Za darmo

Il perduto amore

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VI

Io ho spesso orrore di questa crudele passione che mi trascina a risuscitare dal mio passato tante immagini dolorose, e rimescolare tanta tristezza, tanto fango, tanta miseria di cui la sorte volle contaminare le cose più pure, le più sante, le più care della mia vita. Io credo d'essere malato, un poco toccato forse, perchè il piacere che mi dà questo fantasticare so bene che non è cosa naturale, ma è il prodotto di un vizioso pervertimento della ragione, un male che confina con la pazzia. Infatti chi può godere a riaprire con le proprie mani una ferita già chiusa, e a spargerla poi d'aceto perchè il dolore straziante mai non si plachi un momento? Io non ho nessuna colpa da espiare, non posso desiderare la tortura per rigenerarmi, e questa mia crudeltà se si rivolge contro me stesso è ingiusta e vana, ed è triste se si rivolge contro coloro di cui parlo. No: le creature che più ho amato, in cui più confidavo, non hanno saputo darmi alcun bene. Erano per me la personificazione della gioia, della purità, della bellezza, e hanno creato dolore, vergogna, bruttura. Pure esse hanno seguito il loro destino, che era infame così come era disgraziato il mio.

Mia sorella Silvina (è di lei che parlo, di lei piccola sorella mia, triste immagine di mia madre, triste immagine di me stesso) passava la massima parte delle sue giornate nell'inerzia più vuota ad aspettare Silvio. Amava Silvio, Silvina? Voglio credere che lo amasse. Ella si lasciava accarezzare da lui. Era timida, sottomessa, paziente. Come avrebbe potuto essere così docile, così mite, se non lo avesse amato? Silvina amava Silvio, perchè Silvio in ogni suo pensiero, in ogni sua parola, poneva Silvina ad una grande altezza sopra tutte le cose, incominciando da sè stesso, che non si stancava mai di umiliare dinnanzi a lei.

– Il mio posto, le diceva, è ai tuoi piedi. Ti vedo come sopra un trono, tu regina, io tuo schiavo. E le diceva: – Come sei bella, Silvina! Che capelli morbidi, fluidi, dorati! E sono miei, soltanto miei! Io solo li tocco, io solo vi affondo le mani, li sento scorrere tra le mie dita, li accarezzo, li bacio! E le diceva anche: – Come ammiro, Silvina, la forza del tuo carattere, il tuo coraggio, la tua volontà, la chiarezza dei tuoi pensieri! Non sai quanto le altre donne siano deboli, timorose, volubili, sciocche? E infine le diceva: – Tu mi guiderai ed io ti seguirò, sarò la tua forza materiale, quella che manca alla grazia del tuo corpo, alla fragilità del tuo sesso…

E Silvina lo stimava un uomo debole, ma dotato d'una intelligenza superiore. Lo trovava bello, pieno di delicate premure, modesto, e cieco d'amore per lei. Ma le ore erano lente a passare, e Silvina aspettava con impazienza il giorno in cui avrebbe potuto lasciare quella miserabile stanza, in quella miserabile casa, la compagnia insoffribile di quelle masserizie troppo usate, troppo umili, quella grigia uggiosa veduta di coperchi di case, quella distesa di tetti tutti uguali che Silvio invano cercava di abbellire con la sua fervida immaginazione. Ella non osava affrettare questo giorno tanto desiderato, perchè voleva potersi vantare poi di aver fermamente sopportato, per amore, giorni tristi, ore difficili e lamentevoli, il pericolo d'una esistenza scolorita, tutta solitudine, malinconia, rinunzie, privazioni, e persino lo spettro sinistro della miseria e della fame. Bisognava essere un'eroina per affrontare simili eventi, e Silvina se ne vantava già in cuor suo, e pensava che Silvio poteva bene gloriarsi di lei, perchè non tutte le donne sarebbero state capaci di tanto. Per consolarsi, per consolarsi un poco, e anche per piacergli sempre più, per non perdere nulla del suo fascino, ella si pettinava con cura; si incipriava bene bene, si cambiava sempre quei due abiti che aveva portati con sè e si metteva al collo la collana con lo smeraldo che Silvio trovava bellissima. Così, come faceva in casa nostra, anche lassù al settimo piano di quella casa, Silvina passava lunghe ore allo specchio, e sognava gioielli e vesti splendide, con scollature e strascichi, ventagli di piume magnifiche, e nei capelli un diadema.

