Za darmo

La sorella

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SCENA IV

Cleria, Attilio, Trinca.

Cleria. Attilio, anima mia, fermatevi costí, ché son stata gran pezza aspettandovi in fenestra, per avisarvi che, se un poco piú foste tardato, non areste trovata la vostra Cleria in casa.

Attilio. Non vi dolete, occhio mio caro.

Cleria. Qual miseria è che pareggi la mia? Mi sento l’anima cosí ristretta nel cuore, che son per cader morta; né posso imaginarmi come questa tormentata anima possa reger questo tormentato mio corpo.

Attilio. Non vi struggete, o signora, piú cara a me che la luce degli occhi miei.

Cleria. Pensavami che la fortuna, – poiché dall’uscir delle fascie cominciò a farmi guerra, avendomi da bambina fatta preda de’ turchi, privatami de’ miei cari genitori, fattami serva di genti barbare, ricomperata come schiava, – avesse mutato proposito e volesse ristorarmi de’ danni passati col farmi ambiziosa del titolo di vostra schiava, il che lo stimava per mia somma ventura. Ma or mi fa peggio che mai, ché vuol rovinarmi in tutto; perché questo sospetto cosí m’inamarisce ogni bene, che mi toglie la speranza di non aver a sperar mai piú favilla di luce: e pur vivo? Son nata pur disgraziata!

Attilio. Io, dal primo punto che vi viddi, fui cattivato nell’amor vostro: però assicurativi, signora, che non meno a me duole il separarmi da voi, che voi da me, parendomi impossibile che l’un possa vivere senza la vita de l’altro. E come potrei io vivere, se i spiriti miei non prendessero alimento da una certa virtú celeste, che sta occulta negli occhi vostri, dai quali prende vigor la mia vita? E tante volte mi ravvivo e rinasco nella mia istessa vita, quante volte vi miro. Son vostro, voglio esser vostro e, ancor che voi non voleste, pur son vostro; né tutto il mondo basta a far che non siate mia, poiché dalla vostra libera volontá me vi deste. Niuna cosa m’è cara piú di voi; e chi mi togliesse voi e mi desse tutto il mondo, non mi farebbe nulla, ché in voi sola è tutto quel ben che posso desiderare nella mia vita.

Cleria. O caro, o caro cor mio, volete scemar i vostri meriti per accrescer i miei, che non ne ho niuno. Ma le vostre parole vengono dettate dalla vostra bontá, che avanzano di gran lunga i miei meriti: e tutte quelle lodi che mi date, tutte si piegano in voi, come i raggi del sole che, percotendo nei specchi, si piegan con piú forza: però, se alcuna cosa in me fusse di buono, tutto vien da voi stesso, che mi conferisce quelle qualitá che voi dite: però resto consolata nelle vostre consolazioni. Laonde con l’amor che mi portate, chiamate a consiglio il bel vostro discorso, e consideriamo s’è meglio fuggir di casa e andar dispersi per lo mondo. Conducetemi per dove volete, per luoghi deserti e senza via: vi son stata compagna nelle prospere, cosí vi sarò nelle fortune calamitose. È ferma deliberazione dell’anima mia non esservi renitente in cosa alcuna: non mi riterrá né muro né terra né cielo, seguane quel che si voglia; pur che sia insieme con voi, ogni luogo m’è patria, ogni fatica m’è dolce, niun pericolo mi spaventa. E veramente per amor non si denno stimar i pericoli.

Attilio. Non vorrei, cuor mio, andando cosí di fuori, perder quello che ho in casa. Venendo con voi da Vineggia, mi parea esser un di quei che navigano di notte con una nave di cristallo, che temono sempre incontrarla e romperla in ogni scoglio.

Cleria. Se segue quel che disegna vostro padre, questa sera sará il fin della nostra giornata, e resterá per noi una notte perpetua; e certo saria una notte, ché d’allora innanzi non sperarei veder altro sole. Però facciamo come quelli che han fatto naufragio, che per non morire s’attaccano ad ogni tavola che s’incontrano.

Attilio. Ahi, ch’essendo in casa mia, pensava esser in porto, dove sperava riposo di tutte le nostre amorose tempeste!

Cleria. Maladetto porto, dove s’affondano tutte le nostre speranze, e dove rabbiosi corsari cercano spogliarci de’ nostri preciosi tesori: parvi bel porto questo?

