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– Sono ben lieto di potervela accordare, – disse il magistrato inchinandosi alla sua volta. Il Governo provvisorio ha segnata l'amnistia per tutti i delitti di ribellione alla forza pubblica avvenuti il giorno 29. Signor Teodoro Dolci, voi potete, quando vi piaccia, uscire da questo luogo. – Il nipote di don Dionigi si avanzò verso il presidente per baciargli la mano. Fortunatamente la Rancati non si accorse di quell'atto, e prendendo con disinvoltura il braccio dell'eroe, lo trasse fuori della camera senza lasciargli tempo di proferire una sillaba.

Quella sera Teodoro scrisse una lettera a don Dionigi, pregandolo di recarsi a Milano per assistere alle nozze. Verso mezzanotte, mentre il giovane stava per coricarsi, una folla di popolo preceduta dalla banda musicale venne a felicitarlo, obbligandolo più volte a presentarsi al balcone fra le grida ripetute di – Viva l'eroe di piazza Fontana! Viva il morto di Robbiatello! Viva i repubblicani! Abbasso il Governo provvisorio!

Le stesse ovazioni, le stesse grida furono ripetute sotto le finestre della Rancati, la quale profittò della occasione per arringare il popolo, eccitandolo a scuotere il giogo dei nuovi tiranni, i tiranni del palazzo Marino.

CAPITOLO XI
Pane pei gonzi

Le campane suonano a festa. Le contrade di Capizzone son pavesate di coperte e di lenzuoli; all'ingresso del villaggio, sotto un arco trionfale ornato di mirti, di edera e di fiori di papavero leggiadramente intrecciati, la banda musicale di Almenno strepita una marcia accanita. Il sindaco, il sagrestano, il beccamorto, spalleggiati dalla guardia cittadina, attendono l'arrivo di Teodoro Dolci, il quale in compagnia della sposa verrà a visitare la terra de' suoi padri! Il nipote di don Dionigi ha colto il frutto della sua celebrità, sposando quattrocento mila franchi, e una vedova grossa e nasuta come un elefante. Ortensia Rancati ha compiuto il capriccio della rivoluzione.

Presto! arme al braccio, signori militi della guardia nazionale! Presto! piva in becco e fiato alle trombe, signori musicanti di Almenno! Il corteggio nuziale si avanza. La vettura del Brunetto coronata di pampini e foglie di zucche procede maestosa verso l'arco trionfale.

Sul sagrato già tuonano i mortaletti… Due colpi di gran cassa preludiano all'inno guerriero; i suonatori ruggiscono dalle trombe; il popolo prorompe in urli di viva.

La vettura si avanza. Don Dionigi seduto in serpa, colle ali immense del cappello triangolare contende agli sguardi impazienti la vista degli sposi. – Abbasso il cappello! – gridano alcune voci. La guardia nazionale contiene a stento le ondate della folla… Il Brunetto, per avanzarsi presso l'arco trionfale, modera il pubblico entusiasmo, menando giù frustate a destra e a sinistra sul muso dei plaudenti.

– Silenzio! fine alla musica! – grida il sindaco, levando anch'egli il bastone sulle teste dei suonatori. – Ora tocca a noi… Or si deve leggere il discorso.

– Bravo! bene! il discorso!.. – rispondono cento voci. Ma prima che l'oratore riesca a dominare quel baccano, gli conviene attendere una buona mezz'ora.

Frattanto il convoglio si arresta presso l'arco trionfale; e i contadini l'uno all'altro addossati fanno mille commenti intorno agli sposi.

– Qual è l'uomo, e quale la donna?

– L'uomo dev'essere il più grasso; non vedi che egli ha un paio di mustacchi da far invidia a un dragone?

– Teodoro non era tanto grasso quando partì dal paese.

– Io l'ho veduto ch'egli era lungo e giallo come una carota…

– La vita del campo sviluppa le forze, e fa bene alla salute.

– Qual è dunque la sposa?

– Non vedi? ella sta seduta a sinistra ravvolta nello scialle

– Come? una donna col cappello a cilindro?

– A Milano ho veduto delle donne in calzoni, e perfino in abito da militare.

– Ma io ti dico che quello dello scialle è il signor Teodoro.

