Za darmo

La sorella

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SCENA VII

Trinca, Trasimaco.

Trinca. (Ecco il capitano. O che maladetta sia la bestia, che ha piú dell’asino che del cavallo: non ho visto maggior poltrone che mangi pane: vorrei farlo venire alle strette col parasito: gonfiarò il ballon del suo capo con mantaci di vantamenti).

Trasimaco. Férmati, o tu, di grazia; ch’or che ferve l’ardor dell’ira, e son tutto rabbia e furore, e la colera mi soverchia – ché l’induggio, che si frapone alle vendette, allarga le ferite del cuore, – vo’ che sii spettatore del castigo, che vo’ dar a quel poltron di Gulone, perché sei stato relator delle mie ingiurie.

Trinca. Io non vorrei che ti attaccassi adosso inimicizia cosí grande; e bisognerá grand’animo a torsela con esso.

Trasimaco. Puttanaccia, che me la faresti attaccare. Ho tanto animo che non lo cape il mondo tutto, e, standovi dentro, mi par di star in forno; desiderarei che fussero mille mondi, per stanziarvi piú a largo. Povero Alessandro Magno, che lo capiva un solo!

Trinca. Parlate basso, di grazia, che non fusse qui da presso, e vi sentisse.

Trasimaco. Sia maladetta quella maladettaccia sgualdrinaccia della fortuna, che mi fa udir questo. Ch’io parli basso? qual barba d’uomo mi basta a far paura? Vo’ gridar che mi oda: vo’ chiamarlo. O Gulone, Gulone, o furfantissimo Gulone!

Trinca. Egli ha poca voglia di far bene: verrá gonfio d’ira a far questioni.

Trasimaco. Lo farò scoppiare a calci. Va’, chiamalo da parte mia.

Trinca. Andrò a far l’ambasciata a vostro rischio: avertite che capitarete male: bilanciate prima e contrapesate le vostre forze.

Trasimaco. Io, quando avampo di furia e di sdegno, son piú furibondo e ho piú furie adosso che le furie dell’inferno; e voltando gli occhi furiosi sopra alcuno, i lampi che n’escono fuori, lo brusciano vivo vivo. Lo farei fuggire, ancor che fusse Marte: sappi che son nato dentro le miniere di ferro, nodrito fra gli acciai; né il mio cuor ebbe mai altro oggetto che infringere, ingoiare e smaltir gli uomini e i cavalli, armati di metalli e di bronzo.

Trinca. Quando Gulone ha fame, è bravo, è un mezo Orlando.

Trasimaco. Egli bravo? o Marte, e chi è al mondo di me piú bravo, che fo venir la quartana all’istessa bravura? Se fusse altro che tu, che ardissi dirmi questo, li schiacciarei la testa com’una caldarrosta. Come egli si vedrá intorno questa statuaccia del mio corpo, queste spallaccie di Atlante, con questi torreggianti gamboni, con queste nerborute braccia fulminar la mia taglianasi, troncabraccia e mietigambe, tu vedrai i motivi che fará. Considera se son bravo, vedi che viso sfreggiato.

Trinca. Piú bravo fu quello che te lo sfreggiò!

Trasimaco. Voglio dir che non fuggo né volto le spalle.

Trinca. Né quello fuggí o ti voltò le spalle, quando sfreggiotti il viso.

Trasimaco. Ma bisogna allontanarsi da me, ché, quando ho prese l’armi e sto in furia di menar le mani, l’ira ministra fuoco e fiamme: cosí m’incarno e m’insanguino, la vista mi s’accieca di sorte, che non conosco né amici né parenti, tutti gli guasto egualmente; e le tintinnate della mia spada s’odono un miglio.

Trinca. Eccolo che viene: o che portamento bizarro!

Trasimaco. O che portamento da bestia.

Trinca. (Stimo che oggi arò a crepar delle risa: sapendo quanto l’uno e l’altro sia poltronissimo, sarò spettatore di un mirabil duello). Sará ben che m’allontani io.

Trasimaco. Fai da savio pòrti al sicuro. Ben venuto il poltrone.

SCENA VIII

Gulone, Trasimaco, Trinca.

