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Il Quadriregio

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CAPITOLO VI

Dichiarasi come l'invidia si oppone alla virtú.

 
        Mentr'io admirando stava stupefatto,
        vidi quegli uomin guasti rifar sani
        e nelli membri interi ed in ogni atto.
 
 
        E poi vidi venir ben mille cani,
    5 latrando contra loro inseme in frotta,
        mordaci e grandi piú che cani alani.
 
 
        Come in la mandra fa la lupa ghiotta,
        che morde e guasta ed anco uccide e strozza;
        cosí facean quei can di quegli allotta.
 
 
   10 Quale rimane ai lupi alcuna rozza,
        cosí li vidi rosi, e sí rimasi
        e cogli occhi cavati e lingua mozza,
 
 
        e senza mani e piedi e senza nasi,
        e sviscerati e le budella sparte,
   15 e col cor dentro roso e petti spasi.
 
 
        Io vidi un, ch'era guasto in ogni parte;
        al qual io dissi: – Prego che mi dichi
        chi fusti, e vogli a me appalesarte.
 
 
        – Io fui al tempo de' romani antichi
   20 – rispose quello, – che Roma a ragione
        visse in virtú e cogli atti pudichi.
 
 
        Fui con molt'altri contra Scipione:
        ah, invidia, nemica di virtude!
        ah, invidia, ch'a bontá sempre t'oppone!
 
 
   25 Non valse a lui mostrar le membra nude
        pien di ferite in ragion delle spese,
        che richiesono a lui le lingue crude.
 
 
        Non valse a lui mostrar che ne difese;
        e che, s'egli non fosse, dir non valse,
   30 sarian le roman case state incese;
 
 
        ché, quando per virtú in gloria salse,
        allor l'Invidia, per tirarlo a basso,
        contro lui mosse mille lingue false.
 
 
        Ond'egli fuor di Roma mosse il passo,
   35 dicendo: – O madre ingrata al figliol pio,
        o patria invidiosa, ora ti lasso:
 
 
        tu non possederai il corpo mio.
        Ed io, che parlo, fu' il primo tra quelli,
        ché invidia contro lui mi fe' sí rio.
 
 
   40 Però son posto qui alli fragelli,
        che tu hai visti, e invidia ne tormenta
        in quello che ne fe' malvagi e felli.
 
 
        Iustizia fa ch'ognun di noi diventa
        san nelli membri, e cosí fa rifarne
   45 almen nel mese delle volte trenta.
 
 
        E, come noi mangiammo l'altrui carne
        sí come cani, e cosí per vendetta
        da invidiosi can fa divorarne. —
 
 
        E giá la dea insú n'andava in fretta,
   50 ond'io partimmi e non gli fei risposta;
        e, mentr'io andava per la strada incerta,
 
 
        trova' una fossa occulta in la via posta,
        e senza voglia mia il piè vi posi,
        e caddi in terra alla sinistra costa.
 
 
   55 Subito mille cani, ivi nascosi,
        vennon contro di me con grandi gridi
        e colli denti di cani rabbiosi.
 
 
        Ahi, quanto io ammirai, quando li vidi!
        Ed anco ebbi timor di lor concorso,
   60 quando disseno: – Preso è; uccidi, uccidi! —
 
 
        Sí come il can quando è percosso e morso,
        ch'ogni altro can gli abbaia e fagli guerra,
        quando grida per doglia o per soccorso,
 
 
        cosí la Invidia fa, quand'altri è 'n terra;
   65 e quando vede alcun condutto al laccio,
        manifesta il venen che dentro serra.
 
 
        Io m'ingegnai di terra levar 'vaccio.
        Mirabil cosa! Quand'io fui levato,
        ognun fuggío e nessun mi die' impaccio.
 
 
   70 E giá, salendo, io era tanto andato,
        che giunsi all'altra spiaggia inver' ponente,
        ove Avarizia tiene el principato.
 
 
        Ivi trovai fuggire una gran gente,
        con sí gran furia, che l'un dava inciampo
   75 nell'altro per fuggir velocemente.
 
 
        Sí come quando in rotta è messo un campo,
        che par ch'ognun disperso si dilegue
        tra spini e fiumi e monti in loro scampo,
 
 
        e con la spada il vincitor li segue,
   80 forte correndo, e spesso avvien ch'un solo
        mille giá messi in fuga ne persegue;
 
 
        cosí fuggendo andava quello stuolo,
        tra 'l qual conobbi Bencio da Fiorenza,
        che fu di Giorgio Benci giá figliuolo.
 
