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– Il rimedio è trovato, mio buon Eugenio.



– Tu dici…?



– Dico che non più tardi di domani tu entrerai nella casa del signor Lanfranconi: dico che fra tre giorni Ifigenia sarà di bel nuovo la tua fidanzata, e fra un mese tua sposa!



Gli occhi di Eugenio sfavillano. Io gli ho parlato coll'accento della convinzione, e l'anima sua giovanile si riapre alla speranza.



– Ma come? in qual guisa credi tu riuscire…?



– Non occorre tu il sappia; mentre tu narravi la tua odissèa, io studiavo le forze nemiche, e meditavo il piano di battaglia. Credilo, amico, la vittoria è per noi. Abbiamo a combattere un imbecille, il signor Lanfranconi; due furbi, e già immagino a qual specie essi appartengano. La vecchia Anastasia a maraviglia li ha designati col titolo di pianta-carote. Pianta-carote! ecco una parola che per me equivale ad un poema! Oh! io li conosco per bene codesti messeri! La rivoluzione del 1848 ne produsse a migliaia; non è a far le meraviglie che la guerra del 1859 ne generi altrettanti. Esseri parassiti che nell'ora del pericolo fuggono o rimangono celati, nel giorno della vittoria svolazzano sul campo seminato di cadaveri per dividersi le spoglie dei vinti e la gloria dei vincitori. E sai tu come costoro riescano all'intento? L'uno assume la maschera del martire, del cospiratore, dell'antico emigrato, del prigioniero politico; un altro si fa banditore di sonori proclami, propugnatore di un liberalismo condiscendente, e adesca di tal guisa le sciocche moltitudini. Credilo, Eugenio, i due furbi che noi abbiamo a combattere sono, per certo, animali di tal specie. Oh! noi sapremo smascherarli, te lo giuro. Sarebbe delitto il permettere che la tua Ifigenia cadesse nell'unghie di codesti ciurmatori! Ella sarebbe perduta! —



Eugenio mi stringe la mano con entusiasmo; io godo d'aver trasfuso in lui la speranza e la gioia; e per non dargli tempo di ricadere nella tristezza, mi propongo di accompagnarlo immediatamente a Gorgonzola, e di ricondurlo fra le braccia della sua fidanzata. A un innamorato di venticinque anni, a un innamorato che poco dianzi stava per lanciarsi nel navilio, poteva io fare una migliore proposta? Un'ora dopo noi partivamo per Gorgonzola.



CAPITOLO II

La vittima

Il viaggio da Milano a Gorgonzola tanto a me che all'amico Eugenio parve brevissimo. Io meditavo il mio piano di attacco; l'amico si beava nei sogni d'amore: entrambi in apparenza muti, sebbene un dialogo animatissimo succedesse ne' nostri cervelli fra i varii personaggi o immaginati o evocati dalla nostra fantasia.



Entrammo in Gorgonzola ad un'ora di notte. Raccomandate all'oste le magre rozze che colà ci avevano trascinato, noi ci avviammo verso la casa del signor Lanfranconi.



A un tratto due colpi di gran cassa, e l'accordo straziante di un bombardone e di quattro clarini ci ferisce l'orecchio. – Che diavolo vuol dire questa musica? – È la banda del paese, – risponde un dabben uomo che camminava a piè pari; – questa sera ha luogo una grande serenata sotto le finestre del signor Lanfranconi, il quale fu eletto capitano della guardia nazionale. Vedete? la casa è illuminata, la folla si aduna; senza dubbio vi saranno dei discorsi. —



«Tanto meglio! – esclamo io, – una tale circostanza è favorevolissima ai nostri disegni.»



Ecco infatti la casa del signor Lanfranconi: la folla è tanto compatta che io e l'amico Eugenio stimiamo prudenza l'arrestarci a trenta passi di distanza. I piedi e, meglio che i piedi, le scarpe ferrate dei villici mi incutono rispetto più che non le manovre di un uffiziale della guardia civica, il quale, per mantenere l'ordine, rincalza a spintoni i curiosi insubordinati. Eugenio si apposta dietro un albero, e par che col guardo pretenda magnetizzare le finestre. Frattanto la gran cassa e i bombardoni destano tutti gli echi delle montagne di Bergamo; le case oscillano come per terremoto; io porto le mani alle tempia per difenderle da quell'assalto violento di note: e nondimeno, al cessare dello strepito, batto le mani con trasporto onde conciliarmi le simpatie degli astanti. – Eh! non ci sono tutti, – mi dice un vicino, – se la banda fosse completa… «A quest'ora sarei sordo, rispondo mentalmente.»