Gulone. Ben trovato il poltronissimo.

Trasimaco. La mala ventura ti ci ha condotto, ché ti ammazzi.

Gulone. Sí, pidocchi, come sei uso.

Trinca. Capitano, ti vuoi uccider con Gulone?

Trasimaco. Sí, bene.

Trinca. E tu, Gulone, ti vuoi uccider col capitano?

Gulone. Volentieri.

Trinca. Orsú, fatela da valent’uomini, uccidetevi insieme.

Trasimaco. A me non conviene por la mia autoritá in bilancia con un par suo. O molto indegno della grandezza dell’animo mio! E poi a questo duello ci manca una degna corona di signori e di cavalieri spettatori, che mi dessero poi quello applauso che merito, e rendessero la mia vittoria piú famosa. Poi, per non esser la sua profession d’armi, vo’ che ceda l’impeto dell’ira alla ragione e alla nobiltá della mia creanza: gli vo’ far conoscere che son vero nobile, e cosí vo’ vivere e morire, però non voglio competere altrimente con lui.

Trinca. Ah, capitan valoroso, cosí vi fate fuggire di mano un’occasion di farvi illustre? non saresti un pusillanimo, se schivaste un cosí onorato pericolo?

Trasimaco. Vien qua tu; è vero che hai detto mal di me? ché vo’ farti in mille pezzi, ti guasterò tutto.

Gulone. Sí, che è vero.

Trasimaco. Or, poiché hai confessato il vero, ti vo’ perdonare. Tristo te, se me dicevi la bugia, tanto m’è nemica.

Gulone. Io voglio dir di nuovo mal di te.

Trasimaco. Fatti in lá che non lo senta, ché non me ne curo.

Gulone. Io vo’ che tu lo senta.

Trasimaco. Tu mi vai punzecchiando e mi offendi troppo indiscretamente: non lo comporterò, cancaro!

Gulone. Ti venga a mente come m’hai disfidato: e son rissoluto uccidermi teco.

Trasimaco. Arcitonante Giove, che audacia è la tua? Tu mi fai inserpentire, inantropofagare, improcustire, inneronire: con un sgraffio ti sconquasserò tutto, ti sganghererò le mascelle e i denti, che non potrai piú mangiare.

Gulone. Ed io quella lingua, che non potrai dir bugie.

Trasimaco. Ti sminuzzerò le braccia, che non ti potrai piú imboccare.

Gulone. Ti romperò quella testa busa, priva di cervello, ché non vi nascano tanti grilli.

Trasimaco. Ti torcerò quel collo, che non dará tanta briga al manigoldo, quando ti ará a strozzare: cosí non divorerai tante panelle, ché hai fatto carestia alle botteghe.

Gulone. O che manigoldo amorevole, o che franca lancia.

Trasimaco. O che franca pancia. Ti farò dir altrimente, quando ti vedrai intorno questo fianco di balovardo…

Gulone. Bel balordo che sei.

Trasimaco. … con questa spada in mano …

Gulone. Con un spedo piú tosto, ché saresti meglio guattero di tinelli.

Trasimaco. … frapparti il viso.

Gulone. Tu non hai altro che frappe.

Trasimaco. Non sei uso, com’io, alle batterie.

Gulone. Alle baratterie sei uso tu.

Trasimaco. Alle bòtte di bombarde e di artegliarie.

Gulone. Di correggie, stimo io.

Trasimaco. Mira il furfante che, burlandosi di me, scherza con la morte. Fatti indietro, poltrone.

Gulone. Ti sei fatto indietro tu, prima che lo dicessi. Tu sei come il gallo d’India: gonfia la gola, arrossisce la cresta, apre l’ali e le batte intorno, e sbuffa come si volesse far qualche gran cosa, poi si ritira. Férmati, schiuma de forfanti.

Trasimaco. A tradimento, ah? cosí se tratta con i pari miei, trattenermi su le parole e poi attraversarmi le braccia? Falla da gentiluomo.

Gulone. Non fui mai gentiluomo: la farò da quel che sono. Ingenòcchiati, raccomanda l’anima a Dio.

