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Novelle e paesi valdostani

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Cominciò a comprargli dei terreni all'intorno, e Guglielmo vendeva. Vendeva prima poche tavole, poi altre, alla spicciolata, rincarando sui prezzi correnti, ritraendosi al menomo calo di prezzo, protestando, ed era vero, che bisogno di vendere non ne aveva, che lo faceva per cortesia, perchè sapeva a che mirasse il compratore. E intascati i quattrini il giovane li impiegava in compera di legnami; in paese dicevano che voleva farsi negoziante, ed egli assentiva.

***

Il giorno che vendette l'ultima pezza di prato Teresa stava nell'aia a guardare il padrone che se ne partiva soddisfatto.

Era sul finire d'ottobre, una giornata serena e fredda, meno trista però che al piano, perchè gli abeti durano verdi tutto l'anno. Guglielmo s'accostò a Teresa che pareva di cattivo umore:

– Che avete Teresa?

– Guardo quell'uomo andarsene contento. Avete venduto, è vero, Rhedy?

– Sì. L'ultimo prato.

– Questa casa era proprio destinata ad un solo padrone. Mio padre fu costretto a mettercene due, ma vedo bene che non durerà.

– Lo spero – rispose Guglielmo.

– Lo sperate? Vi pesa star qui?

– Spero che la casa tornerà ad un solo padrone. Ma resta a vedere chi sarà quel padrone.

E perchè Teresa non rispondeva, il giovine aggiunse:

– E se fossi io?

– Voi? Volete comprarla voi?

– Sì.

– Per che farne, Rhedy?

– Per sposarvi. Teresa.

Teresa levò la testa e lo guardò seria. Guglielmo aveva negli occhi quella fissità contratta e risoluta, propria di chi compie un atto lungamente meditato e fermamente voluto.

– Volete, Teresa?

– Sì, Rhedy.

Allora il giovane cominciò a dirle il suo amore, e che le voleva bene da un pezzo, che se n'era accorto quel dato giorno, in quelle date circostanze, e rammentava i luoghi, l'ora e il tempo che faceva, e mille piccoli fatti e mille parole. Parlava concitato, la guardava con una tenerezza dolce, di quando in quando sillabava deliziosamente qualche parola più calda, e poi la interrogava, se non avesse mai pensato di lui quello che egli ora le diceva, se non l'avesse sentito venire questo caro momento; ed essa rispondeva di sì, grave, commossa, con una semplicità serena, piena di grazia. Guglielmo l'aveva tirata a sedere su di un trave, sotto il ballatoio della casa; imbruniva, l'aria del ghiacciaio soffiava tagliente come una lama; la madre era in casa in faccende; la si sentiva scendere e salire, battendo il tacco degli zoccoli sugli scalini di legno, ma neanche per l'avvicinarsi de' suoi passi i due non si muovevano. Il giovane aveva passato il braccio intorno la vita dell'amante e l'attirava a sè con una forza lenta e crescente; essa lasciava fare, sicura, sentiva il fiato caldo di lui passarle sulla faccia e la mano cedere alla violenza del suo respiro.

Come fu quasi scuro, Teresa si levò tenendo per mano il Rhedy e lo condusse in casa dove disse ogni cosa alla madre. Pensiamo se questa ne fu contenta! Cenarono insieme e Guglielmo espose tutti i suoi propositi, il suo piano di vita.

A Gressoney-la-Trinité mancava un albergo; quella casa posta sul luogo dove riuscivano due importanti valichi alpini, pareva fatta apposta a comodo dei touristes; egli aveva venduto i prati all'intorno per raggranellar quattrini, perchè la casa bisognava finirla a modo, ed anche al pezzo abitato dai Lysbak occorrevano ristauri.

Ecco perchè egli comprava legname; voleva compire le stanze dalla sua parte; non c'era che da rivestire di tavole le pareti e da fare gli usci e le imposte; egli aveva già in serbo un buon numero di assi piallate, e contava nell'inverno imminente di finir l'opera colle sue proprie mani, e coll'aiuto di un cugino pure falegname, già al corrente della cosa. Venuta la primavera si sarebbero sposati, avrebbero aperto l'albergo, e scaduto il termine utile per il riscatto, egli avrebbe pagato e buona notte.

