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Novelle e paesi valdostani

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– Questi andranno a fare pazientare tuo cugino, diceva una sera con sua moglie. Da qualche mese egli mi si fa brusco e vuol essere pagato.

– C'è tempo, osservò questa. Al cugino ne darai per ora quattrocento, cento occorrono per la casa.

– Da farne che, Maria?

La Lena sospira da un pezzo una croce d'oro da portare al collo come l'altre ragazze; di più siamo tutte e due calzate di grosso che è una miseria.

Natale, la prima volta in sua vita, tenne duro. S'era finalmente persuaso che lo scredito in cui era caduto presso la moglie e la figliuola, proveniva dalle troppo colpevoli condiscendenze. D'altronde quel denaro guadagnato in due mesi avendogli fatto intravvedere possibile un assetto del patrimonio, egli era fermamente risoluto a conseguirlo. Resistette persino alle preghiere di Lena la quale, bisogna dirlo, non parve impermalirsi del rifiuto.

Il giorno che giunse da Ivrea la colonna mortuaria del povero Daniele, dopo che l'ebbe collocata a suo posto e arrotonditovi ai piedi un bel cuscino di zolle fitte. Natale andò in casa a pigliarvi le donne e le menò seco al camposanto.

– Ci sta bene, è vero Lena? Non è vero che è bella?

– Quanto costa? – domandò senz'altro la ragazza, come se avesse da un pezzo meditata la domanda.

– Sessanta lire.

– La mia croce l'avreste avuta a miglior mercato, – replicò questa con tono mordente.

– Dovevo seppellirlo come un cane, Lena?

– È durato ventiquattro anni nel ghiacciaio senza uno straccio di croce, poteva durarla anche qui. Se il Signore io voleva in Paradiso, ce l'ha chiamato lo stesso.

Natale levò il pugno serrato, poi si contenne e scappò correndo.

***

In principio d'inverno morì la vecchia madre e non lasciò pure un soldo. Quel poco di suo era venuta man mano mettendolo in casa per veder di scemare la lista dei debiti dei quali s'era avveduta.

– La pitocca, – diceva Maria Maddalena colle comari, – la pitocca dovette aver vizi secreti perchè in casa rubacchiava a man salva. Ma già tutti i Lysbak sono sregolati; io m'aspetto ogni giorno che scoppi qualche grosso debitaccio di quel briccone di Natale.

– All'osteria non lo si vede più.

– Beve in casa, beve in casa e poi ci maltratta quante siamo.

E il debitaccio scoppiò che era grosso davvero. Ventimila lire tra capitale e interessi, delle quali il cugino voleva essere pagato subito o avrebbe mandato l'usciere.

Che strilli fece Maria Maddalena! Chi l'avrebbe immaginato! Venti mila lire! eccole sul lastrico tutte e due, essa e la figliuola! E piangeva e si dimenava e correva da una casa all'altra a raccontare le dissennatezze del marito. Poi volle si radunasse una specie di consiglio di famiglia, chiamandovi due vecchi parenti dei Lysbak.

Fu una domenica nel pomeriggio. Di fuori nevicava da empire la valle; i due vecchi, Maria Maddalena e la figliuola sedevano intorno alla tavola come giudici, Natale passeggiava su e giù per la stanza, fermandosi di quando in quando ad attizzare il fuoco, in apparenza tranquillo.

Maria Maddalena fece un lungo esordio compunto: essa aveva voluto che i due vecchi parenti intervenissero a consulta, perchè tanto essa quanto Natale riposavano nel loro senno.

Bisognava pensare a mettere al sicuro quel poco che sarebbe rimasto a debito saldato, perchè quello era l'avere di Lena, di questa povera Lena così docile e riguardosa! Oh, se non avesse avuto quella figliola, essa avrebbe sostenuto senza pure un lamento, il rovescio; essa era avvezza alla miseria perchè, non arrossiva a confessarlo, era nata povera e cresciuta guadagnandosi il pane. Ed eccola raccontare la propria vita dal giorno che era entrata nella casa dei Lysbak. Chi era stato a levar Natale dall'ozio in cui viveva per metterlo al lavoro? Lo dicesse Natale lì presente, non era stata lei forse? E quando la vecchia, Dio abbia in pace l'anima sua, quando la vecchia predicava le economie, essa non le faceva eco forse? Non è vero Natale? Ma già alla scuola di quel brav'omo di Daniele che aveva le mani e le tasche e la borsa bucate, non poteva crescere un ragazzo assennato!

