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Decameron

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Ma essendo già vespro e parendo allo scolare avere assai fatto, fatti prendere i panni di lei e inviluppare nel mantello del fante, verso la casa della misera donna se n’andò; e quivi sconsolata e trista e senza consiglio la fante di lei trovò sopra la porta sedersi, alla quale egli disse: «Buona femina, che è della donna tua?»

A cui la fante rispose: «Messere, io non so: io mi credeva stamane trovarla nel letto dove iersera me l’era paruta vedere andare, ma io non la trovai né quivi né altrove, né so che si sia divenuta: di che io vivo con grandissimo dolore. Ma voi, messere, saprestemene dire niente?»

A cui lo scolar rispose: «Così avess’io avuta te con lei insieme là dove io ho lei avuta, acciò che io t’avessi della tua colpa così punita come io ho lei della sua! Ma fermamente tu non mi scapperai delle mani che io non ti paghi sì dell’opere tue, che mai di niuno uomo farai beffe che di me non ti ricordi.» E questo detto disse al suo fante: «Dalle cotesti panni e dille che vada per lei, s’ella vuole.»

Il fante fece il suo comandamento; per che la fante, presigli e riconosciutigli, udendo ciò che detto l’era, temette forte non l’avessero uccisa e appena di gridar si ritenne; e subitamente, piagnendo, essendosi già lo scolar partito, con quegli verso la torre n’andò correndo.

Aveva per isciacura un lavoratore di questa donna quel dì due suoi porci smarriti: e, andandogli cercando, poco dopo la partita dello scolare a quella torricella pervenne e andando guatando per tutto se i suoi porci vedesse sentì il miserabile pianto che la sventurata donna faceva: per che salito su quanto poté gridò: «Chi piagne là su?»

La donna cognobbe la voce del suo lavoratore e chiamatol per nome gli disse: «Deh! vammi per la mia fante e fa’ sì che ella possa qua su a me venire.»

Il lavoratore, conosciutala, disse: «Oimè! madonna, e chi vi portò costà su? La fante vostra v’è tutto dì oggi andata cercando: ma chi avrebbe mai pensato che voi doveste essere stata qui?»

E presi i travicelli della scala, la cominciò a drizzar come star dovea e a legarvi con ritorte i bastoni a traverso; e in questo la fante di lei sopravenne, la quale nella torre entrata, non potendo più la voce tenere, battendosi a palme cominciò a gridare: «Oimè! donna mia dolce, ove siete voi?»

La donna udendola, come più forte poté disse: «O sirocchia mia, io son qua su: non piagnere, ma recami tosto i panni miei.»

Quando la fante l’udì parlare, quasi tutta riconfortata salì su per la scala già presso che racconcia da’ lavoratore, e aiutata da lui in sul battuto pervenne; e vedendo la donna sua non corpo umano ma più tosto un cepperello inarsicciato parere, tutta vinta, tutta spunta, e giacere in terra ignuda, messesi l’unghie nel viso cominciò a piagnere sopra di lei non altramenti che se morta fosse. Ma la donna la pregò per Dio che ella tacesse e lei rivestire aiutasse; e avendo da lei saputo che niuna persona sapeva dove ella stata fosse, se non coloro che i panni portati l’aveano e il lavoratore che al presente v’era, alquanto di ciò racconsolata, gli pregò per Dio che mai a alcuna persona di ciò niente dicessero. Il lavoratore, dopo molte novelle, levatasi la donna in collo che andar non poteva, salvamente infino fuori della torre la condusse. La fante cattivella, che di dietro era rimasa, scendendo meno avvedutamente, smucciandole il piede, cadde della scala in terra e ruppesi la coscia, e per lo dolor sentito cominciò a mugghiar che pareva un leone.

