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CAPITOLO VIII
La risurrezione di un eroe

Nei fogli milanesi del 14 maggio, sotto la rubrica Notizie del campo, leggevasi il seguente bollettino:

«La colonna guidata dal capitano Negri, forte di duecento volontari, ebbe ieri uno scontro formidabile a poca distanza dal lago di Garda con un corpo di soldati austriaci. I nemici patirono gravi perdite; circa trecento Croati perirono sul campo, altri cinquecento rimasero prigionieri, lasciando in potere dei nostri armi e munizioni. Ma le vittorie costano sangue; e noi pure abbiamo perduto buon numero di valorosi, fra i quali (ci duole annunziarlo) il sergente Teodoro Dolci da Capizzone, l'eroe di piazza Fontana, il terribile rivoluzionario del 2 gennaio, che, al primo assalto dell'inimico, cadde colpito da una palla. Il nome di questo, tanto valoroso quanto modesto soldato della indipendenza, rimarrà scritto nelle eterne pagine della istoria italiana. Noi proponiamo che a spese della nazione si celebrino in Milano esequie solenni all'anima del prode, aspettando epoca più tranquilla per onorarne la memoria con pubblico monumento.»

Sebbene i bullettini del 1848 non si distinguessero per iscrupolosa esattezza nel riferire gli avvenimenti del campo, la battaglia data dal Negri era vera, vera la strage dei Croati, vera la vittoria, tutto vero… tranne la morte del Dolci. Il nipote di don Dionigi, trascinato suo malgrado alla battaglia, non s'era tampoco data la pena di apprendere la carica del fucile. Egli temeva delle proprie non meno che delle armi nemiche… Metter mano alla giberna per cavarne la cartuccia parevagli impresa arrischiata e piena di pericolo… Che fare? i nemici si avanzano, lo scontro è inevitabile, il capitano minaccia dietro le spalle i codardi che osassero ritirarsi. Teodoro a mala pena si tien ritto in sulle gambe. I compagni appostano il fucile alla spalla per fare la prima scarica. – Fuoco! – grida il capitano, – e al tuono dell'armi… l'allievo di don Dionigi cade al suolo tramortito dalla paura, prima che il nemico abbia risposto alla fucilata.

Una lotta sanguinosa, micidiale si impegnò da quel momento presso il corpo del caduto. I volontari animati dall'intrepido condottiero fanno strage di Croati per vendicare l'amico; il combattimento si protrae fino a notte avanzata.

Poichè i nemici furono sbandati, il capitano Negri ed i suoi, con torce e fanali percorsero il campo in traccia del sergente caduto. Ove sono le illustri spoglie del rivoluzionario di Capizzone? Qual mano nemica ha trafugata la salma preziosa del martire, cui la pietà, la venerazione dei superstiti fratelli vuol rendere con pompa gli onori supremi? Il terreno è coperto di vittime; da ogni parte s'ode il lamento, il singulto dei feriti. Il capitano Negri ha già raccolti sette cadaveri dei suoi prodi; uno solo manca… il cadavere di Teodoro Dolci… Dopo due ore di ricerche infruttuose, gli esploratori pietosi lasciarono il campo per aquartierarsi nel vicino villaggio. Ma allo spuntare dell'alba, alcuni contadini, passando per caso in quei dintorni, videro una forma umana sorgere da un fosso, e lentamente rizzarsi in piedi… allungarsi, distendere le braccia intonacate di fango… con passo mal fermo salire la collina e perdersi fra le piante. I superstiziosi villani torsero lo sguardo dall'orribile fantasima, e fuggirono via brontolando il De profundis.

Se la morte di Teodoro fu compianta da quanti lo conoscevano per fama, immaginate il profondo cordoglio di don Dionigi! La tristissima novella giunse a Capizzone verso gli ultimi di maggio. Nel leggere l'infausto bullettino, gli occhi inariditi del sacerdote versarono ancora una lagrima grossa come un nocciolo.