Ma il chiasso non è finito. Al fragore degli strumenti succede il baccano delle voci umane.



– Viva il signor presidente!



– Viva!



– Viva il signor Lanfranconi!



– Viva!



– Viva il capitano della guardia nazionale!



– Viva!



– Viva il protettore della società democratica-italo-latina!



– Viva!



– Fuori! Al balcone! Viva!!! —



Le grida raddoppiano, l'impazienza della folla assume un carattere minaccioso. È tempo di cedere al pubblico entusiasmo.



Le imposte del balcone si aprono, ed il signor Lanfranconi preceduto da due figuri con la torcia alla mano, presenta finalmente il suo rispettabile individuo.



– È desso! – mormora Eugenio. – E quell'altra che ora comparisce è la sorella nubile… Là in fondo, non ti par di vedere un'altra donna…?



– È uno zuavo…! – rispondo io.



– E chi saranno quei due figuri che portano la torcia?



Senza dubbio i tuoi rivali; l'incarico che stasera si sono assunti, mi è di buon augurio.



Queste parole io scambio coll'amico, mentre la folla muggisce. Frattanto il signor Lanfranconi, vestito della completa uniforme da capitano, risponde agitando il fazzoletto bianco alle dimostrazioni popolari, e straluna gli occhi come un buffo comico.



Uno de' miei vicini mormora a mezza voce: – oggi soltanto l'hanno nominato, ed eccolo completamente vestito colla uniforme del grado! Comincio a credere ch'egli l'avesse già in pronto.



– Eh! conosciamo ben altri che s'erano preparati l'uniforme, – risponde dalla folla una voce.



– Silenzio! – gridano ad un punto cento gole. Il primo che aveva mormorato si allontana quatto quatto, e va a celarsi nell'ombre.



Il signor Lanfranconi accenna colla mano alla moltitudine di moderare i suoi trasporti di entusiasmo; i due, che portano il cero, ripetono lo stesso gesto; al baccano succede un silenzio solenne.



Il presidente della società democratica-italo-latina, rassicurato da quella calma, apre la bocca per proferire un discorso; ma non appena egli ha lanciate le prime parole:

valorosi concittadini

… nuove grida di entusiasmo lo interrompono. – Viva! bravo! – Silenzio! – urlano di bel nuovo gli astanti. Il signor Lanfranconi sorride, straluna gli occhi, improvvisa varie smorfie, si inchina. La gioia di quel primo trionfo gli irradia la faccia.



– Valorosi concittadini, – ripetè egli dopo un lungo intervallo di attesa. – Valorosi concittadini… – Ma a queste parole eloquentissime la folla prorompe a nuove acclamazioni.



Tre volte l'oratore riprende l'esordio, tre volte viene interrotto dagli applausi. «Sì pronti e sì efficaci trionfi, – pensavo io, – ottiene la parola, quando i cuori bollono di entusiasmo, quando il popolo, commosso da generosi affetti, non attende che un breve impulso per correre a grandi imprese, per sacrificarsi ad una santa aspirazione. Guai a chi non profitta di tali entusiasmi!»



Sventuratamente il signor Lanfranconi non aveva che l'eloquenza delle intenzioni. Il discorso ch'ei doveva recitare era stato redatto da' suoi segretari; era un impasto di frasi comuni, vuote di senso, sterili di affetto; insomma, uno di que' discorsi che paiono sublimi ai… citrulli.



«Valorosi concittadini!