Il padre e la madre di Silvio erano molto ricchi e non avevano altro figlio che lui. Essi possedevano una grande villa con un grandissimo parco alle porte della città; avevano carrozze, cavalli, servitori in gran numero, ed erano anche molto vecchi. Silvio avrebbe cercato di lavorare, poi si sarebbe stancato. Si sarebbe stancato di quella vita miserabile, di abitare al settimo piano d'una brutta casa, di mangiare poco e mai cose ghiotte, di addormentarsi al lume di una candela, di andare in giro con abiti consumati, e infine di sciupare così la bellezza di Silvina sua, senza che potesse risplendere in alcun modo. Allora le sue manie di libertà, d'indipendenza, sarebbero svanite, ed egli avrebbe pensato di riavvicinarsi alla sua famiglia, avrebbe scritto una lunga lettera al suo signor padre, nella quale gli avrebbe chiesto perdono e si sarebbe esteso assai nel celebrare la grazia, la beltà, la fine educazione, il nobile animo e l'amore di Silvina, pregandolo in ultimo di accoglierla come figlia in casa sua e di benedire la loro felice unione. Poi pensava, Silvina, che Silvio le aveva dipinto suo padre come un uomo di vecchio stampo, rigido nei suoi principi, autoritario e violento… Allora la sua fantasia prendeva il volo per cieli meno sereni, e con freddo cinismo immaginava che, essendo tanto vecchi, il padre e la madre di Silvio avrebbero potuto presto morire, forse erano già morti; la loro carrozza avrebbe potuto rovesciarsi nel fiume mentre facevano la loro passeggiata la sera, o dei ladri, aggredendoli nel parco, avrebbero potuto ucciderli; e così, ogni ostacolo sarebbe scomparso d'un tratto, ed ella, con Silvio, sarebbero andati ad abitare in quella bella villa, avrebbero avuto quelle belle carrozze e quei bei cavalli, tutti quei servitori, e di tutto quanto la padrona era lei.

Ma Silvio, per mezzo di una vecchia nutrice, aveva potuto sottrarre da casa sua alcuni oggetti preziosi suoi personali che nella fretta di fuggire non era riuscito a portare con sè. Rimpinguò così il suo tesoro, che già era esausto, e riprese coraggio nella fiducia incrollabile che l'aiuto da tutti promesso con tanto slancio sarebbe infine venuto a rischiarargli durevolmente la via. Erano già tre mesi che Silvio e Silvina vivevano insieme. Egli s'era fatti alcuni amici, non si sa dove pescati, poichè veramente Silvio non frequentava nessuna speciale categoria di persone, ma tutta gente che incontrava per caso nel suo continuo peregrinare in cerca di lavoro. Egli passava la maggior parte del suo tempo, quando non era con Silvina, da un caffè all'altro, e con pretesti d'ogni genere cercava di entrare in discorso con i suoi vicini di tavolino, interloquiva non richiesto della sua opinione nelle dispute più disparate; sempre nell'intento di dichiarare l'esser suo, di richiamare sopra di sè l'attenzione della fortuna, che può presentarsi sotto l'aspetto di una bella matrona con gli occhi bendati e in equilibrio sopra una ruota, ma può anche assumere le meno classiche sembianze di un commesso viaggiatore, di un diplomatico a riposo, di un vecchio signore vestito a lutto o di un avvocato molto versato in politica. E a tutti diceva alla fine, conducendo abilmente ogni conversazione a quel punto ch'egli non perdeva mai di vista:

– Eccomi qua: io non chiedo di meglio che lavorare. Io non ho falsi pudori, idee preconcette. Sono libero ecc. ecc. E poichè vestiva decentemente e non chiedeva mai un soldo in prestito, si comportava con educazione e riservatezza, era ottimista, di buon umore, simpatico, alla mano e parlava bene, tutti finivano per dire di lui: – Che bravo, che caro ragazzo! – e lo accettavano volentieri come compagno di ozi.