– E ti pare che l'altro col naso di peperone e quella barba da capretto possa esser la sposa?.. Vedi… il sindaco si avvicina a lui per leggergli il discorso.

– Zitto una volta! sentiamo il discorso del sindaco… poi decideremo chi abbia torto o ragione.

«Illustre campione della patria! – comincia il sindaco, volgendosi alla signora Ortensia, la quale in abito da amazzone, con cappello a piume tricolori e due pistole alla cintola, copre col naso e colla persona lo sposo mingherlino.

«Illustre campione della patria! Al piedestallo della tua gloria tu vedi in oggi prostrati i tuoi concittadini, figli tutti di un paese, o dirò meglio borgo, che forse fra pochi anni potrà chiamarsi città…»

Don Dionigi, accorgendosi che il sindaco ha preso un equivoco, si crede in dovere di interromperne il discorso, e di invitarlo a passare dall'altra parte della carrozza ove siede Teodoro.

– Chi!.. come! che! – esclama l'oratore dando indietro due passi; – non è dunque al signor Teodoro Dolci che io ebbi l'onore di indirizzare l'esordio del mio discorso?..

– Sì, buon uomo! – risponde l'amazzone dal cocchio; – parlando a me, voi parlate a Teodoro Dolci, a colui che può dirsi la realizzazione del mio ideale, quindi parte integrante di me. Io sono per così dire il complemento di Teodoro… Egli ed io formiamo una sola persona, della quale in avvenire io sarò il capo ed egli il braccio. Possa il connubio di due anime ugualmente infervorate di entusiasmo esser fecondo alla patria di gloriosi avvenimenti! —

«Qual è dunque il vero Teodoro? quale la sposa?» – chiede a sè stesso il sindaco di Capizzone, che mai non si è trovato in peggiore imbarazzo. Gli astanti dividono la perplessità e lo stupore del sindaco. Don Dionigi con occhiate e con gesti cerca di animare il nipote perchè si riveli a' suoi concittadini, e ponga termine ad una crisi che minaccia di compromettere la gravità della cerimonia.

Ma Ortensia Rancati non è donna da lasciarsi dominare dagli avvenimenti. Mentre Teodoro si leva per arringare la folla, la terribile amazzone, sviluppando tutta l'ampiezza del torace adiposo, e rotando la proboscide sul capo del timido marito, volge al sindaco ed ai circostanti il seguente discorso:

«Abitanti di Capizzone!

«Noi siamo vivamente commossi del nobile slancio, della fervida gara onde vi piacque onorarci in questo faustissimo giorno. Il vostro entusiasmo è proporzionato all'altezza dell'avvenimento; e noi attingiamo in esso nuovo coraggio a compiere la difficile missione che ci siamo imposti. Se molto abbiamo operato a vantaggio della causa comune, molto ancora ci rimane a fare. I nemici furono dispersi, non debellati… Mantova e Verona sono tuttora in potere dei Tedeschi. Noi promettiamo snidarli da quei covi e ricacciarli nelle nordiche selve. Quando la quistione dell'indipendenza sarà completamente risolta, allora con animo riposato e tranquillo attenderemo all'opera della riorganizzazione interna e delle riforme sociali. Promettiamo fin d'ora che il paese di Capizzone, questa nobile appendice delle Alpi, che diè vita ad una parte di noi, sarà oggetto di speciali sollecitudini per parte del governo. Perocchè non sempre al ministero ed al Parlamento sederanno uomini di corte vedute e di timida coscienza. A guerra finita, il popolo vorrà affidare a noi il timone della cosa pubblica, a noi, che col popolo abbiamo combattuto, a noi, che vogliamo il popolo libero e grande. L'accoglienza festosa che voi ci preparaste, o illustri figli di Capizzone, conferma le nostre speranze, la nostra fede nell'avvenire. Per ora sia nostra parola: Morte ai Tedeschi! Più tardi grideremo: Morte al ministero!.. E se Iddio e la nazione elevassero noi alle supreme cariche dello stato, allora grideremo più forte: L'Italia è fatta!»

Un tuono di acclamazione prorompe dalla folla. Il sindaco, atterrito da tanta eloquenza, in luogo di ripigliare la sua arringa, ordina ai musicanti di dar fiato agli stromenti. Fra il ringhiar delle trombe, lo strepito dei plausi e gli spari dei mortaletti, il convoglio trionfale fece il giro del villaggio.