Qui Natale, rimasto fino allora in silenzio misurando a gran passi la sala, si fermò a un tratto e disse, accennando la Lena:

– Mandatela di là almeno quella figliuola! Questi discorsi non fanno per lei.

– Non fanno per lei? O state a sentire! Di chi si tratta, del Lucio forse? Già non udirà cosa che non conosca per veduta, che anch'essa li ha lamentati più volte, scusandoli poverina, gli sperperi del padre.

E via e via, ne passavano delle accuse, una aggravando l'altra, chiare, determinate! Ogni fatto aveva la sua brava data e il come e il dove. I festeggiamenti alla bambina appena venne al mondo, l'eleganza del piccolo corredo, lo scampanare a festa per il battesimo, e due torcie, una non bastava! Tutto questo, essa lo predicava sempre al vento. Non è vero. Natale? Poi la casa rifornita più del bisogno e il vino di Barolo e di Caluso e il viaggio a Torino, al quale il marito l'aveva costretta dandosi per malato. Anche il lusso delle malattie, miei cari, delle malattie che guariscono viaggiando. E quella pazzia di portarvi la piccina a rischio di ammalarla davvero! Che non aveva fatto e detto essa per svogliarlo da quel viaggio! Non è vero Natale? Mi smentisca, mi smentisca se può.

No, Maria Maddalena, Natale non vi smentisce: Natale passeggia su e giù per la stanza, l'animo pieno di amarezza mortale, ma non vi smentisce. Oh! se Lena non fosse presente, non dico; ma fu buono avviso il vostro di farla rimanere. Voi lo accusate di prodigalità che non è tristo peccato; egli, Maria Maddalena, egli dovrebbe accusarvi di falsità e di tradimento, perchè eravate voi a metterlo sul passo delle spese, foste voi ad avviarlo ai debiti, voi solleticavate la sua vanità per la casata fino a farvi adornare come una madonna: ma Lena non abbisogna di altra scuola d'irriverenza! Al cospetto della figliuola, egli non osa gettarvele sulla faccia queste accuse, perchè Natale ha nell'anima una bontà eroica, una fierezza eroica, una eroica viltà.

Oh! il pover'omo soffriva! Gli era venuto un tic nervoso ai lati della bocca che non si chetava. Era bianco come un cencio e andava asciugandosi il sudore. Compiva camminando cento piccoli atti abituali, riponeva a suo posto delle cose che incontrava spostate, attizzava il fuoco, metteva acqua nella scodella della stufa, levava di sulla stufa il porta fiammiferi, che questi non si accendessero al calore, grattava e sfregacciava le macchie del panciotto, faceva risonare i pochi soldi nella scarsella. E intanto nella sua misera testa si rincorrevano mille immagini vive e mordenti. Ogni fatto travisato dalla moglie, gli appariva quale veramente era seguito, con tutte le circostanze che lo avevano accompagnato, e riviveva così tutta la sua vita, vedeva sè gustare tutte le dolcezze gustate, mentre la coscienza inesorabile della realtà attuale, lo costringeva solo ed immobile nell'abisso del dolore senza misura.

E Maria Maddalena, come il picchio selvatico che perfora i tronchi beccando sempre nel piccolo cerchio, seguitava a trapassargli il cuore a colpi di ingratitudine. Era venuta la volta di quella scena dopo il ballo dal Lanther, una scenaccia che Lena ne fu malata dallo spavento; e Natale taceva. Poi venne il vizio del bere, e quanto non ne disse di quello! E Natale taceva. Poi la grandigia di un monumento al padre, un monumento così sproporzionato ai loro mezzi di fortuna; e Natale taceva sempre, finchè si giunse a conchiudere, sulla proposta di Maria Maddalena, approvando i vecchi, e col muto e disperato assenso di Natale, che questi riconoscendosi inetto ad assestare le proprie faccende e volendo da quel buon padre che era provvedere all'avveniredella figliuola, avrebbe firmato un atto di procura generale alla moglie perchè questa pagasse i debiti e ristorasse il patrimonio.