«Austria è sconfitta, ma non domata; Lombardia ride, Venezia piange, Toscana si redime, Bologna ci stende la mano, Roma freme, Napoli attende. Su dunque, o valorosi! Armiamoci dall'unghie ai capelli; la lotta non è finita; al primo grido d'allarme fate che il nemico ci trovi tutti al nostro posto! Dio è con noi… Inghilterra è per noi, Francia lascia fare… Spagna è minacciata dal Marocco, China dà a pensare alle potenze, Russia attende al Caucaso, Turchia vacilla, Prussia ha dolori intestini, Ungheria si prepara, Russia aspetta. Valorosi cittadini: profittiamo della occasione. Quanto a me, chiamato dall'onorevole incarico di capitanare le file dell'armata cittadina, morrò con voi e per voi nell'ora del cimento. Sia un solo il nostro grido: Viva la razza italo-latina!»



Quest'ultime parole non sono troppo ben comprese dalla folla. Nondimeno, poichè ha cessato di parlare, l'oratore è di nuovo acclamato dalla moltitudine.



– So con qual uomo abbiamo a fare – dico io ad Eugenio. – Ora mi pare che l'uno de' suoi segretari voglia prendere la parola. Ascoltiamo anche costui; a me basteranno poche frasi per conoscere la forza del nemico. —



Il nuovo oratore senza scomporsi della persona scioglie la voce di tal guisa:



«Il grave e lento sviluppo della letteratura germanica, la civiltà del nord meditata e guardinga, con sintesi procedente, non clamorosa ma schietta, non balda ma fidente, matura in segreto i provvidenziali destini dell'Europa tutta; non accelera ma conferma, non spinge ma assoda il progresso delle generazioni avvenire. Meditando la dotta Alemagna, svolgendo le pagine di quegli operosi ma prudenti elaboratori del pensiero, io sento vie più assicurate le sorti del bel paese,

che Apennin parte e il mar circonda e l'Alpe

; e grido: Viva tutta la famiglia dell'Europa civilizzata! Viva la sapienza civile che informa la nuova êra dei popoli!»



La folla ripete il Viva, ma con voci già languide e fiacche. La monotona cantilena dell'oratore ha agghiacciato l'entusiasmo del pubblico.



– Anche quest'altro s'è dato a conoscere, – mormorai di bel nuovo all'orecchio dell'amico. – Ora ascoltiamo l'ultimo.



«Cittadini! Dallo Spilbergo, dalle carceri di Josephstadt, dall'eculeo, sui gradini del patibolo, sulle vie tribolate dell'esiglio, torturato, battuto, straziato, lacero nelle vesti, affranto dalle catene, io non ebbi, non ho e non avrò che un solo grido: Morte ai tiranni! morte ai nemici della libertà! Morte ai ladri! Morte agli assassini! Morte! Morte!.. e dannazione!»

 



– Morte! Morte! – rispondono alcune voci. Ma un colpo di gran cassa e lo squillo dei bombardoni ridestano ne' cuori l'ilarità perduta; gli oratori si ritirano dal balcone, le faci si spengono, si chiudono l'invetriate: la guardia civica e i suonatori si allontanano seguíti dalla folla, che seconda la musica con cantici lieti.



– Ora a noi, signor Lanfranconi!



– Povera Ifigenia! – esclama Eugenio. – Ella non s'è lasciata vedere… Ella non prese veruna parte alla cerimonia. Senza dubbio la poveretta è rimasta in qualche angolo solitario della casa a piangere in segreto la dabbenaggine del padre.



– Ciò che ella pensi saprò fra pochi minuti. Tu, mio buon amico, vattene all'albergo e mettiti a letto; domattina verrò a svegliarti, e ti condurrò fra le braccia della tua fidanzata.



– Che? tu non vieni con me all'albergo?



– Io dormirò questa notte in casa del signor Lanfranconi. Io amo andar per le spiccie nelle faccende mie.



– Ma come?.. in qual modo?..



– Lasciane a me la cura.



Eugenio si allontana di alcuni passi, poi si volge per vedere se io mandi ad effetto il mio disegno. Vedendomi entrare a passo di carica nella casa della sua fidanzata, che a lui pareva una fortezza inaccessibile, il mio povero amico rimane pietrificato dallo stupore.



Io salgo le scale, penetro nella anticamera, e scuoto a gran forza il cordone del campanello.



Un servo viene ad aprirmi.



– Il presidente della società democratica-italo-latina, capitano della guardia nazionale, eccetera, eccetera, signor Egidio Lanfranconi, è egli visibile?