Quando Teodoro ed Ortensia discesero dalla vettura ed entrarono nella casa di don Dionigi, fu nella piazza gran tumulto di contese. Ad eccezione di Dorotea e d'altri pochi, gli abitanti di Capizzone non aveano riconosciuto qual dei due coniugi fosse il marito e quale la moglie.

– Che volete ch'io mi sappia? – rispondeva il sindaco alle incalzanti domande dei suoi paesani. – Quel grasso che ha parlato… quello dai baffi grigi… ha detto di esser lo sposo… del signor Teodoro. Don Dionigi pretende invece che il vero sposo sia l'altro… quel mingherlino che stava seduto… Figliuoli, trattandosi di personaggi tanto alti, bisogna avere un po' di discrezione…! Domani sapremo tutto…! Frattanto se mi fosse lecito esternare una opinione, io direi che il grosso… quello dai mustacchi… mi va a genio più che l'altro… Basta! o l'uno o l'altro fra pochi mesi sarà ministro, l'ha detto il grosso – e se mai il signor ministro dimenticasse le promesse che ci ha fatte dalla vettura, lasciate fare al vostro sindaco. Andrò a Torino quando meno mi aspettano, dirò all'uno dei due quel che va detto. E se mai volessero fare il bell'umore… allora plunf! abbasso il ministero di Torino! Viva l'Italia unita!.. e Capizzone capitale! —

Tre giorni dopo giunse a Capizzone la notizia che i Tedeschi erano entrati in Milano.

CONCLUSIONE MORALE

La rivoluzione del 1848 fu feconda di eroi e di martiri generosi. Altri alle barricate di Milano, altri a Goito e Curtatone, altri allo Stelvio spesero santamente la vita per l'indipendenza d'Italia. Rientrati a Milano gli Austriaci, i superstiti valorosi seguirono l'armata di Carlo Alberto per agguerrirsi a nuovi cimenti, o spinti da impeto giovanile tentarono imprese più arrischiate che opportune. Quanti prodi caduti sul campo! Quanti generosi consunti dal dolore e dagli stenti sul cammino dell'esiglio! Ma le provincie italiane ad una ad una ricaddero nel servaggio, e vestirono il lutto per oltre dieci anni, l'occhio ed il cuore rivolti al Piemonte, unico asilo di libertà, unico faro di speranza.

 

Che avvenne del nostro eroe durante il tristo decennio? Teodoro Dolci, come abbiamo veduto, non era più padrone di sè medesimo.

Madonna Ortensia si impadronì del fantoccio rivoluzionario per spingerlo colla prepotenza della sua volontà nelle sfere più elevate della diplomazia; tentò valersi di un falso eroe per soddisfare alla propria ambizione. Ma i sogni di Ortensia non si realizzarono. Venti volte nel corso di dieci anni i coniugi Dolci mutarono programma politico per compiacere a questo o a quel partito, per conciliarsi le simpatie degli uomini più influenti sui destini d'Italia. Da una in altra città emigrando, oggi a Firenze, domani a Roma, più tardi a Parigi, di là a Torino, madonna Ortensia non trovò mai nè giustizia nè equità in nessun paese, presso nessun governo. All'eroe di piazza Fontana, all'agitatore del due gennaio, al morto di Robbiatello, al mazziniano di piazza San Fedele la patria sconoscente non volle accordare nè il grado di maresciallo, nè un portafoglio di ministro!