Trasimaco. E che, mi vuoi ammazzare?

Gulone. Tu sei indovino.

Trasimaco. Se fussi indovino, non sarei venuto a questo termine: almeno fammi una grazia, fammi viver due ore sole.

Gulone. Perché due ore?

Trasimaco. Che mi mangi quello apparecchio che avea fatto in casa per te; e, dopo mangiato, fammi morire, ché morrò contento.

Gulone. Che apparecchio era il tuo?

Trasimaco. Una porchetta con una crustina sopra, che, masticandola, ti stride sotto i denti, poi si dilegua in latte in bocca; un pasticciotto di ostreghe boglite nel lor medesimo umore, che fanno a lor stesse un intingolo suavissimo, con certi aromati che ti fanno trasecolar la gola; un tegame di beccafighi con lardo e presciutto e cime tenere di zucche, di cui l’odore farebbe risuscitar i morti; una torta alla lombarda; con un vin prezioso di amarene che bacia, morde e dá calci.

Gulone. Ahi, traditore, mi cavi l’anima col tuo apparecchio: e’ par che mi tocchino la cima del fegado. Se con l’imaginazione ne godo, che sarebbe quando fussimo su l’atto prattico? e lo dici a tempo, che ho lo stomaco piú vóto d’una vessica sgonfiata, e il pulmone brusciato per la sete. Ma tu mi vuoi tirar dietro questo tuo cibo, come i mastri di caccia tirano gli astori e li falconi; però a te non mancherá di mangiare: ti darò alcune nespole, che te le mangi per amor mio; e comincia ad assaggiarle, ché, per esserno un poco acerbe, non so come le manderai giú.

Trasimaco. Ah, furfante! genti a piè, genti a cavallo, soldati, centurioni, dove sète? Olá, para, piglia! paggi, staffieri: e quando sarai stracco?

Gulone. Ecco, son stracco e ti lascio.

SCENA IX

Trasimaco, Trinca.

Trasimaco. Amico, son partiti?

Trinca. Sí, bene.

Trasimaco. E non ci è rimasto alcuno?

Trinca. Niuno.

Trasimaco. Mirate, di grazia, con diligenza.

Trinca. Niuno: ché tante parole?

Trasimaco. E vi paion parole queste? son tutte bòtte e gagliardissime e di gran carico.

Trinca. Veramente, carico delle vostre atlantiche spalle. Ma dove è la vostra bravura? come nebbia, il vento l’ha portata via, e s’è sparita.

Trasimaco. Fortuna cagnaccia! Orlando non volea combatter se non con un solo; e io aver cento assassini sopra!

 

Trinca. Non fu piú di un solo.

Trasimaco. Fur piú di cento con l’arme in asta. Trinca. Non vi fur arme, solo l’asta.

Trasimaco. Fur piú di cento, ti dico.

Trinca. Non piú di uno, canchero! ti dico.

Trasimaco. Cento cancheri, ti dico io.

Trinca. Chi lo può saper meglio di me, che vi fui presente, e l’ho visto con questi occhi?

Trasimaco. Chi lo può saper meglio di me, che ho patito le maladette bòtte su le braccia, sul collo e su le spalle, che andavano tutte a pieno, e parea che cadessero dal cielo?

Trinca. Non fu piú di un solo.

Trasimaco. Come? se mi sentiva piú legni addosso che non ha un bosco; e dove mi voltava, non vedeva altro che bastoni e cielo, e mi pareva che tutte le legne del mondo si fussero congiurate contro le mie spalle.

Trinca. Non fu piú di un solo, ti dico.

Trasimaco. Se avesse avuto cento braccia come Briareo, non potea far tanto macello: mi scoppettizava, mi bombardeggiava su le spalle, a guisa di batteria.

Trinca. Un solo fu.

Trasimaco. Perché non avisarmi? sei uomo di poca discrezione.

Trinca. Mi pensava che volessi usar qualche stratagemma di guerra, qualche astuzia di gran capitano.

Trasimaco. Io non consumo tempo in astuzie e stratagemme militari, mi risolvo alla prima.