La madre obbiettò che per tenere un albergo non basta la casa, ma ci vuole la pratica dell'esercizio; per questo occorreva che Teresa si allogasse quale donna di servizio in qualche grande albergo svizzero e là imparasse il mestiere. Colle cognizioni e colla salute di Teresa non era difficile trovare impiego; il meglio era partir subito. Ma l'idea di separarsi così, di durare tutto l'inverno, che è la stagione più intima, lontani, era insopportabile al Rhedy. E poi l'inverno gli alberghi svizzeri sono chiusi o fanno pochi affari; meglio partire in primavera e rimandare le nozze all'autunno seguente. Intanto erano fidanzati; che bella vita cominciava per loro! I montanari sanno aspettare, la vicinanza addolciva l'attesa e quasi le cresceva sapore.

Breve, il giovane tanto ragionò che vinse.

***

L'inverno anticipò la venuta. La valle era tutta bianca, gli abeti verdi, quasi neri, reggevano pesi enormi di neve. La cascata daccanto la casa era ghiaccio vivo: solo un filo d'acqua scorreva liscio, oleoso sotto la crosta cristallina, lo si vedeva, alla trasparenza del ghiaccio, aprirvi delle larghe bolle d'aria biancastre. Che silenzio intorno! Il villaggio dormiva accovacciato. La mattina all'Ave Maria e la sera all'Angelus qualche ombra nera passava silenziosa sulla neve dura, con una lucerna in mano e filava dritta alla chiesa, poi per tutta la giornata non andava intorno anima viva. Il cugino di Guglielmo giungeva la mattina di buon'ora, imbacuccato e rimpicciolito; sul limitare pestava forte i piedi in terra per staccarne la neve rappresa, Guglielmo gli apriva uno spiraglio d'uscio che entrasse in fretta e poi tutti e due accaniti piallavano, segavano, connettevano le tavole, senza posare un minuto. La sera il cugino scappava a dormire e Guglielmo seguitava il lavoro.

Teresa e la madre vivevano tranquille dalla loro, lavorando anch'esse alla casa futura. Intaccando un po' di capitale, la madre aveva comprato tela da lenzuoli e da tovaglie e percallo da tende; la mattina Teresa tagliava per il lavoro della giornata e poi insieme infilavano punti a cucire ed orlare. Guglielmo aveva messe le due vacche nella loro stalla, un gioiello di stalla, e ci faceva un caldo delizioso. Nel silenzio dell'opera femminile si sentivano ad ora ad ora, dietro l'assito, gli spintoni e le spallate che le vacche davano alla mangiatoia ed il grattare ruvido della loro catena contro gli orli del passante di legno.

Ben altra allegria risuonava nell'officina di Guglielmo! Egli cantava tutto il giorno. Al reggimento aveva imparato certe canzoni napoletane dalle cadenze disinvolte, le quali passavano una dopo l'altra per quella gola avvezza alle raspanti parole del dialetto tedesco, senza perdere nulla della loro vispa snodatura. I versi un Napoletano non li avrebbe intesi, ma che importa? la parola amore tornava ad ogni ritornello e quella usciva chiara e netta dalle labbra del giovane innamorato. Ah! l'opera come procedeva! Che bel castello d'assi piallate, liscie come uno specchio, in fondo alla stanza! Una stufa di lavagna nera brontolava allegra, la colla cuocendo a bagno maria faceva delle bolle grosse come un ovo che rompevano in un sospiro, e Guglielmo si sbracciava e sudava. Poi egli e il cugino andavano a desinare nella stalla colle vicine e bisognava sentire che chiacchere festose, che risate schiette intorno alla polenta.