Dopo gli infausti avvenimenti del 2 gennaio, malgrado le premure del commissario di Almenno e di altri personaggi autorevoli, i quali di nuovo si erano interposti per ottenere la liberazione di Teodoro, don Dionigi non aveva più riveduto il nipote. La rivoluzione di Milano ravvivò per pochi giorni le speranze dell'ottimo prete. I giornali riferirono il combattimento di Santa Margherita, annunziarono la vittoria del popolo, il trionfo dei carcerati; ma Teodoro non comparve. L'ingrato nipote, in luogo di tornare a Capizzone, scrisse allo zio una lettera asciutta, dalla quale appariva com'egli fosse partito pel campo col grado di sergente!

Una serie sì continuata di sorprese, di terrori, di sciagure, aveva lentamente predisposta l'anima di don Dionigi al terribile colpo: nondimeno egli rimase profondamente ferito dalla morte di Teodoro. L'ingenuo religioso che, per tanti anni predicò dal pulpito il rispetto alle autorità legittime e l'obbedienza passiva, il vecchio amico dell'ordine, cui la paura era legge d'istinto e codice la rassegnazione, nel leggere il bullettino funebre, proruppe in accenti disperati:

«Oh! i nostri hanno ben ragione di ribellarsi… di prender le armi e di esterminare que' briganti senza fede e senza misericordia! Che aveva fatto di male quel povero figliuolo, perchè lo perseguitassero e lo chiudessero in prigione?.. Quei mostri hanno ucciso una creatura innocente… hanno tolto ad un misero vecchio l'ultimo conforto! Ed io… sciagurato! io ho potuto dubitare di Pio IX! ho prestato orecchio a quei vili susurroni, che mormoravano contro il capo supremo della Chiesa perchè s'era fatto a bandire la santa crociata! Il Signore mi ha severamente punito della mia poca fede! Andate, figliuoli! prendete uno schioppo, una sciabola, una ronca, un badile… Unitevi a Carlo Alberto… che Iddio lo benedica! e combattete contro i nemici della giustizia e della religione!»

Il giorno 28 maggio, nella chiesa di Capizzone si celebrarono le esequie solenni all'anima di Teodoro. Sulla porta della chiesa, addobbata di neri panneggiamenti, leggevasi una iscrizione redatta da don Dionigi, nella quale si riepilogavano le gesta del martire glorioso.

Dopo la cerimonia, il capitano della guardia nazionale passò in rassegna i quattordici militi del Comune che, armati di forche e rastrelli, eseguirono prodigiose manovre. In mancanza di schioppi e di artiglieria, il sindaco diede fuoco a dodici girasoli, che l'un dopo l'altro scoppiarono in sul sagrato fra gli hurrà bellicosi della popolazione.

Sono le nove della sera. Don Dionigi, oppresso dalle fatiche e dal grave cordoglio, si chiude nella propria abitazione per isfogare la piena degli affetti nell'animo della fedele Caterina… La modesta lucernetta effonde nella camera un pallido chiarore; dal focolare semispento sorge una nebbia leggera leggera, che si perde con insensibili gradazioni fra le tinte della bruna soffitta.

– È morto! – esclama don Dionigi, inginocchiandosi sul gradino del focolare…

– È proprio morto! – risponde Caterina.

– Morto sul campo di battaglia… senza i conforti della fede, senza l'assoluzione di un prete!..

– Che Iddio gli usi misericordia!

– Crede ella, don Dionigi, che il nostro Dorino avrà avuto tempo di far l'atto di contrizione?

– Purchè una palla di cannone non gli abbia portato via la testa d'un solo colpo, nel quale caso io dubito assai che un uomo possa pensare alla salute eterna.

– Don Dionigi!.. don Dionigi!..

– Caterina!..

– Mi era sembrato di sentir scricchiolare l'armadio!

– Via! non venirmi fuori colle tue solite paure, Caterina!..

– L'altra notte ho proprio veduta l'anima del signor Teodoro aggirarsi intorno al mio letto.

– Non dire sciocchezze… Caterina!.. pensiamo piuttosto a fare un po' di bene per quel povero figliuolo, nel caso che egli si trovasse ancora in purgatorio.

Don Dionigi e la Caterina, che al cominciar del dialogo stavano inginocchiati alle due estremità del focolare, a poco a poco si sono avvicinati, ed ora si trovano nel centro, l'uno stretto all'altro come fossero cuciti.