– Signore, – risponde il domestico, – il mio onorevole padrone si è recato in giardino, ove stassera ha luogo una cena.



– Tanto meglio! richiamalo tosto, e digli che una persona giunta testè da Pietroburgo deve parlargli di un importantissimo affare. – Così parlando, io entro nella sala, e mi getto sovra un divano.



– E non potrebbe la signoria vostra tornare domattina?..



– E tu credi, o imbecille, che un uomo il quale giunge dalla Russia, incaricato di una segreta missione, possa aspettare i comodi altrui? Questa sera istessa io debbo spedire un dispaccio telegrafico al signor Gorciacoff primo ministro, il quale, mentre io sto qui parlandoti, passeggia forse nel suo gabinetto, attendendo la risposta del signor Lanfranconi. E questa risposta dev'essere comunicata prima di mezzanotte all'imperatore; e prima che l'alba sorga, il mio dispaccio avrà fatto il giro dei principali gabinetti d'Europa!.. Imbecille! —



Il servo si inchina profondamente e si affretta a portare l'ambasciata. Pochi minuti dopo, il signor Lanfranconi entra nella sala borbottando: «Qui certo v'è un malinteso. Che diavolo mi parli tu, imbecille, di Russia e di gabinetti?»



– Signor presidente della società democratica-italo-latina, – dico io con aria di mistero, – vorrei parlarvi da solo a solo. Favorite di licenziare il vostro domestico. —



A un cenno del signor Lanfranconi, il servo si ritira.



– Perdonate, o signore, se il desiderio vivissimo di conoscere davvicino un uomo pel quale nutro la più grande ammirazione, mi fece ricorrere ad uno stratagemma forse un po' bizzarro. Io non sono venuto per recarvi i dispacci del gabinetto russo, come poco dianzi ho annunziato al vostro domestico; sibbene per stringervi la mano e per manifestarvi quei sentimenti di stima…



– Che?.. Voi dunque assumeste un carattere diplomatico al solo scopo di entrare nella mia casa e di…



– E di ossequiare il grande politico, da cui dipendono i destini dell'Italia tutta, fors'anco i destini d'Europa. —



La fisonomia del signor Lanfranconi comincia a rasserenarsi. Egli era entrato nella sala con un cipiglio da dannato; ma le nubi della sua fronte si diradano, il suo labbro si atteggia ad un gentile sorriso.



– A dir vero… io non meritava tanto onore… Se in cosa veruna ho contribuito al bene del paese, ciò deve ascriversi piuttosto alla mia posizione che mi dà i mezzi… di fare qualche sacrificio, anzichè…



– Signore: vi hanno persone che potrebbero fare assai più di voi quanto ai mezzi di fortuna, eppure non fanno. Voi avete istituita una società democratica-italo-latina, a cui un giorno tutta l'Italia andrà debitrice della sua redenzione. Non aveva torto il signor Gorciacoff, allorchè parlandomi di voi a Pietroburgo…,



– Che? voi parlaste col signor Gorciacoff?.. Voi davvero venite da Pietroburgo? favorite di sedere…



– No… no… signor presidente; per voi i minuti sono preziosi; io non voglio intrattenervi più a lungo… Ringrazio la sorte d'avermi accordato il favore della vostra vista. Ora, se mai tornerò a Pietroburgo, potrò dire al signor Gorciacoff e a quanti già fecero le meraviglie perchè io non conoscessi il più dotto politico d'Italia, che non solo ho veduto, ma ho udito parlare il signor Lanfranconi, sono entrato nella sua casa, e ho stretta la mano, che potrebbe con un tratto di penna mutare le sorti dell'Europa.



Ciò detto, io m'inchino profondamente e muovo per andarmene; ma il signor Lanfranconi mi afferra per un braccio e mi obbliga a rimanere.



– Signore… io non permetto che voi partiate in tal guisa… Un bicchiere di vino… una tazza di caffè… un

punch

! Vi prego di sedere un momento…



– Poichè voi… desiderate…



– Non solo desidero, ma pretendo… Dalla mia casa non è mai uscito verun galantuomo senza prima aver gustato il mio barbéra…



– Signore! qual degnazione da parte vostra!.. Ma non è a far le maraviglie… Il conte Valeschi a Parigi nelle sale della marchesa Orleanoff ha detto che l'Italia non possiede che un solo vero democratico… e quello siete voi. —



Il signor Lanfranconi ha gli occhi scintillanti. Mentre io stempero la mia eloquenza in complimenti di tal genere, il servo reca due bottiglie, e subito si allontana per cenno del padrone.