Ma il maggior lavoro era il notturno. Dopo cena, partito il cugino, fatto un po' l'amore a bassa voce colla fidanzata, Guglielmo dava la buona notte alle donne accusando un sonno da non si reggere. Le donne sapevano bene che andava a lavorare di nuovo, anzi una volta Teresa aveva osato qualche mezza parola in proposito; ma il Rhedy aveva negato come uno sfacciato e Teresa non aveva aggiunto verbo.

Guglielmo stava cheto a contare i passi della fidanzata su per la scala, la sentiva entrare in camera, andare e venire via per il tavolato sonoro con quei cento rigiri che fanno le donne prima di coricarsi, gli passavano davanti agli occhi delle visioni piene di rapimenti, immaginava mille cose, seguiva colla mente tutti gli atti della bellissima persona. Qualche volta usciva di casa e stava cogli occhi fissi sulla finestra illuminata di Teresa, e gli sguardi erano così intensi che pareva dovessero forare i vetri e penetrare nella camera. Spenti il lume ed i rumori, Guglielmo tornava all'officina, vi accendeva una grossa lampada a petrolio appesa al soffitto, empiva la stufa e poi via per delle ore. Che bella luce dava quella lampada per tutta l'officina! Di fuori la neve in faccia alla finestra ne era illuminata per lunghissima tratta; pareva un fiume d'argento fuso che corresse fra sponde fredde e desolate; ma Guglielmo non guardava di fuori; solo nel gran sonno invernale e notturno stava curvo sul banco, maneggiava le assi come fuscelli, le fissava al granchio con una spinta da catapulta, e poi piallando ne faceva uscire dei trucioli eguali, spirali, crespi, che si ficcavano su per la buca della pialla e fioccavano a terra silenziosi e vi si ammonticchiavano. Ah! non cantava più allora, non cantava più, aveva ben altro che fare, e poi a udirlo cantare Teresa avrebbe potuto credere ch'egli volesse farsi sentire, ed al solo pensarci arrossiva come un fanciullo. Era sicuro che Teresa seguiva sveglia il suo lavoro; sapeva che ogni martellata rispondeva nel cuore dell'amante, ma voleva che le giungesse il solo rumore dell'opera; l'opera sola era necessaria e premeva, l'opera costruiva l'edifizio della loro felicità, del loro avvenire, il canto a quell'ora sarebbe stato una vanteria grossolana.

***

A inverno finito la casa fu lesta. Guglielmo il giorno di Pasqua condusse le due donne a visitare il nuovo quartiere, tutto olezzante di resina. La sera invitò a desinare il sindaco, il parroco, il segretario e parecchi amici; la mensa fu allestita nel gran salone da pranzo del nuovo albergo, e si bevve agli sposi.

Il domani Teresa partì per Zermatt. L'accompagnarono tutte le guide del paese, per far onore a Guglielmo. Presero per la più lunga, valicando la Betta-Forca, poi le Cime Bianche, poi il Colle del San Teodulo. Mai nessun lord d'Inghilterra ebbe, per traversare le ghiacciaie, più numeroso e valoroso corteo. Fu un viaggio di due giorni, e la sera del secondo si giunse a Zermatt. Là Teresa era aspettata per un impiego di guardarobiera. Il padrone prometteva inoltre di addestrarla alla direzione di un albergo, e, come l'ebbe veduta, assicurò che in sei mesi sarebbe riuscita al fatto di ogni cosa.

 

E Guglielmo tornò a Gressoney colla tristezza nell'animo. Quante volte dalla sua casa rifatta guardava le vette del Mon Rosa con gli occhi pieni di lacrime. Quel cielo azzurro di là era il cielo della Svizzera, e pensava che al piano in poche ore avrebbe superata la distanza che lo separava da Zermatt; invece qui c'era di mezzo il gran gigante, coi suoi mari di ghiaccio, colle sue rupi precipitose, irto di pericoli, minaccioso di morte ad ogni momento.

Ma il tempo correva, ed erano mille pensieri e mille faccende. Comprò i mobili, gli utensili di cucina, sempre aiutato e diretto dalla madre di Teresa. La povera vecchia non posava un minuto. Teresa scriveva delle lunghe lettere, piene d'affetto, sobrie e gravi com'era la sua indole.