Tre giorni dopo la firma dell'atto, Maria Maddalena vendeva al cugino tutto il patrimonio dei Lysbak, valutato a sessanta mila lire, per le venti mila a cui sommava il debito. Fu ben inteso una finta vendita: il cugino s'impegnava secretamente di lasciare a Maria Maddalena ed alla figliuola la reale proprietà ed il possesso delle quaranta mila lire che avanzavano e Natale rimase così spoglio di ogni avere.

Come la cosa fu saputa nel villaggio, si ridestò in favore del poveretto la pietà paesana e tutti lo consigliarono che impugnasse di lesione il contratto. Egli non ne volle sapere; si mise a giornata da questo e da quello a portar carichi di legna e a far commissioni. Il denaro che ne tirava lo metteva in casa e viveva in apparenza così tranquillo come per il passato.

In giugno, Maria Maddalena e la figliuola salirono colle vacche al cascinale della Betta Forca. A Natale rimanevano alcuni lavoretti da sbrigare nella valle, sicchè le raggiunse più tardi.

Il terzo giorno che stava con loro, la mattina mentre mangiava la polenta, Maria Maddalena gli disse netto che se credeva di rimanere lassù s'ingannava, che essa e la Lena vivevano della carità del cugino il quale consentiva per la sua bontà a lasciarle godere quei pochi stabili; ma che il cugino aveva espressamente dichiarato non voler fare a lui Natale nessuna sorta di carità.

Natale la lasciò dire senza nemmeno maravigliarsi. La Lena seduta a due passi divorava tranquilla la sua scodella di polenta con latte guardando il padre con occhio indifferente. Egli si levò e scese piano piano al villaggio.

Per strada, di quando in quando sostava come oppresso da stanchezza, guardava intorno i prati verdi, crollando la testa e mormorando: È finita! È finita! Poi prese a cantare una nenia tedesca dolce dolce con che addormiva la sua Lena piccina:

Guten Abend, gut' Nacht, ecc.

Quella nenia gli giungeva all'orecchio come se un'altra persona l'andasse cantando ed egli ne accompagnava la cadenza col passo e col dimenare del capo. Giunto al villaggio, andò diritto ad un tugurio che la piena del torrente aveva pochi anni addietro mezzo rovinato e di cui rimanevano intatte ma abbandonate dai padroni, due misere stanzette. Vi entrò come in casa propria e seguitò a dimorarvi quieto e solitario, procacciandosi da vivere con far la guida l'estate e l'inverno il manuale.

 

Io lo incontrai quell'anno istesso, un mese preciso dal giorno che sua moglie l'aveva cacciato di casa.

***

L'anno appresso, risalito a Gressoney, cercai di Natale Lysbak e lo tolsi meco per guida volendo ascendere a parecchie punte del Monte Rosa; ma fin dal primo giorno di cammino dovetti rinunziare all'impresa. Natale era sempre robusto e premuroso come per lo innanzi, ma così distratto e rischioso da impaurire. Intesi di poi come altri alpinisti ben più arditi ed esperti che io non sia, avevano lasciato di servirsene in causa delle sue temerarie imprudenze.

Ora, sono passati tre anni da che lo conobbi, ora Natale seguita a dimorare nel tugurio mezzo rovinato. I parenti, specialmente le donne, gli portano in casa da mangiare e lo riforniscono di vestiario. Egli non lavora più; gli alpinisti non cercano più di lui. L'inverno va da una stalla all'altra e vi si trattiene improvvisando ingegnosi giocattoli per i bambini coi quali è sempre sollazzevole e mansueto. Appena la valle è rinverdita, si mette a tracolla la corda ed il cannocchiale, si arma della picca e via per le montagne. Passa intere giornate sdraiato nell'erba, magari sull'orlo di un precipizio, dura delle ore a contemplare estatico la valle e le ghiacciaie, appunta qua e là il cannocchiale come vi cercasse cosa di grandissimo rilievo, raccoglie cappellate di fragole e mazzi di Edelweis. Ed ogni sera torna a casa col passo marziale di una guida che ha valicato Dio sa quali vette, e giunto sull'uscio si dà un'allegra fregatina alle mani, persuaso di aver fatto una buona giornata.