Dopo la battaglia di Magenta, i coniugi Dolci rientrarono nelle libere provincie di Lombardia. Madonna Ortensia si fece precedere da un proclama, ove con parole di colore scarlatto rammentava ai Lombardi in genere, ed ai Capizzonesi in ispecie, le gesta gloriose del marito e la nera ingratitudine del Governo piemontese. «Abitanti di Capizzone! (tali eran l'ultime parole del proclama), noi confidiamo nella vostra lealtà, nel vostro senno politico, nel caldo patriotismo che altre volte manifestaste a nostro riguardo… Noi non abbiamo dimenticate le nostre promesse; spetta a voi ricordare le vostre. Quanto prima si aduneranno i collegi elettorali… quanto prima sarete chiamati a scegliere colui che deve rappresentarvi al Parlamento, che deve tutelare i vostri interessi. Guardatevi dai raggiri di partigiani codardi… Non lasciatevi imporre dalle ignobili mene di chi vuol creare un Parlamento servile, ligio al dispotismo del ministero! Uomini generosi e indipendenti non mancano all'Italia… e voi li conoscete, o magnanimi figli di Capizzone! perchè nacquero tra voi… vissero tra voi… e resero già illustre il vostro paese. Chi vi parla di tal guisa, chi vi apre gli occhi sui pericoli e sulle insidie che vi circondano, è il martire del 1848, è l'eroe delle barricate che dopo dieci anni di crudo esiglio… ritorna in mezzo a voi senz'altra ambizione fuor quella di esservi utile e di rilevare dall'abiezione la patria vilipesa. Se il vostro voto mi chiama al Parlamento… io spero fra poco di poter realizzare i grandi disegni che già vi manifestai or fanno dieci anni, quando entrai solennemente in Capizzone.

«Teodoro Dolci.»

Credereste, lettori? Teodoro Dolci, malgrado l'irresistibile eloquenza del suo programma, non fu eletto deputato. Ortensia, attribuendo la mala riuscita di quest'ultimo attentato alle mene del partito ministeriale, si lanciò furiosamente nel campo dell'opposizione, combattendo tutti i ministri da Cavour a Ricasoli. Nel circolo degli Idrofobi, da lei recentemente istituito, ove convengono il martedì ed il sabato tutti gli indebitati a discutere di politica, la moglie di Teodoro Dolci predica contro i ministri, e giura che l'Italia non potrà mai esser libera completamente fino a quando le redini del governo non vengano affidate all'energico nipote di don Dionigi Quaglia.

Non ridete, o signori, delle strane pretese di madonna Ortensia. Quanti che oggi inveiscono contro la patria ingrata, e come cani rabbiosi mordono le calcagna agli uomini più benemeriti della nazione, furono, come il nostro Teodoro, eroi per caso e martiri della propria nullità!

FINE

Il Diplomatico di Gorgonzola

CAPITOLO I
Il ritorno del volontario

«È il 15 settembre del 1859… Eccomi di bel nuovo a Milano! quale cangiamento! qual vita novella! quale agitazione! Tutti i volti son lieti, le fisonomie animate… Nelle strade si cammina più speditamente; si ciarla a voce alta, si grida, si canta, è una vera baldoria. Le speranze dei Milanesi furono esaudite; il voto di tanti anni è compiuto: i Tedeschi hanno fatto un bel passo innanzi verso il loro paese nativo. Un altro passo ancora, e buona notte per sempre!

«Le piazze e i caffè riboccano di soldati, le sciabole battono ancora il selciato e le muraglie; ma sono soldati amici, e il tintinnio delle armi che pochi mesi sono metteva il brivido addosso, ora è per tutti una musica gradita. Gli zuavi danno amicamente di braccio ai nostri barabba; i dragoni francesi cavalcano di pari passo co' nostri gentiluomini; le benefiche sartorelle non isdegnano di volgere un sorriso di buon augurio ai seguaci di Marte: esse che cinque mesi or sono torcevano lo sguardo dalle uniformi mormorando; brutt mòster! E le dame?.. pazze per gli zuavi… pazze pei cacciatori di Vincennes, pazze pei corazzieri, pazze per le uniformi in genere! Oh davvero le dame si mostrano calde più che giammai… di amor patrio! Benedetto l'entusiasmo… della donna! non so se i mariti e i papà divideranno la mia opinione; se ciò non fosse, mi guarderei però dallo scagliare sovr'essi l'anatéma. Il signor Paolo d'Ivoy, corrispondente del Figaro parigino, scriveva che «a Milano le donne si mostrano riconoscentissime verso la Francia de' benefizj ricevuti, mentre gli uomini serbano un contegno fra l'indifferente e il sospettoso.» Questi uomini con cui il signor Paolo d'Ivoy ebbe a fare, probabilmente erano mariti.