In principio d'agosto tutto fu all'ordine. Guglielmo una bella sera, annunziò alla vecchia che il domani sarebbe andato a Zermatt. La più corta era valicare il Lysjoch e scendere diritto per il ghiacciaio del Corner: un otto o dieci ore di cammino. Ma il passo è difficile, Guglielmo, solo, mettersi a rischi non voleva. Un'altra volta, in circostanze diverse, non ci avrebbe manco pensato, ma ora, così vicino alla felicità, non osava tentare la Provvidenza. E poi voleva rifare la strada fatta con Teresa, potersi dire ad ogni momento: eravamo qui, e là, e rammentare tutti gli allegri incidenti della via. Di là s'allungava del doppio, ma le memorie lo accompagnavano. La giornata era incantevole. Guglielmo, partito alle due della mattina, fu a Fiery in valle d'Ajaz, alle sette. Vi fece un boccone d'asciolvere, e si ripose in cammino per le Cime Bianche; alle undici era al lago, a mezz'ora dal colle. Di là, la strada solita, sale fino al colle, traversa il ghiacciaio del San Teodulo, dopo tre ore di cammino giunge alle capanne, donde in tre ore di discesa arriva a Zermatt. Altre sei ore e mezzo di strada. Guglielmo aveva camminato otto ore, ma chi ha fatto il mestiere di guida non conosce stanchezza. Se non che la meta vicina lo faceva impaziente. Il ghiacciaio del Teodulo si stende lungo il versante italiano; ancora tre ore e mezzo prima di giungere al culmine, prima di gettare lo sguardo ansioso giù per le chine della Svizzera, prima di vedere le acque che scendono a Zermatt. Che eternità!

Ma dal lago dov'era, inerpicandosi su per le rupi a picco, i contrabbandieri ascendono al ghiacciaio dell'Aventina in meno di quaranta minuti; tutta la strada è accorciata di tre ore. Il passo fra le rupi è faticoso e difficile, il ghiacciaio in cima è spaccato in mille sensi da crepacci senza fondo, ma i contrabbandieri lo valicano, soli, di notte, con un peso di quattro o cinque miriagrammi sulle spalle. Guglielmo ristette un momento pensoso; se Teresa fosse stata là, certo gli avrebbe fatto pigliar la più lunga, ma le donne si sgomentano per nulla. D'altronde, quasi a tentarlo, in quel momento, un soffio gelato increspò quel poco d'acqua che durava sciolta nel lago. Guglielmo lo conosceva quel soffio; guardò in alto impensierito; dalle punte sottili delle Cime Bianche sventolavano delle vere banderuole di nuvole, strappi, cenci di nubi, da una parte strette alla roccia con una aderenza vischiosa, dall'altra lacerate a brandelli dal vento. Oh! oh! non c'era tempo da perdere, e la più corta via diventava subito la migliore, e spicciarsi senza più guardare il cielo. Eccolo per le rupi: vi s'arrampicava come un gatto, a quattro gambe, silenzioso e vigilante. Come saliva! Che abisso lo separava dal lago! Le pietre smosse vi precipitavano: dopo due o tre colpi secchi battuti sulle roccie, correvano cantando sul ghiaccio liscio, finchè sprofondavano senza rumore nell'acqua. Guglielmo fu sulla vetta in mezz'ora. Colava di sudore, il freddo gli ghiacciava i panni addosso. A' suoi piedi, da quel versante svizzero tanto sospirato, saliva verso di lui un cielo tempestoso. Era la maggiore bufera che egli avesse mai veduta. Pareva che la forza di tutti i venti del mare e di tutti i vulcani ribollisse compressa da un immenso spessore di nembi; li agitava, li sollevava in cavalloni giganteschi, li squarciava in gorghi spaventosi, muggiva con un rombo incessante.