– È strano che in Russia, in Inghilterra e in Francia sia noto il mio nome, – dice il dabben uomo riempiendomi il bicchiere. – Che ho fatto io per procacciarmi tanta fama? Non sono uscito mai da Gorgonzola… Le mie idee politiche sono subordinate alla volontà di pochi buoni amici che onorano la mia casa della loro presenza… Nel circolo da me istituito non parlai che due volte… e non credo aver proferite più di venti parole…



– Venti parole del signor Lanfranconi valgono assai più che non venti volumi di codesti politicanti accozzatori, gonfi di ciarle e vuoti di idee. Non v'ho forse udito poco fa predicare dal vostro balcone? Qual fuoco, quale eloquenza in sì breve arringa! Qual concisione e al tempo istesso quale esattezza nel dipingere lo condizioni presenti dell'Europa, le passioni politiche de' vari stati, le nuove idee dei popoli! Il signor Albacioff, parlando di voi al conte Adrianoff, uscì fuori con questa sentenza: «L'Italia possiede due geni politici, che nella presente situazione potrebbero condurla a buon fine: l'uno è il conte Cavour, il quale fatalmente si è ritirato dalla cosa pubblica; l'altro è il signor Lanfranconi presidente del circolo di Gorgonzola, troppo modesto o troppo altero per accettare la prima carica dello stato.»



– Oh sì! troppo altero! – grida il mio interlocutore dopo aver vuotato il bicchiere sino all'ultima stilla… Ma se mai gli attuali ministri intendessero abusare più oltre del loro potere… uscirei forse del mio coviglio… e volerei a Torino… per salvare la patria!



Povero Lanfranconi! L'ingenuità delle sue parole mi commuove, mi intenerisce. Io comprendo fino a qual punto le adulazioni di due raggiratori gli hanno guasto il cervello.



– Voi dicevate, – prosegue egli coll'entusiasmo del credenzone, – voi dicevate che lord Russel, lord Gorciacoff e Valeschi si sono degnati di pronunziare il mio nome. Potreste ora dirmi in qual modo que' grandi diplomatici hanno potuto aver nuova de' fatti miei… e in quale occasione si compiacquero rammentarmi…?



– Signore: la sarebbe una istoria troppo lunga e, per dir vero, io sono aspettato da un mio compagno di viaggio all'albergo del

Sole

, nè posso per ora intrattenermi più a lungo.



Il signor Lanfranconi scuote il campanello per richiamare il domestico, il quale subitamente comparisce.



– Va all'albergo del Sole, e dì all'amico di questo signore… che noi lo attendiamo qui…



– No… no, – interrompo io. – Asdrubale non consentirebbe di metter piede in questa casa, mentre per certe ragioni politiche egli viaggia l'Italia nel più stretto incognito. —



Poi volgendomi al domestico: – poichè il signore desidera ch'io mi trattenga qualche tempo con lui, dirai alla padrona dell'albergo che in caso il mio amico rientrasse prima di me, vada pure a coricarsi, che io sto bene ove mi trovo…



– E aggiungi, – proseguì il signor Lanfranconi, – aggiungi che il signore passerà la notte in casa mia, perchè deve parlarmi di gravi affari di stato… Ah! ah! —



Il servo si inchina e parte. Il colpo è fatto… eccomi padrone della fortezza. A suo tempo aprirò la breccia per introdurre l'amico; gran scena di passione, gran quadro finale, e buona notte… Il signor Lanfranconi brucia d'impazienza: conviene alimentare la fiamma perchè non si spenga sul più bello.



– Io era a Pietroburgo due mesi sono e, come vi dissi, fui presentato in casa del signor Gorciacoff, il quale ebbe la cortesia d'introdurmi presso la marchesa Albanoff, amica del principe Adrianoff, il cui segretario, signor Anstracoff…



– Che bei nomi! che nomi diplomatici! È duopo confessarlo, noi in Italia di tali nomi non ne abbiamo…



– Il signor Gorciacoff, leggeva una sera il

Somarroff

, giornale russo. A un tratto egli sospende la lettura, e volgendosi a me con aria sorridente: «Di grazia, mi chiese, quanti anni credete voi possa avere il signor Egidio Lanfranconi?»