 
   85 Io dissi a lui: – Un poco sussistenza
        prego che facci e che di dir ti piaccia
        perché fuggite voi, per qual temenza. —
 
 
        Rispose, andando e voltando la faccia:
        – Donna sta qui, per cui fuggiam sí forte:
   90 ella col suo timor ne mette in caccia.
 
 
        In questa piaggia tien la brutta corte
        ed è chiamata trista Povertade,
        spiacente tanto, ch'appena è piú Morte.
 
 
        Per mezzo delle spine e delle spade
   95 noi la fuggiamo per ogni periglio,
        per mezzo a' fiumi e per l'aspre contrade. —
 
 
        Allor per veder quella alzai il ciglio
        e dalla lunga vidi quella vecchia,
        ch'è ostetrice prima ad ogni figlio.
 
 
  100 Avea i peli canuti ad ogni orecchia;
        è dispiacente sí, che a lei appena
        la Morte in displicenzia s'apparecchia.
 
 
        Malanconia e fame seco mena;
        e per suoi damigelli avea gaglioffi;
  105 e di miseria la sua corte è piena.
 
 
        E barattieri ha seco e brulli e loffi
        e quelli a cui non fa bisogno punga,
        e nudi che sospiran con gran soffi.
 
 
        Per questo van fuggendo tanto a lunga,
  110 e la fatica mai non li fa stanchi:
        tanto han timor che costei non li giunga.
 
 
        Il loco, ove fuggíano, io mirai anchi
        e vidi l'altra corte, dove vanno,
        ove lor pare alquanto esser piú franchi.
 
 
  115 Lí stava una regina in alto scanno
        ed era grande in forma gigantea,
        e vestita era d'oro e non di panno.
 
 
        E, benché fosse adorna come dea,
        nientemeno avea volto lupardo
  120 e la sua vista traditrice e rea.
 
 
        Mentr' i' a vederla ben drizzai lo sguardo,
        io vidi cosa, ch'il creder vien meno;
        ma io 'l dirò, e non sarò bugiardo.
 
 
        Vidi che della poppa del suo seno
  125 lattava e nutricava un piccol drago;
        ma ben parea a me pien di veneno.
 
 
        Mentre el suggea desideroso e vago,
        da quel, ch'egli era pria, si fe' piú grande
        che un grosso trave rispetto d'un ago.
 
 
  130 Allor richiede aver maggior vivande,
        ché tutto il latte, che la madre stilla,
        non basta al grande iato, ch'egli spande.
 
 
        Però, affamato, prende la mammilla
        e cava il sangue, e quel convien che suchi;
  135 e, perché è poco, il venen disfavilla.
 
 
        – Convien che ad altra preda ti conduchi
        – disse colei: – o figlio, io non ti basto,
        da che hai piú fame quanto piú manduchi. —
 
 
        Allora il drago, per aver il pasto,
  140 tra quelle genti rapace si mosse,
        come fa il lupo tra le mandre el guasto.
 
 
        E, non sguardando qualunque si fosse,
        or questo or quel divora e 'l sangue beve
        colli suoi denti e coll'ultime posse.
 
 
  145 E, s'egli cresce al pasto che riceve,
        e quanto cresce, tanto ha piú appetito,
        convien ch'ogni gran cibo a lui sia breve.
 
 
        Vidi poi il drago crudele ed ardito
        venir ver' me con sí grande tempesta,
  150 che di paura io sarei tramortito,
 
 
        non fusse che Minerva presta presta
        a me soccorse, e tra lui e me si mise,
        e, quando venne, gli tagliò la testa.
 
 
        Mirabil cosa! Sette ne rimise,
  155 e tutte e sette quelle teste nuove
        anco la dea gli tagliò e ricise.
 
 
        Nacquene in lui ancor quarantanove;
        e fu quell'idra, giá morta da Alcide,
        quando nel mondo fece le gran prove.
 
 
  160 Quando dea Palla di questo s'avvide,
        che ogni capo ne rimette sette,
        quantunque volte la spada il ricide,
 
 
        non con quell'arme piú gli resistette,
        ma disse a me: – Qui è bisogno il foco:
  165 quest'è quell'arme ch'a morte lo mette. —
 
 
        Descender vidi allora su 'n quel loco
        una gran fiamma, e quel serpente estinse
        e féllo come pria diventar poco.
 