Attilio. Anima mia, con la speranza del bene rasserenate la mente e il volto, e con le lacrime non ci facciamo cosí tristo augurio, se non per altro, almeno per non dar tormento a me; ché a voi non piove una minima lacrimuccia dagli occhi, che a me tutti non siano rivi di sangue, che mi piovono dal cuore.

Trinca. E quando finiranno tante parole?

Cleria. Dolcissimo mio bene, non posso far che la miseria, dove mi trovo, non mi trafigga: bisognarebbe un cuor di sasso per non dolermi. Mi sforzerò chiuderla nel mio cuore, ché ho piú a caro il vostro contento, che di sfogare il mio dolore.

Attilio. Statemi, di grazia, allegra e di buona voglia, ché il tempo suol apparar occasioni di remedi, e nelle adversitá far cuor franco e valoroso.

Trinca. Che tanti cicalamenti! Ecco vostro padre.

Attilio. Trattienlo un poco.

Cleria. Venite su e rallegratemi.

Trinca. Sí, sí, cicalate un altro poco.

Attilio. Non m’impedite, di grazia, che trattiamo cosa per uscir da affanni.

Cleria. E come?

Attilio. Non ho tempo di dirlo.

Cleria. Perdonatemi di grazia, ché la dolcezza di parlar con voi mi fa trapassare i vostri comandamenti.

Trinca. Vostro padre v’è cosí da presso, che vi vede. Andate su e, poiché sète accordati in parole, accordatevi in fatti: informatela bene del negozio e fatecelo toccar con mano.

SCENA V

Pardo vecchio, Trinca.

Pardo. Trinca, dove è Attilio?

Trinca. A casa; e stimo ch’abbia una gran facenda per le mani.

Pardo. Io son molto mal sodisfatto di lui, perché non li vedo far cosa che mi vada a gusto: è tanto mutato da quel di prima, che non mi par desso. Da quel benedetto giorno – per non dir maladetto, – che menò la sorella da Costantinopoli, menò seco la cagione della sua ruina. Ahi, tardo mio pentimento! Tutti i suoi pensieri tendono all’ozio. Prima, se alzava inanzi giorno, andava alla messa, poi allo Studio, tornava a casa, si poneva a studiare; e quando era l’ora del desinare, con gran fatica lo poteva distaccar da’ libri; poi si dicea l’ufficio della Madonna: tutto diligenza, ubidienza e divozione. Or, tutto il giorno in letto, non s’alza insin ad ora di desinare, non si parte da casa mai; ad ogni altro pensa fuor ch’allo studio; è divenuto insolente, mal creato, e mi beffeggia. Non va piú a messe, non dice officio; e la buona educazione, ch’ornava il suo nascimento, è tolta via da usanza cosí cattiva.

Trinca. Padrone, chi prattica con zoppi, al fin impara a zoppicare: vostro figlio è stato in Turchia, dove non s’odono messe, né si dicono uffici – ché ben sapete che i turchi son mali cristiani, – né si usa levar mattino, né si va a Studio; anzi coloro che attendono a simili cose, li chiamano catamelechi, cioè uomini di poco conto.

Pardo. Tutto il giorno a gracchiar con la sorella, e rider fra loro; e quando io vi son presente, pis pis dentro l’orecchie, e dagli atti e cenni conosco che si burlano de’ fatti miei, si parlano in zergo e mi danno la baia, e stimano che non me ne accorga.

Trinca. Quello che voi chiamate zergo, son parole turchesche; e l’usa per farsi intendere dalla sorella che non intende ben l’italiano; e cosí mezo turchesco parlano delle cose di Costantinopoli.

Pardo. Per dirtela, tratta troppo licenziosamente con la sorella: si baciano, si succhiano, si toccano, e fanno tutto il giorno alla lotta, l’un sopra l’altra, quasi che non se la pone di sotto.

Trinca. Son sorelle e fratelli carnali al fine, e il sangue tira e fa l’ufficio suo. E la legge maumettana di lá comanda che le sorelle e fratelli trattino fra loro con molta amorevolezza: sará bisogno smaumettarsi a poco a poco. Poi vostra figlia è allegra di condizione, burla volentieri, e or tanto maggiormente, che si vede libera dalla servitú turchesca e in casa di suo padre e fratello: e questa amorevolezza la chiamano in turchesco tubalch.