Appunto in uno dei tanti caffè di cui era cliente assiduo e noto, Silvio aveva conosciuto il principe Stroztki. Era un polacco, un diplomatico, dalla figura ridicola ma piena di razza. Aveva quarant'anni, vestiva con ricercatezza, gli piacevano le belle donne e componeva anche dei versi. Il principe portava sempre le mani inguantate di splendidi guanti bianchi e un cappello grigio chiaro di feltro finissimo. Sotto il cappello, divisa in due da una irreprensibile riga, brillava di profumati cosmetici una parrucca nerissima, purtroppo così falsa che, nascondendo la calvizie del cranio, rendeva più che mai evidente la calvizie, per così dire, del viso, che era gialliccio e senza l'ombra di un pelo in tutta la sua superficie.

– Ah, Silvio, disse un giorno il principe con accento di dolce rimprovero, io sono molto in collera con voi. Sì, molto molto in collera. Voi avete una graziosa amica, un'amica molto graziosa, mi dicono, e la tenete nascosta?

– Oh, principe, balbettò Silvio confuso, chi vi ha detto una cosa simile?

– Amico mio, rispose il principe, la violetta è un fiore che facilmente passa inosservato finchè non si colga. Ma quando si è colto e si porta all'occhiello?

– Voi volete burlarvi di me, signor principe, disse Silvio arrossendo. Io non ho nessuna viola all'occhiello.

– E se io stesso vi avessi veduto, invece, con una bellissima viola? ribattè il principe con malizia. Ditemi dunque, caro Silvio: non eravate mica voi, ieri sera, all'Alhambra, in compagnia di una donnina bionda, molto carina, molto elegante, con un bell'abito proprio viola e uno smeraldo al collo?

– Sì, sì, confessò Silvio sorridendo, ero io. Ma la signora che accompagnavo non era una piccola amica.

– Capisco, soggiunse il principe, è un segreto…

Silvio si fece coraggio e disse:

– Era mia moglie.

Il principe lo guardò per un attimo stupito, incredulo. Poi sorridendo, disse con galanteria:

– Ve ne faccio i miei complimenti… È una deliziosa creatura.

Silvio s'inchinò e rimase muto. Si sentiva intimamente orgoglioso di quella lode, che gli veniva da un così raffinato intenditore. Per una volta che aveva condotto Silvina in un luogo frequentato da gente elegante, illuminato sfarzosamente, adatto per far brillare la sua grazia, la sua leggiadria, la sua candida bellezza, subito era stata ammirata, per quanto non mancassero là dentro le donne avvenenti, giovani, belle, i ricchi abiti, le acconciature sfarzose.

 

– Non sarete mica geloso, caro Silvio, disse il principe, vedendolo silenzioso ed assorto.

– Oh, principe! esclamò Silvio con candore. Noi ci amiamo teneramente.

Rientrando in casa, Silvio si sentiva ebbro di gioia. Volava leggiero su per le scale, come se lo portasse il vento. Entrò d'impeto nella stanza e trovò Silvina che aveva colto un garofano rosso nel suo giardino e, civettando dinnanzi allo specchio, se lo stava allora appuntando tra i capelli. L'abbracciò, la coprì di baci, gridando:

– Amore, amore mio! Poi indietreggiò di due passi ed esclamò:

– È vero, è vero! Ed io sciocco che non ci avevo mai pensato! C'era una piccola viola nascosta: io l'ho colta. Ora come potrebbe più nascondersi? Il principe, l'amico mio, ha ragione!

– Tu conosci un principe? domandò Silvina senza distrarsi dallo specchio.