Ai dubbi, ai lamenti succedono le preghiere. I Requiem, i De profundis, i Miserere si alternano a voce spiegata dapprima, poi con monotono brontolío; da ultimo con accompagnamento obbligatorio di sbadigli. La fiamma della lucerna crepita nella agonia… Mentre il prete col rantolo in gola si appella a tutti i santi del calendario, Caterina ed il gatto rispondono russando l'Ora pro eo.

– Caterina!

– Don… Dionigi!

– Non hai udito…?

– Che… cosa?

– Qualcuno ha bussato alla porta…?

– Han bussato… a quest'ora?

– Spero d'essermi ingannato… De profundis clamavi ad… te Domine…

Don Dionigi e la Caterina mandano un grido. Tre colpi violenti hanno scossa di bel nuovo la porta. E il gatto impaurito balzò dal fornello rovesciando una pentola con orribile fracasso…

Il prete e la servente rimasero immobili parecchi minuti, guardandosi in faccia senza trarre un sospiro nonchè proferire parola. Cessata la paralisi del terrore, don Dionigi fece una smorfia col labbro accennando di sorridere e, levandosi in piedi, mosse tre passi verso la porta.

– Via, fammi lume, Caterina! Vieni qui… non temere di nulla… Senza dubbio gli è il figlio di Bortolo che viene a chiamarmi per suo padre malato… Non è la prima volta che si batte alla mia porta ad ora avanzata. Chi è?

– Son io, – risponde di fuori una voce fioca e lugubre simile al rantolo d'un moribondo. – Aprite, ch'io muojo di fame e di stanchezza. —

Don Dionigi e la Caterina si consultano di bel nuovo con una occhiata ripiena di terrore; poi svolta la chiave nella toppa, e levate le spranghe, il prete apre la porta… e tosto una larva d'uomo si precipita nella camera, e due braccia interminabili si appendono al collo di don Dionigi.

Un grido spaventevole salì in quel punto alle stelle.

Tutto il villaggio di Capizzone ne fu desto; i cani, i gatti, le oche, tutti gli animali bipedi e quadrupedi, piumati od implumi, risposero in cento favelle. Caterina, lasciando il padrone ad arrabattarsi nelle tenebre coll'anima uscita dal purgatorio, corse alla casa del sagrestano e le campane suonarono a stormo. I militi della guardia nazionale, in mutande e berretto da notte, uscirono in sulla piazza armati di verghe, e, dietro ordine del capitano, circondarono la casa di don Dionigi… Dàlli! bastona! ammazza! È un ladro! È un tedesco! È un morto! È una spia! È un diavolo uscito dall'inferno! Per eccesso di zelo i villici rotano le verghe nel buio, e l'un l'altro si pestano il dorso maledicendo al capitano, che non ha pensato ad accendere una torcia. Per circa un quarto d'ora nel villaggio di Capizzone regna la più deplorabile anarchia.

 

Quando piacque alla provvidenza, il sindaco del villaggio intervenne nella mischia con un lampione inchiodato ad una pertica. Le schiere si ricompongono; l'ordine si ristabilisce. Il sindaco e il capitano entrano nella casa assediata, e inciampano nelle gambe di don Dionigi, che giace come corpo morto sul pavimento.

CAPITOLO IX
La dimostrazione repubblicana

Teodoro Dolci era avvezzo alle sorprese della fortuna; nondimeno l'accoglienza ricevuta nel villaggio nativo era tale da lasciargli profonda impressione nello spirito non meno che sulle spalle. Nei pochi giorni passati al campo, Teodoro di qualche modo aveva compresi gli enigmi della rivoluzione; le idee dell'ingenuo montanaro si erano alquanto schiarite col succedersi dei nuovi avvenimenti. Ma la scena di Capizzone, il grido terribile dello zio, il suono delle campane a stormo, l'allarme della guardia nazionale, il tumulto, le bastonate ripiombarono il nipote di don Dionigi in un caos di dubbi e di terrori.

Come cervo inseguito, Teodoro camminò tutta notte per la campagna. Allo spuntare dell'alba, il poveretto sedette sopra un muricciuolo, e volgendo lo sguardo alle montagne native, proruppe in lagrime e singhiozzi.

