miei fati mi traggono a dover solvere la dura question di costoro, e non so quale idio dentro mi stimola e infesta a doverti il mio peccato manifestare: e per ciò sappi niun di costoro esser colpevole di quello che ciascun se medesimo accusa. Io son veramente colui che quello uomo uccisi istamane in sul dì; e questo cattivello che qui è là vid’io che si dormiva mentre che io i furti fatti dividea con colui cui io uccisi. Tito non bisogna che io scusi: la sua fama è chiara per tutto lui non essere uomo di tal condizione: adunque liberagli e di me quella pena piglia che le leggi m’impongono.»

Aveva già Ottaviano questa cosa sentita, e fattiglisi tutti e tre venire, udir volle che cagion movesse ciascuno a volere essere il condennato; la quale ciascun narrò. Ottaviano li due per ciò che erano innocenti e il terzo per amor di lor liberò.

Tito, preso il suo Gisippo e molto prima della sua tiepidezza e diffidenza ripresolo, gli fece maravigliosa festa e a casa sua nel menò, là dove Sofronia con pietose lagrime il ricevette come fratello. E ricreatolo alquanto e rivestitolo e ritornatolo nell’abito debito alla sua vertù e gentilezza, primieramente con lui ogni suo tesoro e possessione fece comune e appresso una sua sorella giovinetta, chiamata Fulvia, gli diè per moglie; e quindi gli disse: «Gisippo, a te sta omai o il volere qui appresso di me dimorare o volerti con ogni cosa che donata t’ho in Acaia tornare.» Gisippo, costrignendolo da una parte l’essilio che aveva della sua città e d’altra l’amore il qual portava debitamente alla grata amistà di Tito, a divenir romano s’accordò; dove con la sua Fulvia, e Tito con la sua Sofronia, sempre in una casa gran tempo e lietamente vissero, più ciascun giorno, se più potevano essere, divenendo amici.

Santissima cosa adunque è l’amistà, e non solamente di singular reverenzia degna ma d’essere con perpetua laude commendata, sì come discretissima madre di magnificenzia e d’onestà, sorella di gratitudine e di carità, e d’odio e d’avarizia nemica, sempre, senza priego aspettar, pronta a quello in altrui virtuosamente operare che in sé vorrebbe che fosse operato; li cui sacratissimi effetti oggi radissime volte si veggiono in due, colpa e vergogna della misera cupidigia de’ mortali, la qual solo alla propria utilità riguardando ha costei fuor degli estremi termini della terra in essilio perpetuo rilegata. Quale amore, qual richezza, qual parentado avrebbe il fervore, le lagrime e’ sospiri di Tito con tanta efficacia fatte a Gisippo nel cuor sentire, che egli per ciò la bella sposa gentile e amata da lui avesse fatta divenir di Tito, se non costei? Quali leggi, quali minacce, qual paura le giovenili braccia di Gisippo ne’ luoghi solitari, ne’ luoghi oscuri, nel letto proprio avrebbe fatto astenere dagli abbracciamenti della bella giovane, forse talvolta invitatrice, se non costei? Quali stati, quai meriti, quali avanzi avrebbon fatto Gisippo non curar di perdere i suoi parenti e quei di Sofronia, non curar de’ disonesti mormorii del popolazzo, non curar delle beffe e degli scherni per sodisfare all’amico, se non costei? E d’altra parte, chi avrebbe Tito senza alcuna diliberazione, possendosi egli onestamente infignere di vedere, fatto prontissimo a procurar la propria morte per levar Gisippo dalla croce la quale egli stesso si procacciava, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna dilazione fatto liberalissimo a comunicare il suo ampissimo patrimonio con Gisippo al quale la fortuna il suo aveva tolto, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna suspizione fatto ferventissimo a concedere la propria sorella a Gisippo, il quale vedeva poverissimo e in estrema miseria posto, se non costei?