«Inoltriamoci pel corso di porta Renza. Oh! veh l'amico Eugenio…»

– A prima giunta io non t'aveva riconosciuto!.. Ma bene! ma bravo!.. l'uniforme ti sta a meraviglia! A dir vero sei un po' dimagrato… ma pure la tua fisonomia è ringiovanita; la tua persona è più agile… più disinvolta. —

Eugenio mi abbraccia con trasporto, ma il suo contegno mi sembra alquanto imbarazzato; nelle sue parole non trovo l'entusiasmo del soldato, che, dopo aver combattuto pel suo paese, ritorna fra i suoi cari a dividere le gioie della libertà.

– Fui ferito a Solferino, – mi dice egli con un misto di orgoglio e di tristezza; solo da quattro giorni ho lasciato lo spedale…

– Ma, a quanto veggo, ora ti sei pienamente ristabilito… Tanto meglio! Sai tu che molti invidierebbero la tua sorte! Una ferita a Solferino, ecco un diploma onorevole che tu potrai mostrare con orgoglio per tutta la vita! —

Eugenio china il volto mestamente, e mormora a voce bassa: – Era meglio morire!

– Che razza di idee son queste? Morire!.. So anch'io che sul campo di battaglia la morte è gloriosa; ma una ferita, credilo a me, è del pari onorevole.

Io tento colla celia di diradare la tristezza dell'amico; ma questi, insensibile ad ogni parola di conforto, mi risponde a monosillabi.

Mi conviene cangiar tono. – Eugenio, – gli dico, dandogli di braccio e traendolo meco verso la via del Durino; – tu hai nell'anima qualche grave cordoglio; perchè non ti confidi al tuo vecchio amico? Chi sa! forse io ti potrei giovare o d'opera o di consiglio! —

Eugenio si ostina a tacere; io prego, insisto, minaccio d'andare in collera; infine, vinto dalle mie preghiere, egli si risolve a confidarmi le sue pene.

– Ho paura che tu rida… di me! tu ridi di tutto…

– Ma non di tutti, – gli rispondo. – Però vorrei che le tue sciagure fossero tali da farmi ridere…

– Sono innamorato!

– Ottimamente!

– Tu cominci a ridere…

– Perchè l'amore è un male a cui facilmente si rimedia. Ma presto, veniamo al fatto: Gli amori di un volontario! ecco un tema da romanzo che i generosi editori milanesi, stante il prestigio dell'attualità, mi pagherebbero due soldi per pagina!

– Tu devi sapere che nell'ottobre passato io mi recai a villeggiare in un paesello a poche miglia da Gorgonzola…

– Gorgonzola! mio caro amico, io prevedo che le tue saranno disgrazie da ridere. Ti par egli che in un paese chiamato Gorgonzola possano accadere degli avvenimenti serii? Tanto meglio: faremo un romanzo umoristico.

– Eppure a Gorgonzola io ho veduto un angelo di bellezza, a Gorgonzola io mi sono innamorato, a Gorgonzola mi sarei ammogliato, se, durante la guerra, alcuni genii perversi, profittando della mia lontananza, non avessero distrutto il bell'avvenire di felicità ch'io mi aveva sognato. —

Il povero Eugenio proferisce queste parole d'un tono sì lamentevole, la sua bella fisonomia siffattamente si decompone, che io non ho più il coraggio di sorridere; io mi metto ad ascoltarlo colla serietà d'un medico consulente.

– La località ove accaddero le mie sciagure, e la professione d'uno de' principali personaggi da cui queste derivano, non sono, a dir vero, le cose più poetiche del dramma. Il padre della mia fanciulla è un tal Egidio Lanfranconi, ricco proprietario dì cascine e commerciante in formaggi. Egli possiede in Gorgonzola una casa magnifica, e mena comoda vita in compagnia di una sua sorella nubile, mediocremente brutta, e d'una figlia… d'anni diciotto, la più bella, la più poetica, la più cara creatura che io mi abbia veduta.

– Tu fosti ammesso nella casa del signor Lanfranconi, hai chiusi gli occhi sulle bellezze della figlia di diciott'anni, e ti sei innamorato della sorella nubile. Davvero sarebbe una grande disgrazia!

– La disgrazia fu maggiore: ho amata la figlia…

– Ed hai destate le gelosie della sorella…'?