Per comprendere tutto il dolore di quell'anima, è mestieri conoscerne tutti i segreti. Prima di recarsi alla casa dello zio, il povero Teodoro, giungendo a Capizzone, aveva ricevuto una terribile novella. La ferita, l'arresto, la lunga prigionia, i terrori della guerra non furono sì crudeli all'anima del giovine montanaro quanto l'ingratitudine e la perfidia di una donna! Una piaga insanabile, profonda, lasciano i primi disinganni nei giovani cuori! Mentre l'eroe di piazza Fontana gemeva nel carcere di Santa Margherita fra gli spasimi del freddo, della fame e dell'amore, lo credereste? Dorotea Melazza, la figliuola del sagrestano, obliando le gomitate affettuose e i teneri sbadigli del nipote di don Dionigi, aveva ceduto alle lusinghe di un nuovo adoratore! Dorotea Melazza da oltre due mesi era sposa a Giacomo Maneggia, personaggio autorevole, recentemente elevato alla carica di maestro comunale e beccamorto.

«Ma si può dare più nera perfidia! – esclamava Teodoro negli sfoghi dell'anima addolorata. – Sposare un Maneggia! sposare colui che usurpava il mio impiego!.. E con qual'aria mi ha guardato la spergiura, quando le passai dappresso per salutarla!.. Come se mai non ci fossimo veduti! Oh! mai più, mai più a Capizzone! No, Dorotea, no femmina atroce! tu non riderai alle spalle di un povero diavolo che ti amava di cuore. Ho già troppo sofferto nel rivederti. E dire che io l'ho trovata più grassa del doppio!.. Si vede proprio che la notizia delle mie disgrazie l'ha commossa! Avvenga ciò che vuole, io non tornerò più mai al mio paese. Andrò a Milano… Laggiù troverò degli amici, dei protettori… Tutti dicono che ho resi dei grandi servigi alla patria; tutti dicono che io sono un grand'uomo e, invero, comincio a crederlo anch'io… Il mio capitano e l'Obrizzi mi hanno assicurato che il tempo delle ingiustizie e delle soperchierie è passato, che ora le leggi stanno in mano del popolo, che in fin dei conti noi che abbiamo sofferto per la causa nazionale, noi che ci siamo battuti, abbiamo il diritto di gridar forte più degli altri e farci render ragione. Ebbene! dirò io a quelli che governano: se è vero che io più d'ogni altro ho contribuito a cacciare i Tedeschi da Milano, se è vero che io sono un martire della indipendenza e della libertà italiana; in nome di questa indipendenza e di questa libertà, io vi chieggo di sciogliere il matrimonio illegittimo di Dorotea Melazza e di Giacomo Maneggia. Altro premio io non domando, altro compenso dei tanti sacrificii che io resi alla patria!.. Oh vedremo se il governo sarà sordo alle mie parole!.. Vedremo se i voti di un cittadino, che è già morto tre volte per la causa italiana, non verranno esauditi!»

Animato dalla passione, il giovane montanaro levossi in piedi, e riprese il cammino. L'ingratitudine di Dorotea gli fece obliare lo strano accoglimento ricevuto dallo zio e perfino le bastonate. Il dio della vendetta spingeva Teodoro attraverso le campagne… Nell'impulso quadruplicato delle gambe e delle braccia interminabili, il nipote di don Dionigi sorvolava alle siepi ed ai promontori come ruota di mulino in balìa del vento.

I giornali di quell'epoca, che tanto onorarono l'eroe di Capizzone, non dicono s'egli compiesse il viaggio a piedi, o profittasse di qualche vettura a caso trovata. Fatto è che il giorno 29 maggio, verso le due del pomeriggio, Teodoro Dolci e Carlo Obrizzi comparvero in sulla piazza di San Fedele in Milano per prender parte ad una manifestazione popolare contro il governo provvisorio.

Troppo son note e troppo funeste all'Italia le sconsigliate discordie di quell'epoca, perchè io mi compiaccia di descriverne gli episodi.