Guglielmo dalla sua vetta serena vedeva sotto di sè guizzare i lampi, sentiva gli interminabili echi del tuono. E le nuvole salivano lente, come se le pareti eguali del ghiacciaio non dessero presa. Gli furono ai piedi, lo avvilupparono tutto, oscurandogli ogni cosa ed egli fu preso nella bufera. Muovere non poteva, lontano tre passi era buio fitto, un freddo umido ed intenso lo impigriva; di quando in quando la tempesta si acquietava in un silenzio mortale; le nuvole posavano gravemente sulla neve livida in una immobilità stagnante, ma ad un tratto il vento vi si impigliava un'altra volta, il freddo le addensava in grani di grandine durissima che rigiravano senza posa, la neve del ghiacciaio, secca come arena, entrava nelle spire del turbine, e Guglielmo sotto le frustate della grandine e della neve, cieco, sanguinolento, irrigidito dal freddo e dal terrore, disperato dello scampo, si sentiva morire.

***

La bufera durò a lungo, poi svanì in un soffio e tornò il sole. Guglielmo, riavutosi dal mortale stupimento, volle riporsi in cammino. Era stato fino allora appoggiato a forza di braccia sul bastone ferrato, curvo per salvare il viso dalla tempesta. Ma sollevatosi appena, i piedi non lo ressero e cadde. Ogni sforzo per rialzarsi fu vano; riusciva a mettersi ginocchioni, ma i piedi erano inerti e rigidi. Si levò le scarpe e le grosse calze dure incrostate di ghiaccio, immerse i piedi nudi nella neve agitandoli con quanta forza gli durava. Bisognava bene che tornasse la vita! Li strofinò violentemente colle mani, si scaldava le mani al fiato e le portava ai piedi, si levò di dosso la giacca e ne li avvolse, li rivestì di neve e li espose al sole. Il sole scioglieva la neve, ma i piedi non sentivano nulla anche rammolliti: una cancrena rapidissima li aveva anneriti: erano morti.

Allora si vide perduto. A due passi un crepaccio apriva la gola verde. Vi si strascinò, vi sedette, le gambe penzoloni nell'abisso, ed aspettò la morte. Ebbe un momento l'idea di affrettarla, precipitandosi nel crepaccio, ma la respinse; l'aria lavata dalla tempesta aveva una trasparenza mattinale e lo sguardo vedeva nettamente di là dal ghiacciaio i dorsi erbosi e le pinete che scendono a Zermatt. Guglielmo volle aver quella vista presente fino all'ultimo sospiro. Guardava laggiù, frugava per la oscurità vaporosa delle valli, si diceva che la sua Teresa era là buona e serena, intenta ai tranquilli lavori della casa. La vedeva scendere e salire colla veste di panno rosso, piena sui fianchi, col giubbettino di panno nero, pieno nel petto, sorridente e grave, ammirata da tutti. Essa certo pensava a lui e lo faceva a Gressoney nella casa che doveva accoglierli sposi; che dolore avrebbe provato all'annunzio della sua morte! – Dov'è Guglielmo? Perchè non iscrive più? – Ma è partito per Zermatt, apposta per andarti a trovare. – Partito! E non è giunto, e sono passati molti giorni. Ah! come l'avrebbero cercato via per le ghiacciaie! Tutte le guide di Gressoney e di Val Tournanche sarebbe saliti e Teresa con loro scarmigliata e disperata.

Poi scrisse colla matita sul libretto da guida il suo testamento. Fu presto scritto: Lascio tutto il mio a Teresa Lysbak, mia fidanzata.

Il giorno moriva, quando fu preso da un sonno invincibile. I bassi lembi del Mon Rosa erano già scuri, le pinete ed i prati che scendono a Zermatt si confondevano colla tinta azzurra delle montagne lontane, sui viventi delle valli e della pianura cadeva la grande ombra notturna ed intorno a quel morto rideva un ultimo raggio di sole rosato, dolcissimo.