Trinca. Stimava che volessi straccarlo; e come fusse stracco delle braccia, saltargli adosso e strangolarlo.

Trasimaco. Io mi terrei a vergogna uccider genti stracche, non son cose da pari miei vincer con astuzie; ma poiché era un solo, perché non entrar in mezo e avisarmi?

Trinca. Dio me ne guardi, che mi fusse posto in mezo: mi avisasti prima, che, quando stavi infuriato, ammazzavi gli amici e gli nemici.

Trasimaco. È vero quanto dici; ma, essendo un solo, dovevi avisarmi.

Trinca. Vi sète portato, con le spalle, da un Orlando, e avete fatto un gran resistere; non l’arebbon sofferte dieci asini e dieci muli: e con poco decoro avete difeso il gran decoro della vostra capitanía.

Trasimaco. Ci ho fatto il callo a simil battaglie, non è questa la prima volta: eccomi qui sano e salvo, in carne e in ossa; mi è passato il dolore, e sento piú dolore che sia stato un solo, che delle bòtte.

Trinca. Lo potete andare a trovare, se volete far la vendetta.

Trasimaco. Bisogna tempo e commodo per le vendette, e non correre a furia. E poiché s’è fuggito, mi si rimollisce lo sdegno. Vo’ perdonargli; e come soglio vincer tutti, cosí vo’ vincere me stesso. Viva, viva! e io insieme con lui. A dio.

Trinca. A dio. Non ho visto poltron simile a costui, a giorni miei.

ATTO IV

SCENA I

Constanza vecchia, sola.

Constanza. Io non posso se non infinitamente ringraziare Idio, poiché egli infinitamente m’ha favorito. Chi credesse mai che, stata vent’anni schiava in man de turchi, mi fusse donata la libertá dal mio padrone, per esser omai decrepita, e postami, con alcuni cristiani riscattati in compagnia, in una nave, venisse a Vineggia e indi a Nola mia patria? O terreno desiderato del paese! o aria, quanto mi sei piú cara di tutte l’arie del mondo! Se la fortuna mi favorisse in farmi trovar Pardo, il mio marito, e Attilio, il mio figlio, vivi, le perdonarei la servitú di vent’anni e la perdita di Cleria mia figlia; mi faria dimenticar de tutti i passati disaggi; né io arei che piú desiderar in questa vita. Ma veggio un giovane venir costá; dimanderò di lui.

SCENA II

Trinca, Attilio, Constanza.

Trinca. Veramente, quel vento che minacciava tempesta, s’è dileguato in semplice ruggiada. Quel maladetto nolano, venuto da Constantinopoli, ci avea posto in evidente pericolo di perder quello che avevamo fin qui oprato felicemente.

Attilio. Mi era confuso e alienato di sorte, che era posto giá in disperazione; ma tu, con quella pronta bugia del parlar turchesco, la rimediasti assai bene.

Trinca. Una bugia a tempo val tant’oro.

Constanza. Gentiluomini, mi sapreste voi dir se Pardo Mastrillo fusse vivo?

Attilio. È vivo e in buona sanitade ancora.

Trinca. (Cosí fusse egli morto e sotterra!).

Constanza. Ed Attilio suo figliuolo?

Attilio. E Attilio parimente.

Constanza. Idio, per colmarmi d’ogni contentezza, m’ha voluto racconsolar con la vita di l’uno e di l’altro.

Attilio. Chi sète voi, che tanto vi rallegrate della lor vita?

Constanza. Son una donna che, quando Pardo e Attilio sapessero ch’io son viva e qui venuta, ne arebbono quella allegrezza che ne ho io.

Attilio. Ditelo, di grazia.

Constanza. A voi non appertiene saperlo.

Attilio. E forse me s’appertiene piú che ad altri, perché io son Attilio suo figliuolo.

Constanza. Ed io son Constanza tua madre, che or giunge da Constantinopoli, con assai piú desiderio di vedervi che della propria mia acquistata libertade.

Trinca. (Ecco l’altra perturbatrice d’ogni nostro bel disegno).

Attilio. (O Idio, che non si può nel mondo godere un bene, che non sia mischiato di alcun male: ecco, acquistando la madre, perdo il mio bene).