Il lavoratore, posata la donna sopra a uno erbaio, andò a vedere che avesse la fante, e trovatala con la coscia rotta similmente nello erbaio la recò e allato alla donna la pose; la quale veggendo questo a giunta degli altri suoi mali avvenuto e colei avere rotta la coscia da cui ella sperava essere aiutata più che da altrui, dolorosa senza modo rincominciò il suo pianto tanto miseramente, che non solamente il lavoratore non la poté racconsolare ma egli altressì cominciò a piagnere. Ma essendo già il sol basso, acciò che quivi non gli cogliesse la notte, come alla sconsolata donna piacque, n’andò alla casa sua: e quivi chiamati due suoi fratelli e la moglie e là tornati con una tavola, su v’acconciaron la fante e alla casa ne la portarono; e riconfortata la donna con un poco d’acqua fresca e con buone parole, levatalasi il lavoratore in collo, nella camera di lei la portò. La moglie del lavoratore, datole mangiar pan lavato e poi spogliatala, nel letto la mise; e ordinarono che essa e la fante fosser la notte portate a Firenze, e così fu fatto.

Quivi la donna, che aveva a gran divizia lacciuoli, fatta una sua favola tutta fuori dell’ordine delle cose avvenute, sì di sé e sì della sua fante fece a’ suoi fratelli e alle sirocchie e a ogni altra persona credere che per indozzamenti di demoni questo loro fosse avvenuto. I medici furon presti, e non senza grandissima angoscia e affanno della donna, che tutta la pelle più volte appicata lasciò alle lenzuola, lei d’una fiera febbre e degli altri accidenti guerirono, e similmente la fante della coscia. Per la qual cosa la donna, dimenticato il suo amante, da indi innanzi e di beffare e d’amare si guardò saviamente; e lo scolar, sentendo alla fante la coscia rotta, parendogli avere assai intera vendetta, lieto senza altro dirne se ne passò.

Così adunque alla stolta giovane adivenne delle sue beffe, non altramenti con uno scolare credendosi frascheggiare che con un altro avrebbe fatto, non sappiendo bene che essi, non dico tutti ma la maggior parte, sanno dove il diavolo tien la coda. E per ciò guardatevi, donne, dal beffare, e gli scolari spezialmente.

NOVELLA OTTAVA

Due usano insieme: l’uno con la moglie dell’altro si giace; l’altro, avvedutosene, fa con la sua moglie che l’uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l’un dentro, l’altro con la moglie dell’un si giace.

Gravi e noiosi erano stati i casi d’Elena a ascoltare alle donne, ma per ciò che in parte giustamente avvenutigli gli estimavano, con più moderata compassione gli avean trapassati, quantunque rigido e constante fieramente, anzi crudele, reputassero lo scolare. Ma essendo Pampinea venutane alla fine, la reina alla Fiammetta impose che seguitasse; la quale, d’ubidire disiderosa, disse.

Piacevoli donne, per ciò che mi pare che alquanto trafitte v’abbia la severità dell’offeso scolare, estimo che convenevole sia con alcuna cosa più dilettevole ramorbidare gl’innacerbiti spiriti; e per ciò intendo di dirvi una novelletta d’un giovane, il quale con più mansueto animo una ingiuria ricevette e quella con più moderata operazion vendicò; per la quale potrete comprendere che assai dee bastare a ciascuno se quale asino dà in parete tal riceve, senza volere, soprabondando oltre la convenevolezza della vendetta, ingiuriare, dove l’uomo si mette alla ricevuta ingiuria vendicare.

Dovete adunque sapere che in Siena, sì come io intesi, già furon due giovani assai agiati e di buone famiglie popolane, de’ quali l’uno ebbe nome Spinelloccio Tavena e l’altro ebbe nome Zeppa di Mino, e amenduni eran vicini a casa in Camollia. Questi due giovani sempre usavano insieme e, per quello che mostrassono, così s’amavano, o più, come se stati fosser fratelli; e ciascun di loro avea per moglie una donna assai bella.