Pardo. Io non voglio che non trattino insieme con molta amorevolezza, ma in fin ad un certo termine onesto e di creanza, e non con modi cosí disonesti e di scandalo a chi li vede. Son tali, che m’hanno scemato gran parte dell’amor che li portava; e se mi son mai pentito di cosa mal fatta, mi son pentito di averlo mandato in Turchia a riscattar la sorella, perché ho comprato il mio male, e, per ricovrar la figlia, ho perduto i danari, la figlia, il figlio e me stesso, per il dispiacer che mi dánno.

Trinca. In Turchia è usanza.

Pardo. E pur con Turchia, Turchia: il canchero che ti mangi! tutte le mal creanze le scusi con Turchia. Ti conosco per un scappato da mille forche; quanto piú gli scusi, piú l’accusi: se pur son usanze turchesche, or che siamo tra cristiani, bisogna viver da cristiani.

Trinca. Se voi l’aveste maritata, sareste uscito da intrico.

Pardo. Non ho trovato cosa a proposito.

Trinca. Sète di quei padri che prima muoiono, che maritano i figli, per non contentarsi mai.

Pardo. Or ho deliberato dar Sulpizia per moglie ad Attilio, e vo’ che mi ubedisca, cosí per l’obligo che mi tiene di figlio, come per l’onestá della dimanda, e come per l’amor che mi porta: ché l’amor e l’ubedienza son sorelle carnali.

Trinca. V’è tenuto per obligo, e farallo per cortesia e per amore.

Pardo. Se ben è tenuto per obligo, facendolo per amore e cortesia, l’averò quello obligo io, che devo alla sua cortesia e amorevolezza. E vo’ dar Cleria al capitano, e mi liberarò della servitú di aver femine a casa. Ho conchiuso iersera il parentado, e vo’ che si sposino al tardi. In questo vorrei che usassi la tua astuzia, overo che non l’usassi contro me, ch’io non posso essere tanto studioso a guardarmene, quanto tu ingegnoso ad ingannarmi. Ben sai che ho san Mazzeo vicino a casa, e quel medico di casa Querciuolo, che ti suol medicare le spalle, quando il ricercano. Vorrei che li persuadessi a non esser ostinati, ché non venghi con loro a termini poco onorevoli, come non ho fatto per lo passato.

 

Trinca. Egli non ricusa Sulpizia, ce l’ho proferta da vostra parte: ne ha tanta voglia, che non vede l’ora che sia sera. Di Cleria non bisogna aver tanta fretta.

Pardo. Che vuoi che se invecchi in casa e poi non trovi can che la fiuti? è meglio purgar la casa delle femine, che della peste. Avendo quel capitano, ará la buona ventura.

Trinca. Anzi l’arcimala ventura.

Pardo. Che li manca?

Trinca. È troppo giovane: lasciamolo invecchiare un altro poco.

Pardo. Non ha quarant’anni.

Trinca. Ha quaranta malanni. Ne ha piú di sessanta: e che altro sono quei peli bianchi, che un richiamo di giovani, che dieno quello a vostra figlia, che non può darle il marito? Egli è come un asino zoppo, a cui mancando le forze del suo natural potere, si cade tra via, bisogna alzarlo a due mani e porlo per la strada. E se ben si vanta che sia stato colonello e generale di esserciti, credo ch’adesso non servirebbe se non per lancia spezzata.

Pardo. S’inchina assai volentieri a questo.

Trinca. Di ciò statene sicuro, sta l’importanza nel potersi drizzare.

Pardo. È ricco.

Trinca. Sí, d’anni; ma povero di robbe e di cervello, puzza di fallito, e ogni giorno piglia dinari a perdita; e se ben s’ha consumato tutto il suo patrimonio a dadi, non consumará certo il matrimonio con vostra figlia. Con quelle sue bravaríe se vuol smaltir per quel che non è. Si pasce d’aria e vive di ruggiada come le cicale, mangia a tavola con la gloria e ambizione, e, essendo un becco, si vuol servir di vostra figlia per una vacca. E per mantener quel fumo del suo camino, quando ella non consentirá, con una furia di bastonate le fará far quel che vuole; talché mangiará sempre piú bastonate che pane.

Pardo. È gentiluomo.

Trinca. Di casa Capodicervo, che ha piú corne in capo che capelli; suona di cornamusa, e s’udiranno per tutta Nola il suono de’ suoi cornetti.