L'ESTATE

Parlando della montagna, l'aggettivo che meglio combina col sostantivo estate è quello di sonora. Calda sulle Alpi l'estate non è da per tutto nè sempre, verde nemmeno; la grande estate dei classici non mi pare possa salire oltre i cinquecento metri d'altezza, nè convenire a luoghi angusti e nettamente limitati. Arsa l'Alpe non è quasi mai e mai la valle. Bionda non può essere una terra dove i pochi campi di biade sembrano piccole pezzuole stese al sole in un prato immenso; mentre invece dalle punte più ardue del Monte Bianco e del Monte Rosa fino all'ultima falda delle montagne (montagne, non colline), digradanti al piano, la stagione estiva canta, mormora, bisbiglia, echeggia, rimbomba, e tralascio l'infinita varietà dei suoni che mandano gli animali e i fragori delle meteore.

Il suolo alpino, nell'estate è sonoro.

Giù dagli estremi vertici rocciosi dove la ghiacciaia per troppo dirupo non regge, scroscia frequentissima la valanga di sassi la quale smotta serrata dapprima in qualche canaletto, poi s'allarga a ventaglio e moltiplica nella caduta i colpi ed i proiettili. Dalle creste affilate donde il ghiacciaio che si adagia sovra uno dei dorsi della montagna strapiomba sull'altro, formando quelle che gli alpinisti chiamano cornici, il sole stacca spesso enormi volumi di ghiaccio vivo e lì scaglia giù per abissi smisurati rendendo il rombo di una cannonata che gli echi trascinano, aggirano e rimenano più volte là donde è partito. Le ghiacciaie, spaccandosi in fenditure appena visibili, danno uno squillo metallico, acuto e potente come di una gran massa cristallina percossa con violenza. Nel seno dei crepacci aperti da più anni e scavati a grotte verdognole affascinanti, gronda talora dal sommo del ghiacciaio qualche rigagnoletto che battendo, sventolato dall'aria, diversi punti della parete, ne ricava armonie diverse, note dolci e trascinate, gemiti di lamento e singhiozzi e trilli di risate giovanili, che a sentirle di lontano sembrano un concerto col sordino di cui vada smarrito il motivo e solo si avverta l'accordo soavissimo dei suoni.

Quando poi dalle regioni del ghiaccio scendete alle chine erbose trovate da per tutto il terreno pur ora ridato al sole e ancora spugnoso per la neve succhiata, espandere in ogni verso le acque frettolose e cantare e gorgogliare come allegro della superata prigionia. E quando dagli altipiani erbosi scendete ancora ai prati, alle foreste, alle forre ed alla valle, allora gli accordi vanno moltiplicandosi all'infinito, e un suono insegue l'altro o lo avvicenda o ne respinge le ondate e si confonde con esso, e ne scaturisce una sonorità larga e piena che innonda l'aria, così continua che a volte non l'avvertite; se non che al menomo soffio di vento che ne alteri l'armonia, ne avete subitamente l'orecchio rintronato come se usciste di scatto di sordità.

Io credo che non ci sia fuori dell'Alpi, altro punto della terra dove la natura dei luoghi sia così continuamente presente all'uomo. Dovunque altrove voi potete chiudendo gli occhi immaginarvi trasportato di subito nelle più diverse regioni. Qui, la vista non è sola a darvi l'accorgimento della realtà. Cercate pure il più solitario rifugio, chiudetevi nella stanza più interna della casa e respingetene ogni filo di luce; una voce potente e persistente echeggiata da ostacoli vicini, verrà senza tregua a dirvi: tu sei qui, fra le mie balze, nella pace della mia solitudine, qui sotto poco cielo, nell'ombra delle montagne, ospite di una terra povera, ma dalla quale procede la varia fertilità della pianura.

A questi della terra, aggiungete ora tutti i suoni diversi delle opere e degli animali, aggiungete il vento quasi continuo e i frequenti uragani e vedrete quale immenso concerto commuova l'estate l'aria delle montagne.