Se i folli tentativi dell'Urbino e d'altri o fanatici, o ambiziosi agitatori, non furono principale cagione dei disastri avvenuti, contribuirono senza dubbio a screditare la nostra rivoluzione ed il paese nostro nell'opinione dell'Europa. Le dissensioni dei partiti giovarono ai nemici d'Italia, non solo per riconquistarla, ma anche per disonorarla, e vilipenderla dappoi.

Perchè quelle grida feroci? che vuole questo popolo minaccioso e fremente? Egli stesso lo ignora. Ha seguito una bandiera; si è lasciato trascinare da una voce eloquente; ha gridato, ha urlato per mille bocche una parola incompresa.

Teodoro Dolci e l'Obrizzi si cacciano nella folla urlando anch'essi.

– Venite qui, figliuoli! – grida l'Obrizzi conducendo Teodoro sui gradini della chiesa. – Sentite mo lui…! Il bravo dei bravi! il protomartire della rivoluzione! il campione dei volontarj… morto, cioè ferito… alla battaglia di Robbiatello…! Sentite di qual modo viene premiato il valore e l'eroismo del popolo che ha combattuto! A voi! signor Teodoro! parlate!.. Da bravo! Raccontate la bella accoglienza che quei signori vi hanno preparata a Capizzone!

– Sì… è vero – balbetta il nipote di don Dionigi; – il Governo… dovrebbe… mettere al dovere… certe persone… che io conosco benissimo… e non permettere certi abusi: so ben io… di chi intendo parlare…

– Di chi intende ella parlare, di grazia? – chiese una voce ruvida e maschia all'orecchio di Teodoro, il quale, volgendosi, si trovò circondato da sei ufficiali di pubblica sicurezza.

Teodoro levossi il cappello, e fece un inchino.

– Vergogna! – seguitò l'ufficiale dominando colla voce taurina lo schiamazzo della moltitudine. – Venir qui in sulla piazza a suscitare tumulti, mentre il nemico ci minaccia alle porte…! I Tedeschi ridono delle nostre discordie, e cercano fomentarle con arti scellerate. Pur troppo si aggirano fra noi individui corrotti dall'oro austriaco, i quali, fingendosi amici del popolo, cercano trascinarlo ad eccessi fatali. Guardati, o popolo, da questi falsi amici, da questi Giuda traditori! Che i buoni cittadini tornino alle loro case, e i prezzolati emissari dell'Austria si mordano le labbra per dispetto!

La verità è per sè stessa eloquente. Il popolo ravveduto risponde all'oratore con plauso concorde.

– Noi non siamo emissari dell'Austria, – risponde l'Obrizzi con calore. – Questo giovane (e additava Teodoro) ha dato sufficienti prove di patriotismo perchè nessuno osi sospettare di lui.

– Ebbene, – risponde l'uffiziale, – se il signore ha qualche ragione di malcontento, purchè reclami colla debita moderazione e con mezzi legali, il Governo gli renderà giustizia.

– Io… credeva, – balbetta Teodoro; – io credeva che in questi tempi di repubblica…

– Bravo! bene! eccoci qui adesso colla repubblica! – interrompe l'uffiziale a voce alta. – Abbiamo in casa i Tedeschi, e loro signori vanno attorno parlando di repubblica, e cospirando contro il magnanimo re che sul campo di battaglia espone la propria vita per renderci indipendenti!

– Viva Carlo Alberto! viva il re! viva la costituzione, morte ai repubblicani! – risponde il popolo con cento gole.

Teodoro vorrebbe scendere dai gradini e nascondersi tra la folla; l'Obrizzi, pallido di sdegno, digrigna i denti, e sta per slanciarsi contro il moderatore dell'ordine pubblico; quando all'improvviso alcuni soldati della guardia nazionale circondano i due ribelli, e li arrestano in nome della legge.

Vane le querimonie e le proteste. Condannati dall'anatema popolare, incalzati da grida minacciose, il Dolci e l'Obrizzi vengono condotti alle prigioni di Santa Margherita.

Il conte Bolza, il Garimberti, il Siccardi e gli altri cagnotti della austriaca polizia erano spariti; i vividi colori nazionali rallegravano gli ampi cortili e i portoni del temuto palazzo: nondimeno all'Obrizzi ed al Dolci, nel varcare le soglie, corse per le ossa un brivido di terrore.