 
In questo modo la mia scorta el vinse.
 

CAPITOLO VII

Ove trattasi del vizio dell'avarizia.

 
        Io stava ancora a quel dragone attento,
        a cui, mangiando, fame cresce tanto,
        quanto a sei cifre crescerebbe un cento,
 
 
        quando la dea mi disse: – Or mira alquanto
    5 a quella lupa cruda, che ha la 'nvoglia
        sí preziosa e sí adorno il manto.
 
 
        Ben converrá che, quando ella si spoglia,
        la sua bruttura ed i figliol dimostri,
        che parturisce sua bramosa voglia. —
 
 
   10 Allor mirai e vidi cinque mostri,
        quand'ella si spogliò il bel mantello,
        ch'avean diversi volti e vari rostri.
 
 
        Il primo avea il viso umano e bello;
        e quanto piú venía verso la coda,
   15 tanto era serpentino e rio e fello.
 
 
        Minerva disse a me: – Quella è la Froda,
        che guastò il vero amore e vera fede,
        che fa temer che l'un l'altro non proda.
 
 
        Quell'altro mostro, che dietro procede,
   20 che ha faccia umana e lingua tripartita
        e che trascina il petto e non sta in piede,
 
 
        è quella biscia maladetta ardita,
        che nacque prima del drago crudele,
        che diede morte, promettendo vita.
 
 
   25 Il terzo mostro, che ha in bocca il mèle
        e porta nella man la spada nuda
        nascosa dietro, sol perché la cele,
 
 
        è quel dimon, ch'entrò nel cor di Giuda,
        quando col bascio il gran Signor tradío
   30 per l'appetito della lupa cruda.
 
 
        Il quarto mostro, piú malvagio e rio,
        è quel che 'l secol d'oro e l'etá lieta
        conturbò prima con dir «tuo» e «mio».
 
 
        E 'l coltel sanguinoso e la moneta
   35 vedi che porta, ed è pien di veneno,
        fiero e rapace senza nulla pietá. —
 
 
        Poi tanti mostri parturío del seno
        e tanto brutti la bramosa lupa,
        ch'a numerargli ognun ne verría meno.
 
 
   40 – Ella è nel ventre tanto grande e cupa
        – disse Minerva, – e mena a tanti lacci,
        ch'ogni intelletto grande e legge occúpa.
 
 
        Perché nel fundamento ben lo sacci,
        attendi ch'avarizia è voglia accesa
   45 di conservar o ch'acquistar procacci.
 
 
        Se ad acquistar questa voglia fa impresa,
        sta in faticosa cura e sempre in moto
        e sempre al pasto con la mente attesa;
 
 
        ché sempremai 'l voler, quand'è rimoto
   50 da quel ch'egli desia, si move e corre,
        insin ch'è pien, se gli par esser vòto.
 
 
        E, perch'empier non puossi e fame tôrre
        giammai l'avaro e bramoso appetito,
        salvo al desio non voglia termin porre,
 
 
   55 per questo avvien che quanto piú è ito
        oltra, acquistando, tanto s'affatica:
        però tal cura cresce in infinito.
 
 
        E quanto vien piú verso l'etá antica,
        tanto piú cresce e per amor del pasto
   60 ogni altro amor disprezza ed inimica.
 
 
        Quinci escon i gran mal, che 'l mondo han guasto;
        ché, quando questa brama non s'affrena,
        sforzando, ruba altrui con onte ed asto
 
 
        Questa è che al furto ed alle forche mena
   65 e fa l'usura e barattier ricetta;
        questa è d'inganni e di menzogne piena.
 
 
        Questa fa che 'l figliol la morte aspetta
        del vivo padre, e, per esser ereda,
        spesse fiate a lui la morte affretta.
 
 
   70 Questa è che assassina, uccide e preda,
        dispregia Dio, all'uom è traditrice,
        e meretrica ed in molt'atti è feda.
 
 
        Questa è 'l mal seme e questa è la radice
        d'ogni altro mal; ché di lei uscir puote
   75 ogni altro vizio, sí come si dice.
 
 
        L'altra avarizia ancor, se tu ben note,
        è voglia accesa a conservare in arca;
        e questa fa cadere in molte mote.
 
 
        Questa è troppo tenace e troppo parca;
   80 ed è senza piatá e non sobviene,
        se il bisognoso chiede o si rammarca.
 