Ora avvenne che Spinelloccio, usando molto in casa del Zeppa, e essendovi il Zeppa e non essendovi, per sì fatta maniera con la moglie del Zeppa si dimesticò, che egli incominciò a giacersi con essolei; e in questo continuarono una buona pezza avanti che persona se n’avedesse. Pure al lungo andare, essendo un giorno il Zeppa in casa e non sappiendolo la donna, Spinelloccio venne a chiamarlo. La donna disse che egli non era in casa: di che Spinelloccio, prestamente andato su e trovata la donna nella sala e veggendo che altri non v’era, abbracciatala la cominciò a basciare, e ella lui. Il Zeppa, che questo vide, non fece motto ma nascoso si stette a veder quello a che il giuoco dovesse riuscire; e brievemente egli vide la sua moglie e Spinelloccio così abbracciati andarsene in camera e in quella serrarsi; di che egli si turbò forte. Ma conoscendo che per far romore né per altro la sua ingiuria non ne diveniva minore, anzi ne crescea la vergogna, si diede a pensar che vendetta di questa cosa dovesse fare, che, senza sapersi da torno, l’animo suo rimanesse contento; e dopo lungo pensiero parendogli aver trovato il modo, tanto stette nascoso quanto Spinelloccio stette con la donna.

Il quale come andato se ne fu, così egli nella camera se n’entrò, dove trovò la donna che ancora non s’era compiuta di racconciare i veli in capo, li quali scherzando Spinelloccio fatti l’aveva cadere, e disse: «Donna, che fai tu?»

A cui la donna rispose: «Noi vedi tu?»

Disse il Zeppa: «Sì bene, sì, ho io veduto anche altro che io non vorrei!» e con lei delle cose state entrò in parole; e essa con grandissima paura dopo molte novelle quello avendogli confessato che acconciamente della sua dimestichezza con Ispinelloccio negar non potea, piagnendo gl’incominciò a chieder perdono.

Alla quale il Zeppa disse: «Vedi, donna, tu hai fatto male; il quale se tu vuogli che io ti perdoni, pensa di far compiutamente quello che io t’imporrò, il che è questo. Io voglio che tu dichi a Spinelloccio che domattina in su l’ora della terza egli truovi qualche cagione di partirsi da me e venirsene qui a te; e quando egli ci sarà, io tornerò, e come tu mi senti così il fa entrare in questa cassa e serracel dentro: poi quando questo fatto avrai, e io ti dirò il rimanente che a fare avrai; e di far questo non aver dottanza niuna, ché io ti prometto che io non gli farò male alcuno.» La donna, per sodisfargli, disse di farlo, e così fece.

Venuto il dì seguente, essendo il Zeppa e Spinelloccio insieme in su la terza, Spinelloccio, che promesso aveva alla donna d’andare a lei a quella ora, disse al Zeppa: «Io debbo staman desinare con alcuno amico al quale io non mi voglio fare aspettare, e per ciò fatti con Dio.»

 

Disse il Zeppa: «Egli non è ora di desinare di questa pezza.»

Spinelloccio disse: «Non fa forza; io ho altressì a parlar seco d’un mio fatto, sì che egli mi vi convien pure essere a buona ora.»

Partitosi adunque Spinelloccio dal Zeppa, data una sua volta, fu in casa con la moglie di lui; e essendosene entrati in camera, non stette guari che il Zeppa tornò; il quale come la donna sentì, mostratasi paurosa molto, lui fece ricoverare in quella cassa che il marito detto l’avea e serrollovi entro e uscì della camera.

Il Zeppa giunto suso disse: «Donna, è egli otta di desinare?»

La donna rispose: «Sì, oggimai.»

Disse allora il Zeppa: «Spinelloccio è andato a desinare stamane con un suo amico e ha la donna sua lasciata sola: fatti alla finestra e chiamala e di’ che venga a desinar con essonoi.»

La donna, di se stessa temendo e per ciò molto ubidente divenuta, fece quello che il marito le ’mpose. La moglie di Spinelloccio, pregata molto dalla moglie del Zeppa, vi venne, udendo che il marito non vi doveva desinare; e quando ella venuta fu, il Zeppa, faccendole le carezze grandi e presala dimesticamente per mano, comandò pianamente alla moglie che in cuscina n’andasse, e quella seco ne menò in camera, nella quale come fu, voltatosi adietro, serrò la camera dentro. Quando la donna vide serrare la camera dentro, disse: «Oimè, Zeppa, che vuol dir questo? dunque mi ci avete voi fatta venir per questo? ora è questo l’amore che voi portate a Spinelloccio e la leale compagnia che voi gli fate?»