Perchè piangi, perchè ti percuoti le tempia, o illustre cittadino di Capizzone?

Credi tu che la patria possa in un giorno obbliare i suoi grandi? Se la rivoluzione ti impose durissime prove, essa prepara al tuo coraggio, alla tua costanza un premio inaspettato. Tutti i giornali compiangono alla sventura dell'eroe di Capizzone; l'Italia protesta contro l'illegale cattura del migliore de' suoi figli. Molti cittadini, che volontarj accorsero al Mincio per combattere il Tedesco, giurano di deporre le armi, ove a te, martire glorioso, non sia resa giustizia. La rivoluzione del 1848, inesperta fanciulla, sacrificava i propri interessi al trionfo de' suoi adoratori più ciarlieri, rischiava la perdita di una nazione per compiacere al capriccio di un individuo.

CAPITOLO X
Una fortuna in prigione

Da due giorni Teodoro era chiuso nella prigione di Santa Margherita. Una sera, proprio nel punto in cui egli stava per coricarsi, il custode gli reca una lettera, e al tempo istesso gli annunzia la prossima visita del presidente del Comitato di sicurezza pubblica.

Giustizia di Dio! Se Dorotea Melazza fosse presente alla lettura di quello scritto, rimarrebbe pietrificata!

Teodoro non volle credere ai propri occhi!.. Teodoro sorride… piange… digrigna i denti… Quel foglio che esala profumi di rosa e di vaniglia, versa nell'anima del prigioniero la voluttà dell'amore e della vendetta! Dal tenore della lettera, immaginate quali strane sensazioni agitassero lo spirito del nostro eroe:

«Uomo ideale!

«Una donna, che, da oltre sette mesi, prende parte in segreto alle tue aspirazioni, a' tuoi dolori, a' tuoi trionfi; una donna che al pari di te ama la patria, e darebbe il suo sangue pel trionfo della causa nazionale, commossa di speranza e di terrore, osa dirigerti queste poche righe. Io non farò pompa di quelle frasi sentimentali che a te, uomo risoluto ed energico, potrebbero sembrare affettate, fors'anco ridicole. Io ti amo: ecco tutto. Io ti amo senza averti veduto mai; amo il tuo coraggio, la tua costanza, il tuo patriotismo, le tue avventure. Per me tu rappresenti l'indipendenza e la libertà dell'Italia; tu sei l'ideale degli eroi e dei martiri, il solo uomo che sia degno d'amore! Mi hanno detto che tu sei povero assai, povero come tutti i grandi che si immolarono alla causa della umanità. Ebbene, ho detto a me stessa: ciò che la patria non ha fatto a pro del suo campione valoroso, io lo posso e lo debbo fare. Io ti offro adunque le ricchezze che la fortuna mi ha prodigate; a me inutili, in tua mano diverranno istrumento dell'italiana indipendenza. Non oso offerirti la mia mano. Esser tua sposa sarebbe l'ideale della felicità.. ed io non spero che Iddio me la accordi… Nondimeno io saprei amarti, adorarti come una divinità! Io ti seguirei sul campo di battaglia; con te dividerei i pericoli, saprei morire al tuo fianco… No… io non sono donna da porre ostacolo all'impeto battagliero di un eroe. Se mai un giorno lo sconforto ti sorprendesse, la mia voce, i miei consigli ti spronerebbero a nuovi cimenti!.. Oimè!.. Dove mi traggono le mie illusioni fallaci? Teodoro, mio eroe, mio ideale, perdonami e compiangimi!

«Piazza Fontana N. 1229.
«Ortensia Rancati.»

Teodoro finiva di leggere per la terza volta lo scritto inebbriante, quando il presidente del Comitato di pubblica sicurezza entrò nella camera.

 

– Toglietemi da questa prigione! – gridò Teodoro gettandosi ai piedi dell'autorevole personaggio.

– Io venni appunto per liberarvi; a patto che cessiate una volta dall'adoperare la vostra influenza per suscitare disordini, e sopratutto vi guardiate dal parlare di repubblica.