Però al concerto manca uno strumento ed è la voce gaia e la canzone dell'uomo. L'uomo vi mette per lo più le grida, qualche urlo di raccapriccio o di angoscia, gemiti, lamenti, parole imperiose di comando o supplichevoli di preghiera, di quando in quando qualche trillo acuto che risuona lungo e lontano per le balze, ma rare volte l'allegro grappolo di note che forma la risata, rarissime volte la cadenza snella di una canzone. La regione montagnosa conosce ancora i canti campestri, e il rincasare dei prodotti vi è accompagnato da melodie spesso gravi come l'ora in cui si compie e pieni il ritmo e le parole di una dolcezza mansueta; ma i paesi delle valanghe non sono in quella regione.

 

Nella regione alpestre od alpina si ode forse qualche strappo di canzone in quei rari seni della valle dove cresce la vite e matura l'uva, o su in alto nei pascoli, ma quelle poche note hanno l'aria stentata e intirizzita di una pianta esotica che si voglia far crescere in terreno non propizio. Il canzoniere alpino è tutto invernale ed è curioso, caratteristico, ricco di colore e di poesia. L'estate fra i monti ha troppe fatiche e troppi pericoli. Tutte le opere agresti vi sono tali da anticipare al colono una vecchiaia spesso acciaccosa. Chi possiede, ha per lo più quel poco avere sminuzzato in altrettanti poderetti lunghi e larghi talora come l'ombra che manda il corpo del padrone nell'ora del tramonto: ed è gente di bassa statura. Tali poderetti sono disseminati qua e là, rubati alle frane, al pruneto ed alla roccia e circondati spesso di luoghi incolti e deserti. Il contadino quindi va solo al lavoro e ne ritorna solo. Manca il ritorno dai campi a frotte, pieno di chiacchiere e di risate, dove i piccoli aiuti vicendevoli fanno germogliare le simpatie e imbastiscono i matrimoni, dove regna il ricambio delle notizie borghigiane: e man mano per strada la frotta s'ingrossa per nuovi giungenti che sbucano dai campi vicini, finchè quando s'affaccia al paese s'allinea in due righe per tutto il largo della strada e il bestiame fa l'avanguardia, e allora intona la cantata gioconda, premio alla giusta fatica, avviso lontano alle vecchie che allestiscono la cena.

Sull'Alpe erbosa i pastori ingannano talora il lungo ozio con nenie che sanno di preghiera, e gli Alpinisti che vi passano per diporto giudicano la loro vita pigra e beata. A vedere quegli omaccioni vestiti di larghi e grossi panni che furono bianchi in origine e presero coll'uso la tinta grigiastra e l'unto dei formaggi slabbrati, a vederli durare delle ore immobili, sdraiati al sole o ritti sui promontorî, chi non la conosce crede che l'opera loro sia la più vana e accidiosa di questo mondo.

Ma tornateci quando sbucano dalle gole dei valichi le folate di nebbia che recano di pieno meriggio una tenebra fitta dove stagnano soffocati i suoni e le voci, o quando il temporale che brontolò un pezzo nella valle vicina, scavalcata improvvisamente la giogaia, si scatena con furia mortale sui pascoli pur ora battuti dal sole. L'armento colto di sorpresa e smarrita nella caligine la traccia e l'odore della stalla o s'aggira inquieto o scorrazza atterrito per il terreno fatto di subito sdrucciolevole e dirupante qua e là in precipizî senza fondo. Allora il pastore deve aggirare tutto il campo paschivo, e, ficcando gli occhi per la nebbia colla tormenta che lo accieca e gli flagella il viso, rintracciare e dar la rincorsa alle giumente o imbizzarrite o istupidite e se alcuna si avvia al precipizio, giungervi prima di essa e piantarsi magari sull'orlo e ricacciarnela. Spesso sono lotte a viva forza, l'uomo abbrancato alle corna della bestia e tempestandole di pugni il muso umido, finchè non l'ha sviata dal pericolo. Il peggior lavoro lo fanno i pastori di pecore e di capre. Il gregge non ha ovili. Tutta la montagna oltre i prati fin dove c'è un magro filo d'erba o qualche roccia muscosa gli appartiene: e quando scende la notte il cane ed il pastore lo rintracciano e lo raccolgono entro un recinto chiuso da una rete allacciata a piuoli che si chiama parco e imparcare il gregge l'operazione dell'assembrarlo. Le capre, nomadi per natura, si avventurano in luoghi dove è più agevole giungere che tornarne, sicchè una volta arrivate si guardano intorno dubbiose del salto. Se saltano, bene; ma se non s'arrischiano, allora conviene raggiungerle, ne vada anche della vita, e industriarsi a scamparle. Le Alpi ne hanno parecchie di croci che segnano il luogo dove è morto un pastore per zelo di custodia. Io intesi più volte raccontare di fanciulli o di giovinette raccolti a pezzi nel fondo di un burrato.