– Ma no. La figlia mi ha corrisposto coll'amore il più ardente, il più appassionato. Io la chiesi in isposa al signor Lanfranconi, ed egli, colla piena adesione di sua sorella, me l'accordò. Le nozze dovevano effettuarsi lo scorso carnovale. Mio padre, tutti i miei erano contentissimi d'una tale unione; perchè Ifigenia (tale è il nome della fanciulla), oltre alla bellezza ed alla onestà, possiede una dote di lire dugentomila. A quest'ultimo accessorio, te lo giuro, io non dava importanza veruna; l'avrei sposata anche povera affatto, tanto io l'amava. Passai il mese di novembre e dicembre a Milano. Io attendeva con impazienza il dì delle nozze, quando, in sul principio del carnovale, corsero i primi rumori di guerra. Le parole dette da Napoleone all'ambasciatore austriaco la prima sera dell'anno, eccitarono improvviso fermento nella gioventù milanese: in que' giorni non si parlava che di rivoluzione e di prossima guerra. Puoi immaginarti qual fosse il mio animo allora…! Pensare alle nozze nel momento in cui tutta la gioventù italiana era commossa dall'entusiasmo di patria, parevami ridicolo… Temetti che i miei conoscenti, i miei amici potessero burlarsi di me, del mio amore, della mia risoluzione inopportuna. Differire le nozze e attendere gli avvenimenti mi parve ottimo consiglio. Mi recai difatto presso il signor Lanfranconi, gli palesai i miei dubbi, ed egli approvò la mia condotta. Ifigenia parve dapprima alquanto malcontenta del dovere attendere, ma io, che primo le aveva parlato d'amore, fui anche primo a parlarle di patria… e vidi con infinita compiacenza com'ella assai bene mi comprendesse. Crederesti? quando verso la metà del febbraio la gioventù lombarda cominciò ad emigrare per correre tra le file dell'esercito piemontese, la brava figliuola mi animò ella stessa a seguire l'esempio dei generosi. Oh come un tal atto la rese più cara al mio cuore! come sublime è l'amore, quando ad esso è congiunto l'eroismo del sacrifizio! Quando io mi recai per dirle addio, ella non versò una lacrima. Mi donò una coccarda e una piccola treccia de' suoi capelli; mi pregò li portassi sempre sul petto. «Le nostre nozze, – diss'ella, – saranno più gioconde allorchè il paese sarà libero; ed io sarò doppiamente orgogliosa di passeggiare al tuo braccio, quando vestirai la divisa del soldato italiano.» Ciò ella diceva con entusiasmo incredibile in fanciulla di diciotto anni. Il padre, in udire quelle calde parole, si asciugò due grosse lacrime di tenerezza, e stringendomi la mano: «a rivederci presto! – mi disse, – spero tornerete colle spalline.» «Poco m'importa delle spalline, – soggiunse Ifigenia, – il semplice soldato non è da meno del capitano, quando entrambi combattono pel santo scopo di liberare la patria.» Partii coll'animo commosso; e all'indomani con altri miei compagni mi trovai al di là del Ticino a salutare ancora una volta il vessillo tricolore. La fortuna mi fu seconda; io fui ammesso nel corpo dei cavalleggeri, corpo che, come sai, prese parte alle principali battaglie. Ifigenia mi scriveva ogni due giorni, e le sue lettere erano piene di amore, di generose esortazioni. Puoi immaginarti con qual animo io corressi al combattimento; quanto entusiasmo nella prima vittoria; quanta gioia in vedere che il nemico perdeva ogni giorno terreno, incalzato dal valore dei nostri! Ai fatti di Montebello e di Palestro successe la battaglia di Magenta. Gli Austriaci non rinvennero altro scampo fuorchè abbandonare la Lombardia e concentrarsi nel quadrilatero… Milano era libera… noi marciavamo trionfanti di villaggio in villaggio… salutati, acclamati dalle popolazioni redente. Io sperava di metter piede in Milano; io pregustava la gioia di riabbracciare Ifigenia… di mostrarmi a lei colla onorata divisa, di narrarle i piccoli episodi delle mie imprese guerresche, di vederla arrossire, tremare di amore e d'entusiasmo. Sventuratamente le mie speranze andarono fallite: il mio reggimento prese altra direzione. Le scrissi da Brescia una lunga lettera: ella mi rispose col suo stile consueto; ma appena trascorse poche settimane, notai che le sue lettere giungevano meno frequenti, e bene spesso non contenevano che poche linee più gentili che affettuose. Non più l'abbondanza espansiva d'un'anima innamorata; non le frasi sconnesse ma eloquenti di chi scrive per impulso d'affetto. Dopo la battaglia di Solferino, quand'io mi giaceva all'ospedale ferito… quando, circondato dalla desolazione e dalla morte, più che giammai io sentiva il bisogno d'una persona amica, Ifigenia cessò di scrivermi! —

 

Eugenio interrompe la sua narrazione, si strappa il berretto, e stende il braccio verso il cielo, accompagnando il gesto d'una imprecazione.