Alla quale il Zeppa, accostatosi alla cassa dove serrato era il marito di lei e tenendola bene, disse: «Donna, in prima che tu ti ramarichi, ascolta ciò che io ti vo’ dire. Io ho amato e amo Spinelloccio come fratello; e ieri, come che egli nol sappia, io trovai che la fidanza la quale io ho di lui avuta era pervenuta a questo, che egli con la mia donna così si giace come con teco. Ora, per ciò che io l’amo, non intendo di volere di lui pigliare se non quale è stata l’offesa: egli ha la mia donna avuta, e io intendo d’aver te. Dove tu non vogli, per certo egli converrà che io il ci colga; e per ciò che io non intendo di lasciare questa vendetta impunita, io gli farò giuco che né tu né egli sarete mai lieti.»

La donna, udendo questo, e dopo molte riconfermazioni fattelene dal Zeppa credendol, disse: «Zeppa mio, poi che sopra me dee cadere questa vendetta, e io son contenta, sì veramente che tu mi facci, di questo che far dobbiamo, rimanere in pace con la tua donna, come io, non obstante quello che ella m’ha fatto, intendo di rimaner con lei.»

A cui il Zeppa rispose: «Sicuramente io il farò; e oltre a questo ti donerò un così caro e bel gioiello come niuno altro che tu n’abbi»; e così detto, abbracciatala e cominciatala a basciare, la distese sopra la cassa nella quale era il marito di lei serrato e quivi su, quanto gli piacque, con lei si sollazzò e ella con lui.

Spinelloccio, che nella cassa era e udite aveva tutte e parole dal Zeppa dette e la risposta della sua moglie e poi avea sentita la danza trivigiana che sopra il capo fatta gli era, una grandissima pezza sentì tal dolore, che parea che morisse; e se non fosse che egli temeva del Zeppa, egli avrebbe detta alla moglie una gran villania così rinchiuso come era. Poi, pur ripensandosi che da lui era la villania incominciata e che il Zeppa aveva ragione di far ciò che egli faceva e che verso di lui umanamente e come compagno s’era portato, seco stesso disse di volere esser più che mai amico del Zeppa, quando volesse.

Il Zeppa, stato con la donna quanto gli piacque, scese della cassa; e domandando la donna il gioiello promesso, aperta la camera fece venir la moglie, la quale niuna altra cosa disse se non: «Madonna, voi m’avete renduto pan per focaccia» e questo disse ridendo.

Alla quale il Zeppa disse: «Apri questa cassa», e ella il fece: nella quale il Zeppa mostrò alla donna il suo Spinelloccio.

E lungo sarebbe a dire qual più di lor due si vergognò, o Spinelloccio vedendo il Zeppa e sappiendo che egli sapeva ciò che fatto aveva, o la donna vedendo il suo marito e conoscendo che egli aveva e udito e sentito ciò che ella sopra il capo fatto gli aveva.

Alla quale il Zeppa disse: «Ecco il gioiello il quale io ti dono.»

Spinelloccio, uscito della cassa, senza far troppe novelle disse: «Zeppa, noi siam pari pari, e per ciò è buono, come tu dicevi dianzi alla mia donna, che noi siamo amici come solavamo e, non essendo tra noi dua niuna altra cosa che le mogli divisa, che noi quelle ancora comunichiamo.»

Il Zeppa fu contento, e nella miglior pace del mondo tutti e quatro desinarono insieme; e da indi innanzi ciascuna di quelle donne ebbe due mariti e ciascun di loro ebbe due mogli, senza alcuna quistione o zuffa mai per quello insieme averne.

NOVELLA NONA

Maestro Simone medico da Bruno e da Buffalmacco, per esser fatto d’una brigata che va in corso, fatto andar di notte in alcun luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di bruttura e lasciatovi.

Poi che le donne alquanto ebber cianciato dello accomunar le mogli fatto da’ due sanesi, la reina, alla qual sola restava a dire per non fare iniuria a Dioneo, incominciò.