***

La Lena sposò quest'anno Necio il geometra e si fece gran festa per le sue nozze.

UN MINUETTO

Oio padre era nativo di Celano, negli Abruzzi, donde era sceso in Roma giovanissimo nel seguito di monsignor Calafimi, quando Sua Santità il Papa Innocenzo III insignì questo pio prelato del titolo di Canonico Lateranense, e lo chiamò al servizio della propria persona. Il buon Monsignore teneva mio padre più in qualità di discepolo, che di famiglio, perchè, amante qual era della buona musica, aveva scoperto nel giovine suo compaesano un paziente desiderio di intraprenderne lo studio, ed una maravigliosa attitudine a profittarne. Perciò lo aveva allogato a bottega di mastro Lapo Sguinzo, famoso costruttore e suonatore d'organi, presso il quale in pochi anni mio padre divenne altrettanto buono artefice quanto eccellente musico, tanto che, avendo la Sua Santità inviato monsignor Calafimi in Aosta a comporvi non so quale dissidio fra quel Vescovo e l'abate di S. Bernardo, questi lo volle compagno nel viaggio, contando, com'egli diceva, sul mansueto influsso delle sacre armonie per disporre a conciliazione l'animo dei litiganti. – Benchè in altro modo che non quello sperato da Monsignore, tuttavia a mio padre fu dovuta la pace, perchè il Vescovo di Aosta, come l'ebbe inteso sugli organi, mise a patto della propria arrendevolezza che esso gli fosse ceduto, e rimanesse in Aosta organista della cattedrale; al che Monsignore, dopo molte dispute, a malincuore accondiscese e questa forse fu la cagione della sua morte. Fatto sta che partitosi d'Aosta, ammalò per via e dovutosi rifugiare in una cattiva locanda, senza altra assistenza che di servitori malpratici, vi morì in tre giorni, con gran crepacuore di mio padre che intesa la funesta notizia per poco non lo seguì nella tomba.

La sua morte diede a mio padre argomento di quella composizione in la minore che ancora usano di sonare in Aosta per il funerale dei Vescovi.

I cittadini Augustani furono tutti ammirati del giovane maestro, ed essendo questi di naturale giocondo e sollazzevole, l'ammirazione divenne ben presto amicizia; un vecchio notaro che lo conobbe in quei tempi, mi raccontava come non si combinasse merenda o cena di cui egli non fosse, e dove non facessero lecito a lui quanto in ogni altro nessuno avrebbe saputo tollerare. Le donne specialmente ne impazzivano: era bello, vivacissimo e pronto a volgere in scherzo qualunque atto tentasse un po' temerario. Ebbe anche delle laute proposte di matrimonio; fra le altre una nipote del Vescovo, damigella di venticinque anni, sana e padrona dispotica di tre buone montagne, gli fece scrivere una lettera, alla quale indugiando egli a rispondere, il Vescovo in persona gli domandò se la voleva sposare. Questo fu il principio dei suoi guai, perchè Monsignore, impermalitosi del rifiuto, cominciò a mostrarglisi meticoloso ed acerbo; ma mio padre era paziente e contava col tempo di riguadagnarne le buone grazie.

Due anni dopo il suo arrivo in Aosta, fu richiesto dal curato di Gignod perchè salisse in Ollomont a stimarvi una spinetta che egli voleva comperare da una tale Marianna Lautou, proprietaria di miniere. Il giorno che giunse in Ollomont cadde un rovescio d'acqua impetuosissimo e ne franò in più luoghi la strada che mette in Aosta, cosicchè gli fu impedito il ritorno non solo per quella sera, ma pei due giorni seguenti. La padrona della spinetta era una bella vedova di ventidue anni e fate conto che mio padre sapeva toccare altri tasti che non d'organi e di gravicembali, insomma la spinetta non fu venduta e mio padre, dopo tre giorni, ridiscese in Aosta e andò diretto dal Vescovo a partecipargli il fermo proposito in cui era venuto di prender moglie.