 
        Deh, dimmi, avar, che giovan l'arche piene,
        se l'Avarizia sí ti tien la mano,
        che a te, né ad altri non ne puoi far bene?
 
 
   85 E forse lasserai erede estrano,
        che non vorresti, e forse sará alcuno,
        che dir potrai: – Ho conservato invano. —
 
 
        Or non sai tu ch'ogni ben è comuno
        nel gran bisogno e che nell'ampia mensa
   90 parte ci ha 'l nudo povero e digiuno?
 
 
        Ma ciò ch'avanza o che mal si dispensa,
        il bisognoso può dir che gli è tolto
        e la indigenza iniustamente offensa. —
 
 
        Quando tutto il processo ebbi raccolto,
   95 i' dissi a lei: – Non ho bene compreso
        un detto, che 'l pensier mi grava molto.
 
 
        Tu di' che la Menzogna, s'io l'ho inteso,
        è figlia della lupa iniqua e ria,
        che dopo il pasto ha piú 'l disio acceso.
 
 
  100 Or come è questo, dacché nacque in pria
        del petto invidioso del serpente,
        ch'è menzonaio e padre di bugia? —
 
 
        Ed ella a me: – Non è inconveniente
        ch'un atto rio di piú radici nasca,
  105 com'io ti mostrerò apertamente.
 
 
        Tu sai che fura alcun, perché si pasca;
        ed alcun fura per la voglia sola,
        che ha d'esser ricco, e per mettere in tasca.
 
 
        Tu vedi ben che l'uno e l'altro imbola,
  110 ed un di questi da avarizia è mosso,
        e l'altro el move il vizio della gola.
 
 
        Perché tal dubbio sia da te rimosso,
        dirò dove virtú e 'l mal si fonda;
        e chiaro tel dirò quantunque posso.
 
 
  115 Non vien dal fior, né anco dalla fronda,
        s'egli è amaro e vizioso il frutto,
        ma da la raica e 'l ramo, onde seconda.
 
 
        E cosí l'atto, s'egli è bello o brutto;
        e, s'egli ha 'n sé bontá ovver malizia,
  120 vien dalla volontá, ond'è produtto;
 
 
        ché 'l voler, intendendo, el fine inizia
        e sa 'l perché e 'l modo, e l'ordin guida;
        ed ella fa il fin buono ed anche 'l vizia.
 
 
        Onde, se alcun per bene un uomo uccida,
  125 servando l'ordin iusto, cotal atto
        non faría lui colpevole omicida.
 
 
        Il tempo è poco: omai andiam piú ratto. —
        Ond'io mi mossi; e forse eravamo iti
        quant'un grosso balestro avesse tratto,
 
 
  130 ch'io risguardai agli oppositi liti
        e vidi il mostro opposito e distante
        a la lupa rapace e suo' appetiti.
 
 
        Le mani avea forate tutte quante,
        i piedi avea di gallo e la gran cresta,
  135 e d'uomo il volto e tutto altro sembiante.
 
 
        Genti eran seco, che facean gran festa;
        ed egli stava in mezzo grasso e croio;
        poi si spogliò e donò a lor la vesta.
 
 
        Poi, poco stando, ed ei prese un rasoio
  140 e scorticossi, e poi le ven si punse;
        e donò a quelle genti il proprio cuoio
 
 
        e poscia il sangue, che da sé desmunse.
        Alfin e' diventò come Eco trista,
        ch'ancor risponde e d'amor si consunse.
 
 
  145 La dea a me: – L'immago, che hai vista,
        del prodigo è, c'ha suoi atti contrari
        a quella lupa, che bramando acquista.
 
 
        Egli non cura robba, né denari;
        dissipa e fonde e li suoi ben ruina.
  150 Quest'altra aduna e tien con modi avari.
 
 
        Il liberal per mezzo a lor cammina:
        cosí ogni virtú giammai non erra,
        s'ella alle parti estreme non declina.
 
 
        Da un lato l'avaro a lei fa guerra,
  155 amando troppo l'oro e per eccesso;
        dall'altro quel che mai la borsa serra:
 
 
        ché la pecunia e l'altro ben, concesso
        all'uso umano, egli ama tanto poco,
        che non mira ond'è e quanto e come spesso:
 
 
160 però oppositi stanno in questo loco. —
 

CAPITOLO VIII

Dove si ragiona del vizio dell'avarizia

 
 
        Un gran torrente, poi, polito e chiaro
        trovammo in quella via, che gira in tondo,
        ove pena sostien chiunque fu avaro.
 