Pardo. N’ho buona informazione dal parasito: ne sta innamorato. Di che ridi?

Trinca. Non rido che stia innamorato; ma chi si vuol innamorar di lui? E poi date credito a quel furfante, feccia d’uomo: li servirá per ruffiano a condurgli gli uomini a casa. Senza che, va dicendo mal di voi per Nola, che sète un pidocchioso; e fa le croniche della miseria di vostra casa: che sempre bevete il vin che si guasta, e, prima che finiate di ber quello, cominciate l’altro che si guasta; e che, quando viene a mangiar con voi, lo fate stentar in aspettar fino a mezogiorno; e che s’alza da tavola piú vòto che quando ci venne. Talché voi non l’invitate a mangiare, ma a digiuno, vigilia e penitenza.

Pardo. Mira furfante, che si pone in bocca certi pezzi massicci di carne e certi bocconi tanto stravagantemente grandi, che non se li può voltar per la bocca, e li trabocca giú come li mandasse in una cloaca, e con tanta furia che non mangia, ma trangugia; non beve, ma tracanna, ingorga e fa grondare il vino nello stomaco; che noi appena cominciamo a scaramucciare, ch’egli ha finito il fatto d’arme, che par figlio della fame, padre del diluvio, nipote della carestia, e pone tanta robba in una volta in quella sua voragine, quanto basta una settimana in casa mia: par che la fame ce l’abbia inviato per castigo della casa mia.

Trinca. E dice queste e altre cose.

Pardo. Che altre?

Trinca. Mi vergogno di dirle.

Pardo. Dille in tua malora, ché mi fai venir la rabbia.

Trinca. Dice che patite di non so che infirmitá di stomacali, e che ci avete tanto prorito, che andate cercando chi ve li gratti.

Pardo. Mente e stramente per la gola.

Trinca. E dice averlo inteso da molti.

Pardo. Mente per l’orecchie.

Trinca. Ed egli conosce all’odore esser cosí.

Pardo. Mente per lo naso.

Trinca. E che lo stima esser verissimo.

Pardo. Mente per lo cervello. E tu non sai che ciò è una bugia?

Trinca. E per questo è un ribaldo, perché dice quello che non fu mai; e il peggio è, che le genti lo credono, perché lo veggiono pratticare tanto domesticamente in casa vostra, che possa sapere i vostri secreti.

Pardo. Lo castigherò ben io.

Trinca. Gulone è come il canchero che, quanto meglio lo nudrite, piú incancherisce e infistolisce.

Pardo. Che rimedio ci sará?

Trinca. Quello degli infranciosati: con una dieta di pane e di acqua per quaranta giorni, ché lo consumi la fame e la sete in fin all’ossa. Come se li manca la biava, andrá via. Però torniamo a noi. È troppo gran peccato dar cosí degna figlia a quel cervellaccio che riesce cosí cattivo per ogni banda.

Pardo. La vuol senza dote, e il maritar una figlia senza dote è qualche cosa: l’ho riscattata da’ turchi e, or volendole dar dote, sarebbe un riscattarla di nuovo.

Trinca. Meritano i suoi buoni costumi d’esser riscattata diece volte, se bisognasse. Ma noi abbiamo Erotico piú ricco e nobile e d’altri costumi: e vi fa la medesima offerta.

Pardo. Che faresti tu, se fusse tua figlia?

Trinca. Se fosse voi?

Pardo. Fa’ conto che ci sei: consigliami.

Trinca. Non per consigliarvi, ma essendo nell’esser vostro, questo partito mi parrebbe tanto buono, che non potrei dir di no.

Pardo. Farò quanto tu dici: ché, non avendo errato mai con l’aviso de’ tuoi avertimenti, voglio assicurarmi in questo ancora. Facciamo che amboduo si sposino per la sera.

Trinca. Come comandate.

Pardo. Di’ a mio figlio che si ponga in ordine, ch’io aviserò Orgio, zio di Sulpizia, del medesimo. Di’ ad Erotico che venghi a trovarmi, e appuntiamo il tutto, ché, quando le persone sono d’accordo, è mal il differire, ché sempre si pone in mezo occasione di disturbi.

Trinca. Farò il tutto come m’imponete.

ATTO II

SCENA I

Gulone parasito, solo.