Una sfuriata se l'aspettava e violenta, e già per strada, rimuginando nel cervello, s'era armato d'una grande pazienza e disposto a tollerare ogni cosa, pure di non perdere l'impiego; ma il Vescovo, intesa la notizia, gli disse asciutto asciutto che non se ne maravigliava perchè la vedovella soleva dare la caparra del matrimonio a quanti capitavano in Ollomont. L'accusa era assurda, il vecchio Lautou essendo morto da un anno appena ed avendo la vedova passato quell'anno in Orsières nel Vallese presso una zia materna donde era tornata da soli quindici giorni per toccare il fitto della miniera; ma mio padre non ebbe cuore di trangugiarla in pace, levò la voce, rimbeccò a dovere la calunnia ed il calunniatore; breve, il Vescovo lo congedò chiamandolo affamato italiano ed intimandogli di non mettere più mai piede sull'organo, nè in cantoria.

Le nozze seguirono otto giorni dopo ed eccomi al mondo.

Della mia felicissima infanzia ho poco da raccontare. Mio padre, attendendo in persona alla miniera che dava buon reddito, la casa era bella ed agiata e la vita eguale. La sera, appena mi avevano coricato, il babbo sedeva al cembalo nel peilo attiguo alla grande camera da dormire; per l'uscio spalancato io vedevo dal mio letto il tavolino dove lavorava la mamma, rischiarato da una lucerna a beccucci colle ventole verdi che oscuravano intorno l'ambiente, mentre la candela del cembalo mandava dalla persona del babbo un'ombra gigantesca che entrava per l'uscio e saliva sulla volta bianca della mia stanza fin sopra il mio capo. Rammento ancora certe frasi musicali intese fra sonno e veglia che mi infondevano nell'anima una sicurezza e una dolcezza deliziosa.

Ma la memoria che mi dura più viva è quella dell'amore immenso che si portavano i miei parenti; un amore tenero e gioviale di giovinetti che non cambiò mai natura e non si sfreddò mai cogli anni. A mio padre prendevano spesso degli accessi di allegria fragorosa ed irrompente che empivano la casa di risate; amava di trastullarsi come un fanciullo, faceva a rimpiattino colla mamma, mutando nascondiglio, tenendo tutte le stanze, vispo, snello come uno scoiattolo, stancando alla corsa la poveretta che lo inseguiva divertita anch'essa del giuoco e che finiva per cadergli nelle braccia rossa rossa e senza fiato. E io giungevo saltellante e gridando vittoria e mi ficcavo frugolando fra di loro, mi arrampicavo lungo la persona del babbo e le loro teste e le loro labbra s'incontravano sulle mie guancie mettendo l'uno il bacio dove l'altra prima lo aveva messo.

Altre volte avanti cena il babbo ci raccontava degli Abruzzi e di Roma, io a cavalluccio sulle sue ginocchia, la mamma seduta presso la finestra a godere quel poco barlume per le sue rimendature. A mezzo discorso il babbo cominciava a dire: smetti, Marianna, che ti cavi gli occhi, ed essa faceva il viso affaccendato, esagerando a parole il gran da fare che le davano quegli omaccioni (ero un omaccione anch'io) tanto per sentirsi ripetere l'invito. Ma il babbo dopo avermi ammiccato, fingeva di seguitare il discorso con me solo a bassa voce, bisbigliandomi dei suoni che parevano parole e scattando tutti e due in gran risate come se avesse detto chissà che lepidezza, finchè la mamma, dopo aver giurato e spergiurato che non la coglievamo, che avevamo buon tempo, che una povera astuzia era la nostra, si levava di scatto e veniva diretta a sedere su uno dei ginocchi del babbo ed io sull'altro. Quelli nella festa continua della mia vita erano i momenti nei quali avvertivo il piacere. Che spasso quando il babbo prendeva a lagnarsi del gran peso, a contorcersi come non potendone più, a distendere d'un tratto le gambe come per farci cadere, tenendoci saldi perchè non cadessimo. Poi mutava tono, la mamma ed io eravamo i suoi due figliuolini ed io entravo nella finzione rilevando mille analogie, recitando la mia parte di commedia per dare verosimiglianza alla cosa. E lasciato lo scherzo, il babbo ripigliava il racconto ma io non ne seguivo il filo perduto com'ero in mezzo all'ombra notturna, perduto negli occhi lucenti della mamma che fissava lo sposo con una languidezza d'amore infinita.