L'ingenuo dolore dell'amico mi commove le fibbre. Povero Eugenio! Qual terribile disinganno per un giovane innamorato: tornare al proprio paese dopo sei mesi impiegati al servizio della patria, sei mesi di combattimenti, di pericoli, di dolori, e raccogliere per mercede l'indifferenza e l'abbandono. «Oh la donna! – grido io nell'eccesso della commozione: – essere volubile e capriccioso! creatura disleale ed ingrata!»

Ma l'amico tronca a mezzo le mie furibonde invettive. Io mi accorgo ch'egli è troppo innamorato per sopportare un oltraggio contro il sesso femminino.

– No!.. essa non è colpevole, la povera figliuola. Ella è vittima d'un padre imbecille che si lasciò abbindolare dalle cabale di due furfanti.

– Ella ti ama tuttavia? Perchè dunque ti disperi? perchè imprechi al destino? Un padre imbecille, raggirato da due furfanti, è il solo ostacolo che si oppone alla tua felicità? Amico, quando la donna sta con noi e per noi, la è causa guadagnata.

– Ascolta il seguito della istoria. Puoi immaginare se, appena uscito dallo spedale, io corsi tosto a Gorgonzola per rivedere Ifigenia, per rimproverarle la sua ingratitudine, per chiederle ragione della troncata corrispondenza. Entrai, verso le nove del mattino, in casa del signor Lanfranconi… Io tremava, sudava… il mio cuore pareva sul punto di scoppiare. Precipito nell'anticamera; nessuno. Sono dunque tutti morti? mi faccio a gridare con voce tonante: Chi è di là? Giorgione! Anastasia! – Silenzio. Scorsi parecchi minuti, ecco apparire due figure da servitore: un uomo ed una donna, veri ceffi da galera. È in casa il signor Lanfranconi? domando io. I due domestici mi guardano dall'alto in basso. – Io domando parlare al signor Lanfranconi, ripeto. Allora la donna: «il signor presidente è occupato a redigere il discorso per l'inaugurazione della società democratica-italo-latina, e non credo vorrà incomodarsi per parlare ad un soldato.» «Presidente! rifletto io… Che il signor Lanfranconi abbia mutato di casa…! Infatti questi non sono i suoi vecchi domestici: sul tavolo dell'anticamera veggo un cumulo di giornali e di opuscoli politici… Un fabbricatore di stracchini non può essere il fondatore, di un circolo politico!» Mentre io mi abbandono a siffatte considerazioni, la porta della sala si apre, ed ecco apparire un uomo abbigliato di nero, in cravatta bianca e guanti bianchi. All'occhiello del suo soprabito fiorisce una immensa coccarda tricolore. Sotto il braccio egli stringe un fascio di carte; tiene in pugno quattro o cinque giornali. A prima giunta io credo esser dinanzi ad un ministro di stato o ad un consigliere in caricatura. I due domestici si inchinano profondamente. Io esito alquanto… lo guardo… lo esamino attentamente. È ben desso! Il fabbricatore di stracchini! In vedermi, il signor Lanfranconi sembrò alquanto imbarazzato, ma ricomponendosi tosto ad una serietà dottorale che lo rendeva grottesco, «signor Eugenio, – mi disse, – godo vedervi in buono stato di salute. Pare che il mestiere del soldato vi convenga! Bravo giovinotto! In che posso servirvi?» «In che potete servirmi? – risposi tosto dando libero sfogo alla indignazione, – in che potete servirmi? Che razza di linguaggio è codesto? Io sono venuto per rivedere Ifigenia, per rammentare a lei ed a voi una sacra promessa, per raccogliere la sola mercede a cui credevo aver diritto, dopo i tanti dolori sofferti, dopo tanti sacrifizi.» «Mercede! – risponde il signor Lanfranconi, – mio bravo giovinotto, non ista bene parlar di mercede a chi ha combattuto per la causa comune. Voi prendeste le armi per redimere la patria; la patria è redenta, ecco la vostra mercede.» «Ma Ifigenia! ma le promesse…?» «Figliuolo! I tempi (non è duopo ch'io vel dica) sono cangiati. Sei mesi di guerra, di lotte politiche, hanno rinnovata la faccia dell'Europa. Gli avvenimenti corrono e si succedono con tale rapidità che oggi non è possibile prevedere il dimani. Figliuolo, io vi consiglio di rinunziare ad Ifigenia. Mia figlia… non può più appartenervi. Ella è promessa ad un altro.» A tali parole la mia ira non ebbe più freno; proruppi in minaccie, in imprecazioni sì violente, che l'antico fabbricatore di stracchini ne rimase sgomentato. Ifigenia udì la mia voce; ella accorse nell'anticamera; appena mi vide, si fe' pallida in volto, tremò, tentò invano di proferir parola. «Ifigenia, – le dissi, mitigando il tono della voce, – è dunque vero quanto ho inteso dalla bocca di tuo padre? E tu consentiresti all'amore di un altro, mentre pochi mesi fa avevi giurato d'essermi sposa?» Io m'accorsi che una lotta tremenda si agitava nel cuore della fanciulla; nei suoi sguardi era dipinta l'angoscia. «Eugenio, – mi disse, – io non sono libera della mia volontà… io posso disporre del mio cuore, non della mia mano.» E la voce le si ruppe in un singhiozzo. A tal vista il signor Lanfranconi aggrottò le sopracciglia, e con un gesto da presidente intimò ad Ifigenia di allontanarsi. Quella scena più che afflitto mi aveva istupidito. Quand'io mi riscossi, m'accorsi che tutti erano usciti, e m'avean lasciato là come un cane, come un mendicante!