Assai bene, amorose donne, si guadagnò Spinelloccio la beffa che fatta gli fu dal Zeppa; per la qual cosa non mi pare che agramente sia da riprendere, come Pampinea volle poco innanzi mostrare, chi fa beffa alcuna a colui che la va cercando o che la si guadagna. Spinelloccio la si guadagnò; e io intendo di dirvi d’uno che se l’andò cercando, estimando che quegli che gliele fecero non da biasimare ma da commendar sieno. E fu colui a cui fu fatta un medico che a Firenze da Bologna, essendo una pecora, tornò tutto coperto di pelli di vai.

Sì come noi veggiamo tutto il dì, i nostri cittadini da Bologna ci tornano qual giudice e qual medico e qual notaio, co’ panni lunghi e larghi e con gli scarlatti e co’ vai e con altre assai apparenze grandissime, alle quali come gli effetti succedano anche veggiamo tutto giorno.

Tra’ quali un maestro Simone da Villa, più ricco di ben paterni che di scienza, non ha gran tempo, vestito di scarlatto e con un gran batalo, dottor di medicine, secondo che egli medesimo diceva, ci ritornò, e prese casa nella via la quale noi oggi chiamiamo la Via del Cocomero. Questo maestro Simone, novellamente tornato sì come è detto, tra gli altri suoi costumi notabili aveva in costume di domandare chi con lui era chi fosse qualunque uomo veduto avesse per via passare; e quasi degli atti degli uomini dovesse le medicine che dar doveva a’ suoi infermi comporre, a tutti poneva mente e raccoglievagli.

E intra gli altri, li quali con più efficacia gli vennero gli occhi addosso posti, furono due dipintori de’ quali s’è oggi qui due volte ragionato, Bruno e Buffalmacco, la compagnia de’ quali era continua, e eran suoi vicini. E parendogli che costoro meno che alcuni altri del mondo curassero e più lieti vivessono, sì come essi facevano, più persone domandò di lor condizione; e udendo da tutti costoro essere poveri uomini e dipintori, gli entrò nel capo non dover potere essere che essi dovessero così lietamente vivere della lor povertà, ma s’avisò, per ciò che udito aveva che astuti uomini erano, che d’alcuna altra parte non saputa dagli uomini dovesser trarre profetti grandissimi; e per ciò gli venne in disidero di volersi, se esso potesse, con ammenduni, o con l’uno almeno, dimesticare; e vennegli fatto di prender dimestichezza con Bruno. E Bruno, conoscendolo in poche di volte che con lui stato era questo medico essere uno animale, cominciò di lui a avere il più bel tempo del mondo con sue nuove novelle; e il medico similemente cominciò di lui a prendere maraviglioso piacere. E avendolo alcuna volta seco invitato a desinare e per questo credendosi dimesticamente con lui poter ragionare, gli disse la maraviglia che egli si faceva di lui e di Buffalmacco, che essendo poveri uomini così lietamente viveano; e pregollo che gl’insegnasse come faceano.

Bruno, udendo il medico e parendogli la dimanda dell’altre sue sciocche e dissipite, cominciò a ridere e pensò di rispondergli secondo che alla sua pecoraggine si convenia, e disse: «Maestro, io nol direi a molte persone come noi facciamo, ma di dirlo a voi, perché siete amico e so che a altrui nol direte, non mi guarderò. Egli è vero che il mio compagno e io viviamo così lietamente e così bene come vi pare e più; né di nostra arte né d’altro frutto, che noi d’alcune possessioni traiamo, avremmo da poter pagar pur l’acqua che noi logoriamo. Né voglio per ciò che voi crediate che noi andiamo a imbolare, ma noi andiamo in corso, e di questo ogni cosa che a noi è di diletto o di bisogno, senza alcun danno d’altrui, tutto traiamo: e da questo viene il nostro viver lieto che voi vedete.»

Il medico, udendo questo e senza saper che si fosse credendolo, si maravigliò molto e subitamente entrò in disidero caldissimo di sapere che cosa fosse l’andare in corso, affermandogli che per certo mai a niuna persona il direbbe.