 
        E presso al fiume, ov'egli è piú profondo,
    5 vidi del miser Cadmo le figliuole
        con brocche in mano; e nessuna avea fondo.
 
 
        E, quando alcuna empire l'idria vòle,
        perché 'l lor vaso è sfondato di sotto,
        quanto sú metton, giú convien che scóle.
 
 
   10 E sempre stan con l'appetito ghiotto,
        affaticate, che credono empire,
        quando che sia, ognuna il vaso rotto.
 
 
        Migliaia vidi posti a tal martíre,
        che di quel fiume stanno su la rupe,
   15 ed un di loro a me cominciò a dire:
 
 
        – Sí come noi le voglie rotte e cupe
        nel mondo avemmo e sempremai bramose
        piú che mai cagne ovver che magre lupe,
 
 
        cosí iustizia qui 'n pena ne pose,
   20 che sitibondi stiamo appresso all'onda
        dell'acque sí abbondanti e copiose. —
 
 
        Poscia una donna vidi in sulla sponda
        come un gigante e col vestire adorno,
        con bella faccia e con la treccia bionda.
 
 
   25 Dinanti a lei ed anche intorno intorno
        stavano molti, ch'eran piú assititi
        che Orlando, quando alfin sonò 'l corno.
 
 
        E, benché siano al fiume in sulli liti,
        non mai però verun dell'acque toglie,
   30 ché dal voler di Dio sonno impediti.
 
 
        La bella donna di quell'acqua coglie
        con diligenza, con una gran brocca,
        per saziar le lor bramose voglie,
 
 
        ed a quell'alme la trasfonde in bocca;
   35 ma la lor sete tanto piú s'accende,
        quanto piú acqua in gola lor trabocca.
 
 
        Ella mi disse: – O tu, che vivo ascende
        e contemplando vai questo reame,
        la pena di costoro alquanto attende.
 
 
   40 Benché 'l poeta Copia mi chiame,
        nientemen mia acqua mai fa spenta
        la sete a questi e loro ardenti brame.
 
 
        Or pensa la lor pena se tormenta,
        da che l'arsura lor mai non s'estingue,
   45 né, quantunque acqua beva, si contenta.
 
 
        Però qui stanno ianti colle lingue,
        come sta il can che ha corso, e con gran folla
        corrono a me, che la lor sete impingue.
 
 
        – O voglia ingorda e cupa mai satolla,
   50 a cui la sete maladetta cresce,
        quanta piú acqua del mio fiume ingolla,
 
 
        qual tutta l'acqua, che nutríca pesce,
        non saziaría e non faría dir: – Basta, —
        né quanta n'entra in mare ovver che n'esce:
 
 
   55 nel mondo, onde mi mena la dea casta
        – risposi a Copia, – non è questa sete,
        al mio parer, cotanto ingrata e vasta. —
 
 
        La donna a me: – Lassú non conoscete,
        rispetto a quell'arsura che martíra,
   60 quant'è poca quell'acqua, che bevete.
 
 
        La millesima parte, chi ben mira,
        quando: – Vorrei – si dice, o: – Se avesse!
        non si chiede del ben, che l'uomo disira.
 
 
        Sí come 'l ricco chiese che daesse
   65 un gocciol d'acqua Lazzaro col dito,
        che la sua lingua tanto non ardesse,
 
 
        tal chiede l'uom rispetto all'appetito;
        colui ch'empirsi d'un gocciol si fida,
        di tutto il fiume mio non sería empíto.
 
 
   70 Qui sta Pigmalion, e qui sta Mida,
        che di far oro col tatto a Dio chiese,
        e per tal don di sé fu omicida.
 
 
        Ancora chiedon con le voglie accese:
        a lor, né ad altri mai potei dar tanto,
   75 ch'elli dicesson ch'io fussi cortese. —
 
 
        Rispose a questo un ch'era quivi accanto:
        – Pensa se io, a cui non dái niente,
        mi debbo lamentar e far gran pianto. —
 
 
        E mentre che per questo io posi mente,
   80 egli mi disse: – Io son preite Antióco,
        e son dannato qui tra questa gente.
 
 
        Idropico giammai, fabbro, né cuoco
        non ebbon sí gran sete; e sempre chiedo
        che questa donna mi dia bere un poco.
 