Trinca. (Avemo resistito al primo impeto della fortuna; or non si può piú, alla gran tempesta che ne ondeggia intorno).

Attilio. (O mal, come vieni presto! o ben,come vieni tardo!).

Trinca. (La sua venuta scompiglia quanto abbiam tessuto della nostra tela; e se l’altre se han potuto rimediare, a questa non ci ha rimedio alcuno).

Attilio. (Ho pregato Idio, che mi facesse veder mia madre, per non esser cosa, che piú desiderasse di vedere; or che la veggio, desidererei esser morto per non vederla, ché perdo Cleria, e io non vedrò mai piú cosa che mi piaccia). Voi dunque sète Constanza?

Constanza. Io son quella infelice donna che venti anni son stata schiava di genti barbare.

Attilio. O madre, quanto mi sarebbe stata cara la tua venuta, se a piú opportuno tempo venuta fosse.

Constanza. Figlio, non intendo che vogliate dire.

Attilio. Dico che in ogni tempo che voi foste venuta, fuor che in questo, la vostra venuta mi sarebbe stata oltre modo gratissima.

Constanza. (Mi pensava che benigna fortuna m’avesse condotta in porto, alla mia patria conducendomi; ma or da contraria tempesta mi veggio risospinta fuori: la mia venuta, che stimava che fosse desiosamente desiderata, la veggio esser scacciata con fastidio). Figlio, se il mio venir ti apporta qualche noia, di grazia fammene consapevole.

Attilio. Madre, la cagion di ciò non può raccontarsi senza fastidio; entrate in casa, che è ben di ragione che avendo sofferta tanti anni la servitú di quei cani e tanti travagli nel viaggio, che vi riposiate; ma togliete a me ogni riposo, perché, entrando voi, ne cacciate me: sète voi fatta libera, per pormi in servitú: voi acquistate la patria, io perdo la patria e quanto possedeva. Né arei pensato mai che la vostra venuta fosse stata accompagnata da tanta amaritudine.

Constanza. Figlio, non mi trafissero mai tanto i morsi della servitú, quanto or mi trafiggono i vostri dispiaceri. Onde vi prego per quello amor, che è ragionevol che mi portiate, che mi manifestiate la cagione del disturbo; ch’io, cosí povera feminella come sono, sarò da tanto di tornarmene in Napoli e viver mendicando disconosciuta, per non darvi vergogna: che, se ben la nobiltá nelle miserie fa risvegliar i spiriti generosi e signorili, con l’esser stata tanti anni schiava son spenti in tutto.

Attilio. Conosco, carissima madre, avervi offeso, e però mi vergogno manifestarlovi.

Constanza. L’offese de’ figli alle madri non passano la pelle: non sará mai tanto grande, che non sia vinta dall’affetto materno. Voi tacete? Manifestatela, figlio, ché troverete quel che vi dico.

Attilio. Madre, se promettete di perdonarmi e di rimediarvi, che di un male non se ne faccino molti, vi spiegherò il fatto come passi.

Constanza. Ti giuro, figlio, per quella grande affezion che ti porto, che spenderei questo avanzo di vita in tuo serviggio. Che se non m’adoperassi per un figlio, per chi debbo adoprarmi io?

Attilio. Poiché cosí volete, vi scoprirò il tutto. Mi mandò mio padre con trecento scudi in Constantinopoli, per lo vostro riscatto. Venni in Vineggia per imbarcarmi per colá, e m’innamorai di una giovane bellissima, spesi i trecento ducati nel suo riscatto, la sposai, tornai a Nola, e diedi ad intendere a mio padre che voi eravate morta, e che avea riscattata Cleria, la mia sorella. E sotto nome di Cleria è stata ricevuta, per non dargli tal disgusto in quel poco tempo che potrá sopravivere. Or voi, entrando in casa e dicendo che quella non è Cleria vostra figlia, lo farete morir di dolore, né si terrebbe sodisfatto se non mi diseredasse e mi cacciassi fuor di casa.

Constanza. E s’io dicessi che quella fusse Cleria mia figlia, ti saria di contento?