Disiderino adunque gli uomini la moltitudine de’ consorti, le turbe de’ fratelli e la gran quantità de’ figliuoli e con gli lor denari il numero de’ servidori s’acrescano; e non guardino, qualunque s’è l’un di questi, ogni menomo suo pericolo più temere che sollecitudine aver di tor via i grandi del padre o del fratello o del signore, dove tutto il contrario far si vede all’amico.

NOVELLA NONA

Il Saladino in forma di mercatante è onorato da messer Torello; fassi il passaggio; messer Torello dà un termine alla donna sua a rimaritarsi; è preso e per acconciare uccelli viene in notizia del soldano, il quale, riconosciuto e sé fatto riconoscere, sommamente l’onora; messer Torello inferma e per arte magica in una notte n’è recato a Pavia; e alle nozze che della rimaritata sua moglie si facevano da lei riconosciuto con lei a casa sua se ne torna.

Aveva alle sue parole già Filomena fatta fine, e la magnifica gratitudine di Tito da tutti parimente era stata commendata molto, quando il re, il deretano luogo riserbando a Dioneo, così cominciò a parlare.

Vaghe donne, senza alcun fallo Filomena, in ciò che dell’amistà dice, racconta il vero e con ragione nel fine delle sue parole si dolfe lei oggi così poco da’ mortali esser gradita. E se noi qui per dover correggere i difetti mondani o pur per riprendergli fossimo, io seguiterei con diffuso sermone le sue parole; ma per ciò che altro è il nostro fine, a me è caduto nell’animo di dimostrarvi, forse con una istoria assai lunga ma piacevol per tutto, una delle magnificenzie del Saladino, acciò che per le cose che nella mia novella udirete, se pienamente l’amicizia d’alcuno non si può per li nostri vizii acquistare, almeno diletto prendiamo del servire, sperando che quando che sia di ciò merito ci debba seguire.

Dico adunque che, secondo che alcuni affermano, al tempo dello ’mperador Federigo primo a racquistar la Terra Santa si fece per li cristiani un general passaggio. La qual cosa il Saladino, valentissimo signore e allora soldano di Babilonia, alquanto dinanzi sentendo, seco propose di voler personalmente vedere gli parecchiamenti de’ signori cristiani a quel passaggio, per meglio poter provedersi. E ordinato in Egitto ogni suo fatto, sembiante faccendo d’andare in pellegrinaggio, con due de’ suoi maggiori e più savi uomini e con tre famigliari solamente, in forma di mercatante si mise in cammino. E avendo cerche molte province cristiane e per Lombardia cavalcando per passare oltre a’ monti, avvenne che, andando da Melano a Pavia e essendo già vespro, si scontrarono in un gentile uomo, il cui nome era messer Torello di Stra da Pavia: il quale con suoi famigliari e con cani e con falconi se n’andava a dimorare a un suo bel luogo il quale sopra ’l Tesino aveva.

Li quali come messer Torel vide, avvisò che gentili uomini e stranier fossero e disiderò d’onorargli; per che, domandando il Saladino un de’ suoi famigliari quanto ancora avesse di quivi a Pavia e se a ora giugner potesser d’entrarvi, non lasciò rispondere al famigliar ma rispose egli: «Signori, voi non potrete a Pavia pervenire a ora che dentro possiate entrare.»

«Adunque,» disse il Saladino «piacciavi d’insegnarne, per ciò che stranier siamo, dove noi possiamo meglio albergare.»

Messer Torello disse: «Questo farò io volentieri; io era testé in pensiero di mandare un di questi miei infin vicin di Pavia per alcuna cosa: io nel manderò con voi, e egli vi conducerà in parte dove voi albergherete assai convenevolemente.»

E al più discreto de’ suoi accostatosi, gl’impose quello che egli avesse a fare e mandol con loro; e egli al suo luogo andatosene, prestamente, come si poté il meglio, fece ordinare una bella cena e metter le tavole in un suo giardino; e questo fatto, sopra la porta se ne venne a aspettargli. Il famigliare, ragionando co’ gentili uomini di diverse cose, per certe strade gli trasviò e al luogo del suo signore, senza che essi se n’accorgessero, condotti gli ebbe.