– Sessantaquattro anni, cinque mesi e sei giorni…



– Sventuratamente io non conosceva questi particolari e, lo dico a mia vergogna, ignorava perfino… che in Italia esistesse un personaggio così chiamato…



– Ah! Ah!.. lo credo. Da cinque mesi soltanto io ho cominciato ad agire nel campo della politica. Ebbene? qual fu la vostra risposta al signor Anstracoff?..



– Risposi schiettamente ch'io per nulla conosceva il signor Lanfranconi. Peccato che voi non foste presente a quella scena! Il signor Gorciacoff fece un atto di meraviglia: tutti gli astanti si guardarono in viso, e la marchesa Albanoff mormorò a mezza voce: «Ecco l'Italia! io non spero che quel paese possa redimersi infino a che mostrerà tanta indifferenza verso i suoi grandi.» Rimasi confuso, annichilito: balbettai qualche parola di scusa, e il signor Anstracoff, vedendo il mio turbamento, mi si accostò, mi battè leggermente sulla spalla, dicendomi all'orecchio: «Temo che un tal peccato d'ignoranza vi abbia a chiudere d'ora innanzi le sale della marchesa.»



– Povero giovane! mi spiace che il mio nome vi sia stato occasione di dispiaceri…



– Non importa: pochi giorni dopo esso mi procurò molti vantaggi. Io mi recai a Londra: il mio compagno di viaggio aveva una lettera commendatizia per lord Russel.



– Lord Russel! lord Russel si sarebbe degnato parlare di me? Oh!.. davvero io non credo d'essermi meritato un tanto onore… e quantunque, come dice il signor Nebbia, gli occhi dell'Inghilterra sieno rivolti con benevolenza all'Italia… non so comprendere come il celebre ministro siasi occupato del povero presidente del circolo di Gorgonzola…



– L'Inghilterra ha in Italia molti emissari, incaricati di studiare i progressi del paese, di conoscere il voto delle popolazioni. Lord Russel, parlandomi di voi, che stavolta finsi di conoscere, mi diceva in presenza di lord Palmerston: «Quel signor Lanfranconi la sa più lunga di tutti; l'Italia ha trovato il suo Pitt.»



– Pitt!.. Che diavolo di nome? però.. bel nome… Un nome spiccio…! E dite un po': lord Palmerston non ha presa la parola…? non ha detto anch'egli qualche cosa a proposito del signor… Pitt…?



– A proposito di Pitt, lord Palmerston ha esclamato: «Voglia il cielo che il signor Lanfranconi sia il Pitt e non il Robespierre dello sventurato paese!»



– No… no! caro collega Palmerston… io non sarò il Robespierre dell'Italia: se mai venisse giorno in cui gli avvenimenti, come dice il signor Trigambi, esigessero una ghigliottina… io darei la mia formale dimissione. —



In proferire queste parole, il signor Lanfranconi si asciuga due grosse lacrime che gli gocciolano sulle guance. L'ingenuo trasporto del dabben uomo mi toglie il coraggio di continuare la finzione. Vorrei stringergli la mano, vorrei senza indugio aprirgli candidamente il mio cuore, dirgli le vere ragioni perchè io sono venuto in casa sua; ma forse di tal modo guasterei il mio piano di battaglia. Per buona sorte un terzo personaggio entra nelle sala… una giovanetta di circa diciott'anni, bella e mestissima nel volto: Ifigenia.

 



«Oh! la gentile creatura! – penso io, – dessa è ben tale da destare l'entusiasmo dell'amore in un cuore di ventisei anni, bollente, poetico qual è il cuore dell'amico mio.»



Ella si arresta… non osa aprir labbro. Si direbbe ch'ella tremi della severità paterna: forse l'aspetto d'uno sconosciuto la rende più esitante.



– Che vuoi tu, figliuola mia? – chiede il signor Lanfranconi con piglio alquanto brusco.