Attilio. Grandissimo.

Constanza. Vi prometto dirlo; e l’accetterò per figliuola e per mia dilettissima nuora, mentre vivo, per amor vostro. Non sapete voi che le madri condescendono agevolmente a i desideri de’ figliuoli, e li sono aiutrici verso i padri?

Attilio. Madre, ciò facendo vi arò piú obligo che della vita che donato mi avete, quando mi partoriste; ché, amando costei piú dell’istessa vita, donandomi costei, mi donate la vera vita.

Trinca. Ma bisogna, padrona, quando v’incontrate, usar quelle accoglienze come si fosse la propria Cleria vostra figlia; e dimandandovi di alcune cose, le sappiate rispondere e, di quelle che non sapete, tacere.

Constanza. Non son tanto goffa, che non sapesse fingere questo poco; e quando mai far non lo sapessi, l’amor che vi porto, mi sará miglior maestro che costui: so quello che si debba dire e tacere, e non me lo farò dir piú d’una volta.

Attilio. Trinca, sali su, fa’ calar mio padre, che venghi a ricever la sua moglie tanto desiderata; e avisa la mia Cleria del trattato.

Trinca. Volentieri.

Attilio. Or l’accoglienze, madre cara, che non vi ho fatte al primo incontro, datemi licenza che le facci ora, che possa abbracciarvi e baciarvi a modo mio. Madre, cara sopra tutte le madri, madre che mi sei per natura e per obligo, madre che due volte dái la vita al tuo figliuolo, che farò, mentre sarò vivo, per disubligarmi da tanto beneficio?

Constanza. Poco è, figliuolo, quello che domandi che faccia per amor tuo; e prima che qui giungessi, ho desiata occasione di servirvi tutti.

Attilio. Ecco mio padre.

SCENA III

Pardo, Constanza, Attilio.

Pardo. O Constanza, carne mia, sei tu dessa over io non son io? o è forse questo un sogno? o fingo imagini a me stesso del desiderato bene? Tu sei ben dessa, e me ne sono assicurato, che con piú d’una guardatura ho confrontato l’imagine tua con quella che nel cuor impressa mi lasciasti.

Constanza. O marito, marito caro, che, avendo perduta la speranza di non averti mai piú a rivedere, or veggendoti e abbracciandoti, non lo credo.

Pardo. O moglie cara, o quanto ho pianto il mio peccato di averti mandato a chiamar da casa tua per condurti in Polonia, preponendo la mia comoditá al tuo discomodo.

Constanza. Posso dir che, tenendovi cosí abbracciato, tengo la cosa piú desiderata che abbia al mondo.

Pardo. Ed io l’anima mia; ché, rimasto senza te, rimasi un cadavero. Oh quanto mi sei or cara viva, poiché tanto t’ho pianta morta? ché, avendo mandato il mio figlio in Turchia col riscatto, mi riferí ch’eravate morta. Piaccia a Dio s’allonghi tanto la vita mia, che faccia a te quella servitú che per mia cagione hai fatta a quei cani.

Constanza. Bastami che m’amiate per l’avvenire, quanto m’amavate prima, o che m’amiate a par di quello, che v’amo io: che mi fará subito dismenticare de’ disaggi della passata servitude.

Pardo. Moglie, mi sento venire meno per l’allegrezza.

Constanza. Ed io non posso tener le lacrime.

Pardo. Vo’ che abbiate un’altra allegrezza, che veggiate Cleria vostra figlia.

Constanza. O Dio, che sommamente desio vederla.

Pardo. Attilio, va’ su e fa’ calar la tua sorella.

 

Attilio. Vado.

Pardo. Come sète venuta cosí sola.

Constanza. Lungo tempo bisogna, consorte mio, a narrar sí lunga istoria della servitú sofferta fra quei cani, de’ lunghissimi travagli del viaggio, che non son stati minori.

Pardo. Ecco la tua figlia Cleria. Oh come, nel vedersi l’un l’altra, son tramortite ambedue! Oh, quanto è l’amor grande tra la madre e i figli! O Dio, che sará questo? o Cleria, o Cleria, o Constanza mia, risvegliatevi!

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