Gulone. Sempre ch’odo sputar filosofia da questi savioni, odo dir che la natura è stata a noi benignissima madre. O che mai nascessero piú filosofi, e che si perdesse, in tutto, il collegio e la razza loro! perché, quando discorro fra me, trovo tutto il contrario: che la natura ci è stata capitalissima nimica nel farci del modo che ci ha fatto. A che proposito far duo occhi, due orecchie, due faccie, due mani, due piedi, duo spalle, ed una bocca, dove sta tutta l’importanza? ché l’uomo vive per la bocca, e non per gli occhi né per l’orecchie. A che proposito far le budella cinquanta palmi lunghe, accioché peniamo tutto un giorno fin che il cibo si rassetti, si prepari e si smaltisca, e il gargarozzo, per lo quale sentiamo il gusto e l’esquisitezza de’ cibi saporiti, di tre diti? ch’appena mangiato un boccone, cala giú, sparisce subito, come si mangiato non l’avesti? Doveva far il gargarozzo lungo un miglio, ché, calando giú per quello il cibo, durasse il diletto tutto un giorno; e le budelle far tre diti, dalla gola al buco di sotto, largo, aperto, che, subito inghiottito, uscisse fuori, e fusse l’introito uguale all’esito. A che proposito consumar tutto il corpo in gambe, in braccia e testa, e il ventre farlo picciolo? or non potea farlo come un sacco, per poter insaccar robbe assai? Che dispiacer si trova uguale a quello che di trovarsi in una tavola abondante e ben fornita di vivande e di vini eccellentissimi, poi aver un corpo picciolo e non poter divorare? ché tanta è la rabbia e la disperazione, che vorrei allora con un coltello forarmi la pancia per poterlo cavar fuori e tornare a riempirlo. Almeno ci avesse una apertura nel ventre, che si aprisse e serrasse con bottoni come le vesti, ché, dolendoci il ventre o essendo troppo pieno, potessimo guardar che cosa sia dentro, e poi tornar ad affibbiarlo. A me par che sia stata benignissima madre agli animali, perché ha fatto al bue, alla capra e agli uccelli una saccoccia alla gola, ché il cibo ingoiato si riceve in quella, e dopo mangiato ruminano quel cibo, e mangiano di nuovo, e si trattengono tutta la notte. Or non potea farne un’altra all’uomo? accioché, trovandosi a mangiar ne’ tinelli, dove per la fretta bisogna tranguggiare i bocconi senza masticargli, poi quando fussimo a casa, li potessimo ruminar di nuovo? Ha fatto al Gulone un budello largo e breve, che, quando è ben satollato, passando per mezo a dui arbori stretti, scarica il cibo da dietro, e poi torna a satollarsi di nuovo? Non poteva la natura farmi una bestia come queste? darmi fame di lupo, bocca di rana, pancia di rospo, collo di grue, denti di cane, due lingue di serpe, stomaco di sturzo, che bevesse come cavallo, dormisse come ghiro e cacasse come una vacca?

SCENA II

Trasimaco capitano, Gulone.

Trasimaco. Riniego Marte, se non t’ammazzo; ché ti son gito cercando per tutte l’ostarie, dubitando che non fossi restato in pegno, per riscattarti.

Gulone. M’hai interrotto un discorso che facea contro la natura.

Trasimaco. La natura fu sempre tua nemica, e sempre le fosti contrario.

Gulone. Come uomo di poco spirito, non posso penetrar nella grandezza e magnificenza sua, né toccarne il fondo.

Trasimaco. Nascesti col cervello a roverscio, però tutte le tue cose vanno al roverso: schivi le cose straordinarie e ti servi del snaturale. La forca che ti appicchi per la gola!

Gulone. Appicchimi per dove vole, ma non per la gola: la vo’ intiera e sana per me.

Trasimaco. Ma dimmi s’hai ragionato con Pardo.

Gulone. Sí, bene.

Trasimaco. L’hai detto che son un Rodomonte, un Alessandro Magno de’ nostri tempi? non rispondi, furfante?

Gulone. Non posso far ragionamenti, per la gola secca che ho.

Trasimaco. Tu a me menti per la gola? Mira a che pericolo ti poni.

Gulone. Dico che, per la gola secca che ho, non posso formar ragionamenti.

Trasimaco. In somma hai conchiuso le nozze?

Gulone. Se non bevo una voltarella e inumidisco il palato e la lingua e ristoro la virtú, vengo meno.

Trasimaco. Non puoi dir sí o no?