«Omè!» disse Bruno «maestro, che mi domandate voi? Egli è troppo gran segreto quello che voi volete sapere, e è cosa da disfarmi e da cacciarmi del mondo, anzi da farmi mettere in bocca del lucifero da San Gallo, se altri il risapesse: ma sì è grande l’amor che io porto alla vostra qualitativa mellonaggine da Legnaia e alla fidanza la quale ho in voi, che io non posso negarvi cosa che voi vogliate; e per ciò io il vi dirò con questo patto, che voi per la croce a Montesone mi giurerete che mai, come promesso avete, a niuno il direte.»

Il maestro affermò che non farebbe.

«Dovete adunque,» disse Bruno «maestro mio dolciato, sapere che egli non è ancora guari che in questa città fu un gran maestro in nigromantia il quale ebbe nome Michele Scotto, per ciò che di Scozia era, e da molti gentili uomini, de’ quali pochi oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui partire, a instanzia de’ prieghi loro ci lasciò due suoi sufficienti discepoli, a’ quali impose che a ogni piacere di questi cotali gentili uomini, che onorato l’aveano, fossero sempre presti. Costoro adunque servivano i predetti gentili uomini di certi loro innamoramenti e d’altre cosette liberamente; poi, piacendo loro la città e i costumi degli uomini, ci si disposero a voler sempre stare e preserci di grandi e di strette amistà con alcuni, senza guardare chi essi fossero, più gentili che non gentili o più ricchi che poveri, solamente che uomini fossero conformi a’ lor costumi. E per compiacere a questi così fatti loro amici ordinarono una brigata forse di venticinque uomini, li quali due volte almeno il mese insieme si dovessero ritrovare in alcun luogo da loro ordinato: e quivi essendo, ciascuno a costoro il suo disidero dice, e essi prestamente per quella notte il forniscono. Co’ quali due avendo Buffalmacco e io singulare amistà e dimestichezza, da loro in cotal brigata fummo messi e siamo. E dicovi così che, qualora egli avvien che noi insieme ci raccogliamo, è maravigliosa cosa a vedere i capoletti intorno alla sala dove mangiamo e le tavole messe alla reale e la quantità de’ nobili e belli servidori, così femine come maschi, al piacer di ciascuno che è di tal compagnia, e i bacini, gli orciuoli, i fiaschi e le coppe e l’altro vasellamento d’oro e d’argento, ne’ quali noi mangiamo e beamo; e oltre a questo le molte e varie vivande, secondo che ciascun disidera, che recate ci sono davanti ciascheduna a suo tempo. Io non vi potrei mai divisare chenti e quanti sieno i dolci suoni d’infiniti strumenti e i canti pieni di melodia che vi s’odono, né vi potrei dire quanta sia la cera che vi s’arde a queste cene né quanti sieno i confetti che vi si consumano e come sieno preziosi i vini che vi si beono. E non vorrei, zucca mia da sale, che voi credeste che noi stessomo là in questo abito o con questi panni che ci vedete: egli non ve ne è niuno sì cattivo che non vi paresse uno imperadore, sì siamo di cari vestimenti e di belle cose ornati. Ma sopra tutti gli altri piaceri che vi sono si è quello delle belle donne, le quali subitamente, pur che l’uom voglia, di tutto il mondo vi son recate. Voi vedreste quivi la donna de’ barbanicchi, la reina de’ baschi, la moglie del soldano, la ’mperadrice d’Osbech, la ciancianfera di Norrueca, la semistante di Berlinzone e la scalpedera di Narsia. Che vi vo io annoverando? E’ vi sono tutte le reine del mondo, io dico infino alla schinchimurra del Presto Giovanni; or vedete oggimai voi! Dove, poi che hanno bevuto e confettato, fatta una danza o due, ciascuna con colui a cui stanza v’è fatta venire se ne va nella sua camera. E sappiate che quelle camere paiono un paradiso a vedere, tanto son belle, e sono non meno odorifere che sieno i bossoli dalle spezie della bottega vostra, quando voi fate pestare il comino; e havvi letti che vi parrebber più belli che quello del doge di Vinegia, e in quegli a riposar se ne vanno. Or che menar di calcole e di tirar le casse a sé, per fare il panno serrato, faccian le tessitrici, lascerò io pensar pur a voi! Ma tra gli altri che meglio stanno, secondo il parer mio, siam Buffalmacco e io, per ciò che Buffalmacco le più delle volte vi fa venir per sé la reina di Francia e io per me quella d’Inghilterra, le quali son due pur le più belle donne del mondo; e sì abbiamo saputo fare, che elle non hanno altro occhio in capo che noi. Per che da voi medesimo pensar potete se noi possiamo e dobbiamo vivere e andare più che gli altri uomini lieti, pensando che noi abbiamo l’amore di due così fatte reine: senza che, quando noi vogliamo un mille o un dumilia fiorini da loro, noi non gli abbiamo. E questa cosa chiamiam noi volgarmente l’andare in corso: per ciò che sì come i corsari tolgono la roba d’ogni uomo, e così facciam noi: se non che di tanto siamo differenti da loro, che eglino mai non la rendono e noi la rendiamo, come adoperata l’abbiamo. Ora avete, maestro mio da bene, inteso ciò che noi diciamo l’andare in corso; ma quanto questo voglia esser segreto, voi il vi potete vedere, e per ciò più nol vi dico né ve priego.»