I miei parenti conobbero più tardi il dolore e la miseria e morirono disperati; ma io sono certo che la vita diede loro quanta maggiore felicità è concessa all'uomo. Ricordo ancora il viso raggiante che aveva la mamma certi giorni e gli sguardi umidi e lunghi che la mattina quando il babbo s'incamminava per la miniera lo accompagnavano fino allo svolto del muricciolo e lo aspettavano verso l'imbrunire, quando tornava a casa. Tutte le volte che mi tornano in mente queste memorie provo quel religioso sentimento di rispetto che danno le cose assolute ed ho coscienza di aver provato un tale sentimento senza saperne la ragione fino da quando ero adolescente. Ho conosciuto l'amore negli occhi di mia madre e quando in seguito mi avvenne di trovarmi alla presenza di una donna innamorata, anche giovanissimo, anche inesperto, seppi sempre determinare la natura e misurare quasi l'intensità della sua passione.

Avevo di poco oltrepassato i sedici anni, quando la fallita della casa fonditrice in Aosta ridusse mio padre alla estrema rovina; per onore della firma si dovette vendere la miniera, la poca terra e la casa stessa dove dimoravamo. Nessuno ebbe a patire del nostro rovescio, ma a noi non rimasero che le braccia ed il coraggio. Per fortuna io ero stato messo giovanissimo allo studio della musica e suonavo il mandolino ed il violino con gran dolcezza, leggendo a prima vista e superando felicemente ogni difficoltà. Mio padre era conosciuto in tutta la valle per eccellente maestro, cosicchè, coll'aiuto di Dio, pareva che la fame non si dovesse patire.

Commosso dall'infortunio e dalla integrità di mio padre, e non potendo d'altronde tirarne altro partito, il nuovo padrone della casa aveva acconsentito di lasciarcela abitare mediante una modesta pigione da pagarsi in fin d'anno. Eravamo allora a primavera avanzata; le famiglie patrizie valdostane lasciavano i palazzi di Torino per risalire ai castelli lungo la grande vallata e cominciava in questi una stagione di visite, di festicciuole, di solennità religiose e domestiche celebrate con gran pompa ed alle quali la musica poteva tornare di gradito ornamento.

Già due anni addietro la contessa di Challant, la quale conosceva mio padre fin da quando era organista in Aosta, gli aveva commesso di comporre un oratorio e di dirigerne l'esecuzione nella circostanza che si celebrava la festa di S. Giovanni, patrono della famiglia. Io avevo accompagnato mio padre, ero dimorato con lui otto giorni nel sontuoso maniero d'Issogne in qualità di secondo violino e m'era durata di quel soggiorno una memoria incancellabile, come di luogo incantato e di vita degna del paradiso. La contessa, donna di grande e fiera bellezza, giovanissima e festevole, si era molto compiaciuta della mia età quasi infantile, mi carezzava, m'inorgogliva con ogni maniera di elogi vantando di me il viso, il parlare, i modi e sopratutto il valore musicale del quale presagiva miracoli; cosicchè, mentre gli altri suonatori e mio padre istesso, intimoriti della grandezza del suo nome e dello stato e malgrado le sue maniere affabili, stavano alla sua presenza in contegno deferente e dimesso, io me le ero fatto dimestico e, tranne le ore date alle prove, passavo la intera giornata nella sua compagnia. Rammento anzi che il babbo, temendo la mia famigliarità non paresse irriverente, mi ammoniva ogni sera perchè me le facessi più riguardoso, ma oltrecchè le chicche ed i vezzi della contessa m'incoraggiavano a non mutare registro, mi sentivo naturalmente trascinato a mostrarmele confidente dall'espressione languida e appassionata che avevo più volte sorpreso nel suo sguardo, simile in tutto a quella che leggevo ogni giorno negli occhi di mia madre.