– Vi giuro… che se riesco a vendicarmi…

– Vendicarvi! e di chi?

– Di quegli infami che mi hanno tradito! di Dorotea Melazza e di Giacomo Maneggia! —

Il presidente balzò indietro quattro passi, uscì dalla camera, e raccomandò al secondino di vigilare attentamente sul prigioniero.

«Quest'uomo è incorreggibile! – pensava il magistrato novizzo, scendendo dalle scale. – Che mai ha voluto intendere coi nomi di Dorotea Melazza e di Giacomo Maneggia? Ch'egli alludesse alla costituzione ed al Governo provvisorio!.. Bisogna che io chiarisca questo nuovo imbroglio! La patria è in pericolo!»

Mentre il presidente del Comitato di pubblica sicurezza faceva i gradini a quattro a quattro, agitato da mille terrori, una donna di circa trentacinque anni entrava nel palazzo di Santa Margherita accompagnata da quattro membri del governo provvisorio: questa donna era Ortensia Rancati.

Portava un cappello alla calabrese ombreggiato da tre piume interminabili coi colori italiani. Vestiva un corsetto di velluto raccomandato ai fianchi da un cinto di pelle, dalla quale usciva il manico di un pugnale ornato di brillanti. La gonna di broccato rosso a grandi fiorami gialli scendeva fino alla caviglia, lasciando apparire uno stivaletto ungherese con due enormi speroni. Lo strano e capriccioso abbigliamento dava alle maschie abbrunite sembianze, alla colossale persona, l'aria virile delle antiche amazzoni. Ortensia Rancati era la personificazione di quel fanatismo, che pur troppo andò a sprecarsi in superfluità buffonesche o ridicole farse, e abbagliando il popolo colle fantasmagorie, lo fece immemore de' propri doveri, lo trascinò nell'abisso per un cammino di fiori. Ortensia Rancati aveva implorata ed ottenuta la liberazione dell'illustre prigioniero; ed ora veniva ella stessa per ridonargli la libertà, e per compiere una scena tragico-sentimentale, la cui conclusione doveva essere un matrimonio.

Il presidente del Comitato di pubblica sicurezza, scambiate poche parole cogli onorevoli membri del Governo provvisorio, accompagnò egli stesso l'amazzone fino alla prigione di Teodoro. Ordinò al secondino di aprire la porta, e già stava per entrare, quando Ortensia, con un gesto solenne, gli impose di arrestarsi… – Signore, – disse la donna levando il frustino e atteggiandosi come una pitonessa, – io sola debbo metter piede in quella stanza. Fra me e quell'uomo non può esservi altro testimonio che Iddio!

Ortensia entrò nella camera mentre Teodoro stava rileggendo la lettera misteriosa. Ella arrestossi presso la soglia, portò la mano allo stiletto, lo trasse dal fodero, e proruppe con voce maschia: – Sorgi, figliuolo della rivoluzione! vieni! io ti reco ciò che tu desideri, ciò che gli infami ti hanno tolto: un pugnale… e la vendetta! —

Teodoro Dolci levò gli occhi… Il volto fiammeggiante della amazzone, lo strano abbigliamento, la voce rauca, le parole terribili, il pugnale sguainato, tutto gli fece credere che quel singolare personaggio fosse l'esecutore della giustizia incaricato di trucidarlo…!

– Pietà di uno sventurato! – gridò il nipote di don Dionigi coll'accento della disperazione, gettandosi ai piedi della donna e abbracciandone le gonnelle con tremito convulso.

Ortensia Rancati, in quel grido, in quell'impetuoso movimento, in quel tremito credette riconoscere un trasporto di passione. Teodoro Dolci, l'eroe del due gennaio, il martire di Robbiatello, avrebbe compreso la sublime devozione della donna che gli offre il proprio cuore e una rendita di venti mila franchi all'anno? Questo slancio eloquente di riconoscenza ed affetto non è forse la miglior risposta alla lettera di Ortensia?..

Trascorsero dieci minuti di sublime silenzio. Teodoro, più morto che vivo, la testa sprofondata nei ricchi drappi, recitava sotto voce l'atto di contrizione, invocando in suo soccorso tutti i santi del paradiso.