 

Il maestro, la cui scienza non si stendeva forse più oltre che il medicare i fanciulli del lattime, diede tanta fede alle parole di Bruno quanta si saria convenuta a qualunque verità; e in tanto disiderio s’accese di volere essere in questa brigata ricevuto, quanto di qualunque altra cosa più disiderabile si potesse essere acceso. Per la qual cosa a Bruno rispose che fermamente maraviglia non era se lieti andavano, e a gran pena si temperò in riservarsi di richiederlo che essere il vi facesse infino a tanto che, con più onor fattogli, gli potesse con più fidanza porgere i prieghi suoi. Avendoselo adunque riservato, cominciò più a continuare con lui l’usanza e a averlo da sera e da mattina a mangiar seco e a mostrargli smisurato amore; e era sì grande e sì continua questa loro usanza, che non parea che senza Bruno il maestro potesse né sapesse vivere.

Bruno, parendogli star bene, acciò che ingrato non paresse di questo onor fattogli dal medico, gli aveva dipinta nella sala sua la Quaresima e uno agnusdei all’entrar della camera e sopra l’uscio della via uno orinale, acciò che coloro che avessero del suo consiglio bisogno il sapessero riconoscer dagli altri; e in una sua loggetta gli aveva dipinta la battaglia de’ topi e delle gatte, la quale troppo bella cosa pareva al medico; e oltre a questo diceva alcuna volta al maestro, quando con lui non aveva cenato: «Stanotte fu’ io alla brigata: e essendomi un poco la reina d’Inghilterra rincresciuta, mi feci venir la gumedra del gran can d’Altarisi.»

Diceva il maestro: «Che vuol dir gumedra? Io non gl’intendo questi nomi.»

«O maestro mio,» diceva Bruno «io non me ne maraviglio, ché io ho bene udito dire che Porcograsso e Vannaccena non ne dicon nulla.»

Disse il maestro: «Tu vuoi dire Ipocrasso e Avicena.»

Disse Bruno: «Gnaffé! io non so: io m’intendo così male de’ vostri nomi come voi de’ miei; ma la gumedra in quella lingua del gran cane vuol tanto dire quanto imperadrice nella nostra. O ella vi parrebbe la bella feminaccia! Ben vi so dire che ella vi farebbe dimenticare le medicine e gli argomenti e ogni impiastro.»