 

Le contessa di Challant aveva fin d'allora richiesto al babbo se volesse dar lezione di gravicembalo in parecchie famiglie di villeggianti; ma il babbo, non potendo abbandonare la miniera, aveva rispettosamente respinta la proposta. Volendo ora rimettersi all'antica professione, veniva da sè che il primo aiuto dovesse richiederlo alla castellana d'Issogne. Eccoci dunque mio padre ed io per la gran strada che scende da Aosta al borgo di Verrez.

Benchè sottile ed in aspetto di adolescente, avevo tuttavia, de' miei sedici anni passati, la forza e la balda impazienza di usarne. La stagione, la bellezza incantevole dei luoghi, la novità dell'impresa, l'umore gaio di mio padre, al quale, col proposito di ridarsi all'arte sua prediletta, era tornata la fiducia nella sorte, l'orgogliosa coscienza che avevo di conferire al bene della famiglia in età condannata per lo più ad esserle di peso, tutto ciò combinava ad accorciarmi la via e a rendermi il cammino delizioso. Ma sopratutto mi accompagnava e cresceva ad ogni passo una trepidanza continua, che a volte mi stringeva il cuore e che avvertendola mi faceva arrossire e vergognarmi del mio rossore. Nei due anni passati avevo affatto scordata la contessa di Challant, ma ora, sul punto di ripresentarmele, sentivo nascere e rivolgersi confusamente dentro di me una folla di pensieri e di memorie che mettevano tutte alla sua immagine rizzatasi viva ed imperante nella mia mente. I miei sensi stessi sembravano assaliti da subitanei ricordi; a mezzo un discorso, quando mi pareva di essere lontanissimo dal pensiero di lei, i capelli delle tempia mi davano la sensazione morbida e snervante delle sue carezze e ne rabbrividivo. Vedevo di continuo quello sguardo morente ed appassionato che avevo più volte sorpreso ne' suoi occhi, e cercavo di rifarmi la figura del conte, al quale certo quello sguardo era diretto, ma non c'era verso di venirne a capo.

A un punto mio padre mi disse: – Ti rammenti della contessa? – Diventai di bragia fino alle orecchie, e risposi un – no – asciutto asciutto. Il babbo mi guardò fiso, poi sorrise con gran dolcezza e mi baciò sulla fronte. Fu il primo, fu il solo bacio di mio padre che mi tornò doloroso.

Quando giungemmo ad Issogne la contessa era uscita a diporto. Fummo tosto condotti al conte il quale ci accolse cortesemente, con molte parole.

Mentre discorreva, io non ristavo dal guardarlo e provavo del suo aspetto una maraviglia, un disinganno che mi sconvolgevano la mente. In luogo dell'uomo che non sovvenendomene avevo immaginato, nobile e vigoroso, capace e degno di accendere tanto fuoco negli occhi della contessa, mi stava dinnanzi un vecchietto infermiccio e volgare, mostrante negli atti e nelle parole una timidità sospettosa ed irrequieta, una compassionevole povertà di forze e d'intelletto.

Era basso, magro, trasandato, le ciglia ed i capelli rossastri ed ispidi, il viso lentigginoso che pareva unto, le labbra sottili, la guardatura incerta e falsa.

La sua persona, i modi, il parlare contrastavano talmente colla grandezza del nome e più coll'immagine che m'ero formata di lui, che io mi domandavo sconcertato se anche la fiera e fresca beltà della contessa non era un errore della mia mente, se la sua venuta non mi avrebbe mostrata la ridicolaggine puerile della emozione provata lungo la via. E parendomi di concedere assai alle mie memorie, già mi apparecchiavo alla vista di una donna matura, nella quale l'eleganza del vestire, la dignità dei modi, e forse, via, poichè di alcuna qualità speciale de' suoi occhi mi sovvenivo, la dolcezza dello sguardo, al giudizio di un fanciullo attonito alle non più viste grandigie signoresche, potevano tener luogo di bellezza.