Gulone. Son cosí affamato, che vedrei la fame nell’aria: il ventre sta vòto e si bacia con la schena di maladetti baci. Ascolta come gorgoglia.

Trasimaco. Che sei di razza di cavalli, che, quando stai digiuno, il ventre gorgoglia? Odi.

Gulone. Non odo, ché le budelle fanno tanto rumore che m’impediscono l’udire.

Trasimaco. Non mi promettesti iersera darmi la risoluzione del matrimonio?

Gulone. È vero che l’ho promesso; ma, venendo a casa vostra, mi incontrò un amico, mi portò a casa sua, e mi diè a ber vini tanto grandi e fumosi, che m’empirono lo stomaco e il capo di fumi, che non vedeva la via per tornare, e fu bisogno dormir a casa sua.

Trasimaco. Affogaggine! Mancar della promessa non è ufficio d’infame?

Gulone. Veramente, sí; ché, se non fussi stato in fame, non sarei andato a casa sua, ma sarei venuto alla vostra.

Trasimaco. Dico che non è ufficio d’uomo da bene.

Gulone. Io non fui mai uomo da bene, né ci voglio essere: se ci fussi, mi morrei di fame. Io son ladro, buggiardo, furfante e ruffiano, e cosí sguazzo il mondo.

Trasimaco. Cosí tratti gli amici?

Gulone. Io non ho amici altro che il principe della Trippalda, che è il maggior amico che abbi: la trippa vacua è il maggior nemico.

Trasimaco. Ed è possibil che tu non vogli ragionar se non di mangiare?

Guidone. E tu di donne e di amori? Non ci è differenza tra l’amor mio e il tuo: io fo l’amor con vitelle mongane, tu con vacche: carne ami tu, carne anco io: tu cruda e io cotta; e tanto è miglior l’amor mio del tuo, quanto è miglior la carne cotta della cruda. La carne cotta è saporita e odorata, la cruda puzza, è schiva e s’abborrisce; e come tu or fai l’amor con questa e or con quella, e sfoghi quei tuoi sfrenati desidèri: e io, contra una tavola ben abondante, come un sfrenato innamorato, or mordo poppe di vitelle fredde, or inghiotto i tordi grassi – che stringendoli con i denti, mi cola di qua e di lá il grasso, – or bacio becchieri e bottiglie, piene di vini brillanti e saltellanti, con saporitissimi baci, e sfogo l’ingordo desiderio del mio ventre. E mentre mi trastullo con questi, fo l’amor con le porchette, che si stanno arrostendo, pascendomi intanto di quei soavi odori.

 

Trasimaco. Io stimo che con quella gloria e animoso ardire con cui io entrerei in un steccato, tu in una tavola ben acconcia.

Gulone. La tavola ben acconcia è il mio steccato, dove, con uno glorioso appetito e animosissimo ventre, mi riduco assai volentieri a scaramucciare e menar le mani.

Trasimaco. Non piú, ché ragionando di mangiare non finiresti tutto oggi. Hai conchiuse queste benedette nozze?

Gulone. Ed è possibile che, come si tratta di ammogliarsi, vorrebbe ciascuno che le cose si trattassero a staffetta, e che volassero? Poveretti! non vedete che quanto piú presto la togliete, piú presto vi viene a fastidio, e vi pentirete?

Trasimaco. Sei molto pigro a trattare i negozi.

Gulone. Son pigro, secondo il tuo desiderio; ma presto, secondo il mio: a chi desia non si fa cosa con tanta prestezza, che non paia tarda. Dice che, volendola senza dote, venghi a sposarla.

Trasimaco. Ti ringrazio della nuova.

Gulone. Che pensi col ringraziamento avermi pagato, come se m’entrasse in corpo e me cavasse la fame e la sete? Troppa ingiuria fai tu al mio ventre.

Trasimaco. Troppa ingiuria fai tu alla mia liberalitá, ché sai che non tengo le mani chiuse, quando bisogna. Portami la risposta e vieni a mangiar meco, ch’io fra tanto farò porre in ordine e arò protezion del tuo ventre.

Gulone. E io fra tanto porrò in ordine l’appetito.

Trasimaco. Vuoi che ci sia della lacrima?

Gulone. Della lacrimissima.

Trasimaco. Del greco?

Gulone. Del grechissimo.

Trasimaco. Ti aspetto con la buona nuova.

Gulone. Novissima buonissima. Or batto: toc, toc.

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