 
   85 Maggior dolor non è, sí com'io credo,
        che di eccellenza aver gran desidèro
        o di ricchezza o d'ira o d'atto fedo;
 
 
        ché, se quel ch'uom disia non viene invero,
        l'animo affligge, e, se inver venisse,
   90 ha sempre mancamento e non è intero. —
 
 
        Risponder gli volea, quand'esto disse;
        ma per la folla e per la grande stretta
        convenne ch'io sospinto addietro gisse,
 
 
        però che quella gente maladetta
   95 fanno gran calca, ed insieme s'oppreme
        ciascun, che l'acqua in prima a lui si metta.
 
 
        Per questo poi turbar li vidi inseme,
        sí come quei fratelli fên la guerra,
        in Tebe nati dal serpentin seme,
 
 
  100 e come nel teatro alla gran terra
        ne' giuochi salii dispiatati e crudi,
        sí come dice Seneca e non erra,
 
 
        stavano disarmati senza scudi
        li condannati, chiusi in poco spazio,
  105 colli coltelli in mano, a petti nudi,
 
 
        e di lor carne facean tanto strazio,
        finché l'un l'altro crudelmente uccide,
        ch'ogni Erode crudel ne saria sazio.
 
 
        Quando cotanto mal l'occhio mio vide,
  110 dissi a Minerva: – Io prego mi contenti
        d'un dubbio, pria che piú in alto mi guide.
 
 
        Di tutti i cieli e di tutti elementi,
        se nell'Apocalisse io ben discerno,
        di tutti i regni e di tutti li venti
 
 
  115 commesso ha Dio agli angeli il governo
        sí come a motor primi e generali,
        sí che lor moto vien dal piú superno.
 
 
        Ora mi di': se li ben temporali
        sono commessi ad agnol che sia buono,
  120 da che son seme di cotanti mali?
 
 
        Ché, se penso l'origine, onde sono,
        cavati son d'inferno, ove natura
        nascosto avea cosí nocivo dono.
 
 
        Ed anco questo don, s'io pongo cura,
  125 tutte le volte nuoce a' possessori,
        se l'appetito a sé non pon misura.
 
 
        E Satanasso disse: – Se mi adori —
        quando nell'alto monte menò Cristo,
        – io ti darò e regni e grandi onori. —
 
 
  130 Adunque da lui è cotale acquisto:
        nullo guadagno grande e ratto viene,
        se non con froda o con rapina misto.
 
 
        Chiaro è lo testo che questo contiene,
        ché nell'Apocalisse chi ben cerca,
  135 questo testo e la chiosa vedrá bene.
 
 
        Dice: «Qualunque per guadagno merca,
        convien che della bestia porti il segno»,
        come chi serve a Dio porta la cherca.
 
 
        E questa bestia, come fermo io tegno,
  140 è un diavolo; e la froda e la bugia
        il segno son del serpente malegno.
 
 
        Ed anco in ciò che fa, convien che sia
        Cristo simile al Padre e che ambedoi
        tengan un modo, un ordin e una via.
 
 
  145 Ma Cristo solo a' buon seguaci suoi,
        s'io ben estimo, commise ogni cosa
        alta e perfetta, e questo veder puoi.
 
 
        Del sangue suo la sua dotata sposa
        commise a Pietro e l'una e l'altra chiave,
  150 la qual d'aprir il ciel ora si posa.
 
 
        E quella dolce Madre, a cui disse: – Ave —
        giá Gabriello, diede al suo diletto,
        il qual amò con piú amor soave.
 
 
        Il nome suo commise al vaso eletto,
  155 che 'l predicasse tra 'l popul gentile,
        e che alla fede el facesse soggetto.
 
 
        Ma la pecunia, come cosa vile,
        commise a quel discepol, ch'era rio
        lupo rapace in mezzo al santo ovile.
 
 
  160 Questo ne dice Cristo, al parer mio,
        che nullo puote mai, sí come ei pone,
        a Mammona servir ed anco a Dio.
 
 
        Sí come alcuno espositor espone,
        delle divizie Mammona è ministro;
  165 sicch'egli alle divizie si prepone. —
 
 
        Quand'ebbi detto, il cammino a sinistro
        prese la dea ed alla mia proposta
        mi disse: – L'opra dimostra il maistro; —
 
 
e non mi volle dare altra risposta.