E così dicendogli alcuna volta per più accenderlo, avvenne che, parendo a messer lo maestro una sera a vegghiare (parte che il lume teneva a Bruno e ch’e’ la battaglia de’ topi e delle gatte dipigneva) bene averlo co’ suoi onor preso, che egli si dispose d’aprirgli l’animo suo; e soli essendo gli disse: «Bruno, come Idio sa, egli non vive oggi alcuna persona per cui io facessi ogni cosa come io farei per te, e per poco, se tu mi dicessi che io andassi di qui a Peretola, io credo che io v’andrei; e per ciò non voglio che tu ti maravigli se io te dimesticamente e a fidanza richiederò. Come tu sai, egli non è guari che tu mi ragionasti de’ modi della vostra lieta brigata, di che sì gran disidero d’esserne m’è venuto, che mai niuna altra cosa si disiderò tanto. E questo non è senza cagione, come tu vedrai se mai avviene che io ne sia: ché infino a ora voglio io che tu ti faccia beffe di me se io non vi fo venire la più bella fante che tu vedessi già è buona pezza, che io vidi pur l’altr’anno a Cacavincigli, a cui io voglio tutto il mio bene; e per lo corpo di Cristo che io le volli dare diece bolognin grossi e ella mi s’acconsentisse, e non volle. E però quanto più posso ti priego che m’insegni quello che io abbia a fare per dovervi potere essere, e che tu ancora facci e adoperi che io vi sia; e nel vero voi avrete di me buono e fedel compagno e orrevole. Tu vedi innanzi innanzi come io sono bello uomo e come mi stanno bene le gambe in su la persona, e ho un viso che pare una rosa; e oltre a ciò son dottore di medicine, che non credo che voi ve ne abbiate niuno, e so dimolte belle cose e di belle canzonette, e vo’tene dire una»; e di botto incominciò a cantare.

Bruno aveva sì gran voglia di ridere, che egli in se medesimo non capeva, ma pur si tenne; e finita la canzone el maestro disse: «Che te ne pare?»

Disse Bruno: «Per certo con voi perderieno le cetere de’ sagginali, sì artagoticamente stracantate.»

Disse il maestro: «Io dico che tu non l’avresti mai creduto, se tu non m’avessi udito.»

«Per certo voi dite vero» disse Bruno.

Disse il maestro: «Io so bene anche dell’altre, ma lasciamo ora star questo. Così fatto come tu mi vedi, mio padre fu gentile uomo, benché egli stesse in contado, e io altressì son nato per madre di quegli da Vallecchio: e, come tu hai potuto vedere, io ho pure i più be’ libri e le più belle robe che medico di Firenze. In fe’ di Dio, i’ ho roba che costò, contata ogni cosa, delle lire presso a cento di bagattini, già è degli anni più di diece! Per che quanto più posso ti priego che facci che io ne sia: e in fé di Dio, se tu il fai, sie pure infermo, se tu sai, che mai di mio mestiere io non ti torrò un danaio.»

Bruno, udendo costui e parendogli, sì come altre volte assai paruto gli era, un lavaceci, disse: «Maestro, fate un poco il lume più qua, e non v’incresca infin tanto che io abbia fatte le code a questi topi: e poi vi risponderò.»

Fornite le code, e Bruno faccendo vista che forte la petizion gli gravasse, disse: «Maestro mio, gran cose son quelle che per me fareste, e io il conosco: ma tuttavia quella che a me adimandate, quantunque alla grandezza del vostro cervello sia piccola, pure è a me grandissima, né so alcuna persona del mondo per cui io potendo la mi facesse, se io non la facessi per voi, sì perché v’amo quanto si conviene e sì per le parole vostre, le quali son condite di tanto senno, che trarrebbono le pinzochere degli usatti non che me del mio proponimento; e quanto più uso con voi, più mi parete savio. E dicovi ancora così, che se altro non mi vi facesse voler bene, sì vi vo’ bene perché veggio che innamorato siete di così bella cosa come diceste. Ma tanto vi vo’ dire: io non posso in queste cose quello che voi avvisate e per questo non posso per voi quello che bisognerebbe adoperare; ma ove voi mi promettiate sopra la vostra grande e calterita fede di tenerlomi credenza, io vi darò il modo che a tenere avrete, e parmi esser certo, avendo voi così be’ libri e l’altre cose che di sopra dette m’avete, ch’egli vi verrà fatto.»