Ortensia, ritta, immobile, collo sguardo converso alla soffitta, d'una mano rimetteva il pugnale nella guaina, mentre coll'altra carezzava lievemente i capelli del genuflesso. Non mai la paura e l'amore si trovarono più strettamente abbracciati.

Ortensia fu la prima a rompere il silenzio.

– Sorgi, o figliuolo della rivoluzione! il tuo posto dovrebb'essere sugli altari, e a me spetterebbe il prostrarmi in adorazione a te dinanzi.

– Per pietà! non mi fate soffrire, – ripeteva Teodoro con voce soffocata. – Non prolungatemi l'agonia… Uccidetemi d'un solo colpo…

– Povero giovane! Quanta sensibilità! quanta tenerezza! Oh! io doveva aspettarmelo…! Tutti così, questi eroi! Sul campo di battaglia feroci come leoni; innanzi ad una donna titubanti e paurosi come scolaretti. Via! perchè tremi, o giovanotto? Solleva la testa, guardami in volto… Io non appartengo alla sfera di quelle donne volgari, il cui amore corrompe ed infiacchisce. L'amore che io ti porto raddoppierà le tue forze, la tua energia. Io soffierò potentemente sul braciere della tua anima ardente. Nell'ora del cimento io affilerò la tua spada; nell'ora del pericolo ti sarò a lato, per combattere e per morire. Sarò il tuo angelo e il tuo demonio: angelo sterminatore dei tiranni; demonio della rivoluzione. Vieni! Da ora in poi noi non formiamo che una sola persona. Uno solo è il cammino che ci si apre dinanzi… Questo cammino probabilmente deve condurci al patibolo… Ebbene! Dal palco di morte, sotto la mannaia del carnefice, noi canteremo osanna alla libertà, noi rideremo in faccia ai nostri carnefici. Il nostro ultimo accento sarà un cantico di gioia. —

Quando la donna ebbe finito, chinossi per sollevare da terra il nipote di don Dionigi; ma questi soggiacendo alla violenza della paura, dopo la crisi delle convulsioni, avea perduto i sensi e giaceva sul terreno come corpo morto.

I cronisti dell'epoca altro non riferiscono di quella scena interessante. Come Ortensia rianimasse la salma abbattuta, quali mezzi ella adoperasse a dissipare i terrori e i sospetti del giovane, tutto ciò è un segreto che la storia ha creduto bene di rispettare, e che noi pure rispetteremo.

Mille volte avventurati coloro che nelle crisi tempestose della vita hanno pronti gli svenimenti! Lo svenimento, benefico talvolta al pari del sonno, è una tregua, una calma riparatrice, da cui lo spirito attinge nuove forze. Il nipote di don Dionigi, che poco dianzi ha chiusi gli occhi al bagliore di un pugnale minaccioso, nel riaprirli è colpito da uno spettacolo curioso e giocondo: due spalle candide come l'alabastro, un seno ricolmo e tornito, che gli rammenta i tesori della perfida Dorotea, altre volte vagheggiati furtivamente. Nelle sembianze della donna che lo abbraccia e lo colma di baci incessanti, il nipote di don Dionigi trova una reminiscenza dolorosa… Il naso adunco, le folte sopracciglia e i baffi di Ortensia Rancati gli ricordano una visione tremenda, un sogno spaventoso: il boja, la mannaia, il pugnale… Ma lo spirito riposato a poco a poco riconosce il proprio inganno, e si ravvede. I baci, le carezze di una donna esercitano sulle fibre del giovanetto una influenza magnetica e salutare… Signori: non chiedete di più al romanziere; a quest'ora egli ha già oltrepassato i limiti della riservatezza.

Quando il presidente del Comitato di pubblica sicurezza ripose il piede nella stanza del prigioniero, Ortensia Rancati prese per mano il nipote di don Dionigi, e facendo un inchino all'onorevole magistrato: – Signore, – gli disse, – ho l'onore di presentarvi il mio fidanzato.. il mio sposo. In nome di quell'amore, di quel nodo indissolubile che già ci unisce innanzi a Dio, io vi chiedo la libertà di questo eroe, di questo martire della patria.