– E tu te ne sei andato! e in luogo di ricorrere alla strategia amorosa, con cui d'ordinario si vince ogni battaglia di tal genere, partisti da Gorgonzola declamando la tua passione agli astri della notte! Tu sei timido come un soldato! Tutti dell'ugual pasta, voi seguaci di Marte! Sul campo di battaglia arditi come leoni; in faccia ad una donna, o ad un imbecille borghese, mansueti e tremanti come agnelletti!

– Che vuoi? l'eccesso del dolore qualche volta istupidisce. Io uscii infatti dalla casa del signor Lanfranconi svolgendo nell'anima disperati progetti. E nondimeno io non sapevo risolvermi a lasciare quel paese, e mi aggiravo come un matto per le strade più solitarie, usciva fuori all'aperta campagna, poi mi riavvicinava all'abitazione della mia fidanzata, sperando vederla, o incontrarla, o ricevere da lei qualche messaggio segreto. Passeggiando incontrai l'antica cameriera di Ifigenia; ella mi salutò con affettuose parole, poi mi narrò d'essere stata licenziata dal signor Lanfranconi dopo vent'anni di servizio. «Oh! io vi giuro che quel povero uomo non ci ha colpa, – mi diceva la buona vecchia colle lagrime agli occhi, – non è lui che commette di tali ingiustizie… sono i due birbaccioni matricolati ch'ei si tiene d'attorno… due furbi che finiranno col rovinarlo. Figuratevi che gli hanno messo in capo un cumulo tale di sciocchezze, l'hanno sì bene abbindolato colle loro parolone, ch'egli non è più libero di mettere una busca al fuoco senza averli prima consultati. Se sapeste quanto ha pianto la povera padroncina! Ella non può vederli que' due ceffi da pianta-carote, ed il padre pretende ad ogni costo ch'ella scelga l'un d'essi per marito.» Queste ed altre notizie io raccolsi dalla buona vecchia. La certezza che Ifigenia non aveva cessato di pensare a me durante la mia assenza, mi riuscì di non leggiero conforto. Ma come rivederla? in qual modo scongiurare l'ostinazione del padre? Con qual animo presentarmi di bel nuovo nella casa dove era stato accolto in sì mala guisa, dove io aveva subito la più grande delle umiliazioni? Eccoti il pensiero che mi tormenta da più giorni! Eccoti l'idea terribile che mi logora il cervello, il male a cui non trovo rimedio!