 

Li quali come messer Torel vide, tutto a piè fattosi loro incontro ridendo disse: «Signori, voi siate i molto ben venuti.»

Il Saladino, il quale accortissimo era, s’avide che questo cavaliere aveva dubitato che essi non avesser tenuto lo ’nvito se, quando gli trovò, invitati gli avesse; per ciò, acciò che negar non potessero d’esser la sera con lui, con ingegno a casa sua gli aveva condotti; e risposto al suo saluto, disse: «Messere, se de’ cortesi uomini l’uom si potesse ramaricare, noi ci dorremmo di voi il quale, lasciamo stare del nostro cammino che impedito alquanto avete ma senza altro essere stata da noi la vostra benivolenzia meritata che d’un sol saluto, a prender sì alta cortesia, come la vostra è, n’avete quasi costretti.»

Il cavalier, savio e ben parlante, disse: «Signori, questa che voi ricevete da me, a rispetto di quella che vi si converrebbe, per quello che io ne’ vostri aspetti comprenda, fia povera cortesia; ma nel vero fuor di Pavia voi non potreste essere stati in luogo alcun che buon fosse, e per ciò non vi sia grave l’avere alquanto la via traversata per un poco meno disagio avere.» E così dicendo, la sua famiglia venuta da torno a costoro, come smontati furono, i cavalli adagiarono; e messer Torello i tre gentili uomini menò alle camere per loro apparecchiate, dove gli fece scalzare e rinfrescare alquanto con freschissimi vini e in ragionamenti piacevoli infino all’ora di poter cenare gli ritenne.

Il Saladino e’ compagni e’ famigliari tutti sapevan latino, per che molto bene intendevano e erano intesi, e pareva a ciascun di loro che questo cavalier fosse il più piacevole e ’l più costumato uomo e quegli che meglio ragionasse che alcuno altro che ancora n’avesser veduto. A messer Torello d’altra parte pareva che costoro fossero magnifichi uomini e da molto più che avanti stimato non avea, per che seco stesso si dolea che di compagnia e di più solenne convito quella sera non gli poteva onorare; laonde egli pensò di volere la seguente mattina ristorare, e informato un de’ suoi famigli di ciò che far volea, alla sua donna, che savissima era e di grandissimo animo, nel mandò a Pavia, assai quivi vicina e dove porta alcuna non si serrava.

E appresso questo menati i gentili uomini nel giardino, cortesemente gli domandò chi e’ fossero; al quale il Saladino rispose: «Noi siamo mercatanti cipriani e di Cipri vegniamo e per nostre bisogne andiamo a Parigi.»

Allora disse messer Torello: «Piacesse a Dio che questa nostra contrada producesse così fatti gentili uomini, chenti io veggio che Cipri fa mercatanti!»

E di questi ragionamenti in altri stati alquanto, fu di cenar tempo: per che a loro l’onorarsi alla tavola commise, e quivi, secondo cena sproveduta, furono assai bene e ordinatamente serviti. Né guari, dopo le tavole levate, stettero che, avvisandosi messer Torello loro essere stanchi, in bellissimi letti gli mise a riposare, e esso similmente poco appresso s’andò a dormire.

Il famigliar mandato a Pavia fé l’ambasciata alla donna, la quale non con feminile animo ma con reale, fatti prestamente chiamar degli amici e de’ servidori di messer Torello assai, ogni cosa oportuna a grandissimo convito fece apparecchiare e al lume di torchio molti de’ più nobili cittadini fece al convito invitare, e fé torre panni e drappi e vai e compiutamente mettere in ordine ciò che dal marito l’era stato mandato a dire.