Rammento una gita fatta da Gressoney al ghiacciaio del Lys. Eravamo giunti alla morena di fianco e ci stava ai piedi quella parte del ghiacciaio che i descrittori sogliono sempre paragonare ad un gran fiume procelloso subitamente rappreso, e il paragone è giustissimo. Di là sorgevano i fianchi nudi e giganteschi del Monte Rosa, rupi colore del rame in basso, poi scogliere brune emerse dai nevati e al sommo la corona candidissima delle ghiacciaie d'Aventina, dei Gemelli, del Lyskamm, e della Vincent piramide. Un luogo stupendo e grandioso, ma da non andarci solo, tanto ha l'aria morta e micidiale. Stavamo per scendere sul letto del ghiacciaio quando il rumore di pietre smottate e rovinanti per la morena di contro ce ne trattenne. Ristemmo per osservare la frana, e in quel posare dei discorsi, proprio dell'attesa, ci pervenne, sempre dalla morena di contro, il suono di un corno rauco da capraio. Era infatti un capraio, un ragazzo dai dodici ai quattordici anni, venuto colà da un casolare pastorizio distante le tre o quattro ore, per guardarvi una quindicina di capre le quali facevano, poverette, più esercizio di gambe che di mandibole e si pascevano certo più dell'illusione di mangiare che d'erba. D'erba proprio non ce n'era un filo, solo qua e là qualche lichene, tanto da strapparci la vita quindici capre affamate, per due giorni dell'anno. E per così misero prodotto, che non valeva tutto sommato la moneta di venti centesimi, quel ragazzo faceva pei due giorni dell'anno, sei o sette ore di cammino ogni giorno, mettendosi cento volte in rischio di morte. Un passo falso, una pietra smossa, un salto non ben misurato, un attimo d'inavvertenza, potevano piombarlo giù per scogliere mortali e affondarlo nella bocca spalancata di un crepaccio. Egli non sapeva il pericolo e in ciò forse era la sua salvezza. Il mandriano dell'Alpe è così domestico dei luoghi selvaggi che non ne avverte la selvatichezza. Per chi ha il passo sicuro, una sporgenza di pochi centimetri vale quanto il più largo stradale e all'occhio esercitato un abisso di cento metri non fa più senso che un muro di cinque. Ma se la sera il ragazzo non fosse rincasato, quelli che lo aspettavano al casolare non potevano immaginare altra cagione d'assenza che la morte. L'indomani lo avrebbero cercato; ma la montagna è grande, la gente poca, e gli armenti vogliono una vigilanza continua. La madre forse non salì all'Alpi, forse al casolare non ci sono che uomini, forse il ragazzo è un servitorello preso, a mantenerlo, per la sola stagione estiva. Una volta trovato il corpo, il pretore, il medico e il cancelliere saliranno da un villaggio lontano quindici o venti ore di cammino (quante ne occorrono per andare da Torino a Roma) e soccorrerà al morticino la tutela sociale che lo scordò da vivo. Ma a volte non lo si rintraccia più; la montagna serba il vispo suonatore di buccina. Il ghiacciaio stritola i macigni che lo fiancheggiano e li rovina a valle e se questa frana perenne s'imbatte nel cadavere

 
Lo volta per le ripe e per lo fondo,
Poi di sua preda lo ricopre e cinge.