L'arrivo della contessa dissipò tali dubbi. Era veramente giovane e bella, quale me la avevano rappresentata le sottili trepidanze sofferte; ma il suo aspetto, in luogo di scombuiarmi l'anima, me la tranquillò subitamente: da' suoi grandi occhi sinceri e sereni usciva uno sguardo riposato e la persona e le movenze rivelavano una calma dolcezza. Mostrò d'impietosirsi al racconto delle nostre sciagure e con poche e gravi parole promise al babbo di aiutarlo a rifarsi uno stato. Fu inteso che saremmo rimasti ad Issogne finchè non giungesse risposta alle diverse lettere che ella si proponeva di scrivere quel giorno medesimo a' suoi parenti ed amici valligiani.

– Vedrete, caro maestro, che la vostra inesauribile miniera è nell'ingegno vostro… e nel violino del mio piccolo Giulio – aggiunse dopo un momento, carezzandomi famigliarmente la guancia, come se allora soltanto avesse avvertita la mia presenza. Quella carezza, quel mioe quel Giulio mi avrebbero insieme avvilito nella mia dignità virile e fatto squagliare per la voluttà, se nella contessa avessi ravvisato alcunchè della terribile donna che ero venuto vagheggiando e temendo lungo la strada; ma svanito l'errore intorno la caldezza del suo sguardo, si era d'un tratto composto il turbamento di tutto l'essere mio e fatta meno ombrosa e battagliera la mia pubertà; tanto che, quando quella sera stessa e i giorni seguenti mi avvidi di essere tenuto in conto di fanciullo, come due anni addietro, non solo non me n'ebbi per male ma mi abbandonai con una sorta di tenerezza scorata alla ripresa delle antiche famigliarità e delle antiche lusinghe. Tuttavia la sera, rientrato nella mia cameretta ed aspirandovi il profumo di che i miei abiti s'erano impregnati nelle stanze ed al contatto della contessa, rivedevo ne' suoi occhi con tormentosa evidenza quello sguardo pieno d'amore e mi sentivo salire al viso una vampa che m'acciecava. Ma erano raffiche passeggiere; l'immagine reale dissipava ben presto la fantastica e questa non lasciava traccia.

La mattina verso le dieci, veniva in persona a levarmi dallo studio cui attendevo col babbo e non mi lasciava più fino a tarda notte, mostrandomi sempre una premura materna così sollecita e carezzevole, così continuamente uguale da non lasciar luogo a sospetti intorno alla tranquillità dell'animo suo. Dopo cena, ridottosi il conte nel suo quarto, d'onde non sbucava che all'ora dei pasti, e mio padre in libreria a comporre o a copiare partiture, essa mi chiamava seco nella sua grande e profonda camera da letto, e là, lunga distesa sul canapè, stava ad ascoltare le lamentazioni singhiozzanti ed il chiacchierìo trillato del mio mandolino, cogli occhi chiusi, immobile, come se dormisse.

La ventola della lampada, gettando intorno una penombra nella quale andava smarrita la forma reale di tutte le cose, faceva sorgere dalle tende, dai cortinaggi dell'alcova, dalle stoffe abbandonate qua e là sui mobili, dalla persona stessa della mia ascoltatrice, contorni mobilissimi che secondavano l'errore della mia mente già eccitata dalla dolcezza delle melodie e dal ripercuotersi che facevano nel mio petto le vibrazioni dello strumento. E allora, benchè non prestassi alla musica scritta che un'attenzione prettamente macchinale, all'agitazione repentina che m'assaliva ed a certe note, che, uscite quasi inconsciamente sotto le scosse della mia penna, mi tornavano all'orecchio eloquenti come parole, sentivo correre una misteriosa corrispondenza fra i suoni suscitati dalla mia mano e le forme create dalla mia mente, ed affinarsi e centuplicarsi il mio valore artistico, fino ad esprimere con maravigliosa evidenza i desiderii di voluttà che mi torturavano.