– Io veniva per ricordarti… che i convitati… ti aspettano in giardino… e si maravigliano della tua assenza.



– Oh! sì!.. vero!.. – esclama il signor Lanfranconi, levandosi in piedi. – Vedete s'io sono smemorato…! La politica mi faceva dimenticare la cena! Figliuola mia, ti prego di dar di braccio al signore, di condurlo in giardino e di presentarlo ai nostri amici, mentre io corro a vedere se quella lumaca di Stefania ha preparate le camere… Il signore è amico di Palmerston, di lord Russel, di Gorciacoff… e d'altri pesci grossi… di tal fatta. Basta!.. fra poco verrò io. Voglio un po' vedere lo stupore di mia sorella quando udrà che lord Palmerston… e quegli altri signori parlano di me in Inghilterra ed in Russia… come si trattasse d'un loro fratello.



Ifigenia manda dal petto un sospiro, e mi volge una occhiata di rimprovero, quasi intendesse dirmi: «Anche voi abusate della credulità d'un vecchio dabbene, del povero padre mio!»



Ma appena il signor Lanfranconi è uscito, io prendo con dolce violenza il braccio della fanciulla e le mormoro all'orecchio: – Eccellente fanciulla: io sono venuto qui per darvi una buona notizia. Eugenio è giunto stassera a Gorgonzola, e scommetto che in questo momento egli è ancor là abbasso inchiodato sotto il balcone… nella speranza di vedere la sua Ifigenia. —



Gli occhi della fanciulla sono rasserenati. Il suo braccio trema nel mio… Ella si affretta ad accompagnarmi in giardino, e nello scendere le scale mi fa cento domande sul conto del suo innamorato. Io le dipingo co' più vivi colori la passione di Eugenio e il suo dolore nel vedersi tolta la donna che era per lui oggetto di adorazione; le dichiaro che non per altro scopo io mi sono introdotto in casa del padre di lei, se non per favorire i disegni di Eugenio, per ricongiungerlo alla sua innamorata. Ad ogni mia parola Ifigenia cerca rianimarsi: in breve io riesco ad ispirarle tanta confidenza, quanta dapprima le avea ispirato avversione.



Eccoci in giardino; sotto il pergolato è disposta una mensa obblunga, in capo alla quale è un posto vacante.



– Vedete! – mi dice Ifigenia sotto voce, – mio padre vorrebbe ch'io sposassi uno di que' lumaconi là in fondo, che seggono ai lati del posto riservato a mio padre.



– Voi sposerete Eugenio, a dispetto di tutti i lumaconi politici e scientifici d'Europa! —



Prima che noi ci avanziamo verso la mensa, il signor Lanfranconi ci raggiunge. Egli sembra molto soddisfatto di potermi presentare a' suoi commensali. Mi prende per mano, mi conduce sotto il pergolato, e con voce solenne: – signori, – dice, – ho l'onore di presentarvi il signor Palmerston… cioè… voleva dire… l'amico di lord Palmerston… di lord Russel… di Gorciacoff… di Adrianoff… della marchesa… Andreoff… il quale si è degnato di recarmi alcuni importanti messaggi di que' bravi signori di laggiù… Signor Nebbia… signor Trigambi… e voi tutti, onorevoli fratelli e correligionari politici, perdonate se stassera io cedo il mio posto d'onore al nuovo ospite, all'amico di lord Palmerston, del conte Valeschi, del ministro Gorciacoff… —



Io mi assido senz'altra cerimonia al posto che mi viene indicato. Il signor Nebbia e il signor Trigambi impallidiscono, e si scambiano una occhiata obliqua e dispettosa. Il Lanfranconi va a sedere all'altro capo della tavola, intercettando colla protuberanza del suo addome una comunicazione di gesti e di parole piuttosto interessanti fra sua sorella nubile ed uno zuavo. Frattanto Ifigenia si è allontanata sotto pretesto di volersi recare a contemplare la luna. Ch'ella invece sia corsa al balcone per iscambiare con Eugenio qualche segno telegrafico? Davvero ne sarei contentissimo: l'amico vedrà ch'io ho ben impiegato il mio tempo.



Le bottiglie si sturano: i commensali paiono tutti d'ottimo umore, ad