Venuto il giorno, i gentili uomini si levarono, co’ quali messer Torello, montato a cavallo e fatti venire i suoi falconi, a un guazzo vicin gli menò e mostrò loro come essi volassero; ma dimandando il Saladino d’alcuno che a Pavia e al migliore albergo gli conducesse, disse messer Torello: «Io sarò desso, per ciò che esser mi vi conviene.» Costoro credendolsi furon contenti e insieme con lui entrarono in cammino; e essendo già terza e essi alla città pervenuti, avvisando d’essere al migliore albergo inviati, con messer Torello alle sue case pervennero, dove già ben cinquanta de’ maggiori cittadini eran venuti per ricevere i gentili uomini, a’ quali subitamente furon dintorno a’ freni e alle staffe.

La qual cosa il Saladino e’ compagni veggendo, troppo ben s’avisaron ciò che era e dissono: «Messer Torello, questo non è ciò che noi v’avam domandato: assai n’avete questa notte passata fatto e troppo più che noi non vagliamo, per che acconciamente ne potavate lasciare andare al camin nostro.»

A’ quali messer Torello rispose: «Signori, di ciò che iersera vi fu fatto, so io grado alla fortuna più che a voi, la quale a ora vi colse in cammino che bisogno vi fu di venire alla mia piccola casa: di questo di stamattina sarò io tenuto a voi, e con meco insieme tutti questi gentili uomini che dintorno vi sono, a’ quali se cortesia vi par fare il negar di voler con lor desinare, far lo potete, se voi volete.»

Il Saladino e’ compagni vinti smontarono, e ricevuti da’ gentili uomini lietamente furono alle camere menati, le quali ricchissimamente per loro erano apparecchiate; e posti giù gli arnesi da camminare e rinfrescatisi alquanto, nella sala, dove splendidamente era apparecchiato, vennero; e data l’acqua alle mani e a tavola messi con grandissimo ordine e bello, di molte vivande magnificamente furon serviti, in tanto che, se lo ’mperadore venuto vi fosse, non si sarebbe più potuto fargli d’onore. E quantunque il Saladino e’ compagni fossero gran signori e usi di veder grandissime cose, nondimeno si maravigliarono essi molto di questa, e lor pareva delle maggiori, avendo rispetto alla qualità del cavaliere il qual sapevano che era cittadino e non signore.

Finito il mangiare e le tavole levate, avendo alquanto d’alte cose parlato, essendo il caldo grande, come a messer Torel piacque, i gentili uomini di Pavia tutti s’andarono a riposare; e esso con li suoi tre rimase, e con loro in una camera entratosene, acciò che niuna sua cara cosa rimanesse che essi veduta non avessero, quivi si fece la sua valente donna chiamare. La quale, essendo bellissima e grande della persona e di ricchi vestimenti ornata, in mezzo di due suoi figlioletti, che parevan due agnoli, se ne venne davanti a costoro e piacevolmente gli salutò. Essi vedendola si levarono in piè e con reverenzia la ricevettero, e fattala seder fra loro gran festa fecero de’ due belli suoi figlioletti. Ma poi che con loro in piacevoli ragionamenti entrata fu, essendosi alquanto partito messer Torello, essa piacevolmente donde fossero e dove andassero gli domandò; alla quale i gentili uomini così risposero come a messer Torello avevan fatto.

Allora la donna con lieto viso disse: «Adunque veggo io che il mio feminile avviso sarà utile, e per ciò vi priego che di spezial grazia mi facciate di non rifiutare né avere a vile quel piccioletto dono il quale io vi farò venire, ma considerando che le donne secondo il lor picciol cuore piccole cose danno, più al buono animo di chi dà riguardando che alla quantità del don, riguardiate.» E fattesi venire per ciascuno due paia di robe, l’un foderato di drappo e l’altro di vaio, non miga cittadine né da mercatanti ma da signore, e tre giubbe di zendado e pannilini, disse: «Prendete queste: io ho delle robe il mio signore vestito con voi: l’altre cose, considerando che voi siate alle vostre donne lontani e la lunghezza del cammin fatto e quella di quel che è a fare e che i mercatanti son netti e dilicati uomini, ancor che elle vaglian poco, vi potranno esser care.»