– Sicuro! esclamò Silvio. Stroztki: un vero principe.

– E chi è questa viola mammola? domandò Silvina con una punta d'ironia.

– Ma tu stessa! esclamò Silvio.

– Bella! disse Silvina. E dove mi ha veduta?

– Ieri sera, all'Alhambra! rispose Silvio. Mi ha domandato: – Chi era quella graziosa donnina così e così, biondina, vestita di viola, molto graziosa, molto elegante? Gli ho risposto: – Mia moglie!

– Mio Dio! disse Silvina, come ha potuto trovarmi elegante? Con questo vestitino viola, così sciupato?..

Silvio rise allegramente e le chiuse la bocca con un bacio.

– Ah, non sai! le sussurrò all'orecchio, non sai che già muoio di gelosia?

Fu quello uno degli ultimi baci che Silvio dette a Silvina.

Finì l'estate. In uno dei primi giorni di novembre Silvio incominciò a tossire e si ammalò con una febbre altissima. Il medico chiamato in gran fretta stimò che convenisse trasportarlo all'ospedale, dove, curato energicamente, avrebbe potuto in pochi giorni guarire. Egli sopportò con rassegnazione questa dura prova, e, consegnato a Silvina il suo magro tesoro, l'abbracciò piangendo e si lasciò trasportare.

Nei nostri paesi l'autunno è brevissimo. L'inverno succede all'estate quasi senza intervallo, in pochi giorni gli alberi si spogliano, una settimana di piogge torrenziali lava la terra e la prepara pulita ad accogliere il candido mantello che subito la ricopre. Così per lunghi mesi, fino ai primi germogli di primavera, essa rimane immobile come morta sotto un cielo anch'esso immobilmente grigio. Soltanto i passeri (chi non lo ha notato)? conservano nell'universale tristezza il loro buon umore salterino e ciarliero. Chi vive in campagna può ancora trovare un conforto ai sensi mortificati, poichè se l'inverno non ha i colori vividi e festosi della primavera, nè il tepore oppiato dei grandi meriggi estivi, nè lo splendore delle belle notti d'autunno, offre almeno all'immaginazione scheletri nudi e immensi spazi candidi che essa può rivestire e dipingere delle più consolanti e promettenti visioni. Ma nelle città gli uomini infreddoliti si sentono abbandonati da Dio nello squallore delle loro opere di fango e di pietra; senza l'oro del sole, senza l'azzurro del cielo, senza il verde dei giardini, vedono quanto siano pesanti e lugubri le loro più ammirevoli architetture, e, curvando il capo sfiduciati sotto il peso della solitudine e della malinconia, non sanno concepire se non dolorosi pensieri.

Rimasta sola e triste, poichè ebbero portato via Silvio con la barella, Silvina non aveva per difendersi dal freddo se non quei due vestiti di seta leggera. Non c'era nè stufa nè camino dove accendere il fuoco. Affacciarsi all'abbaino era da piangere, a veder le nuvole gonfie rotolare sui tetti neri e paurosamente deserti. Per l'appunto pioveva. Le gronde facevano una musica funebre gocciolando gocciolando con esasperante monotonia, sempre lo stesso suono e la stessa pausa, senza sostare un momento. Nel ronzio continuo della pioggia sul tetto, i più piccoli rumori, i più lontani, diventavano sordi tonfi, cupi boati, stridori infernali, e pareva che nel corridoio buio e deserto, nei solai disabitati, si muovessero catene e rimbombassero martelli, e passassero in fuga torme di animali infuriati. Le vecchie suppellettili scricchiolavano tutte con lunghi gemiti, come se spiriti imprigionati nelle loro membra di legno tarlato e inchiodato si torcessero spasimando per liberarsene. Alla porta poi era un ininterrotto bussare, un bisbiglio di voci soffocate, un avvicinarsi e allontanarsi di passi cauti, un provare e riprovare chiavi alla serratura, un lavorio affaccendato di mani ladre lungo i battenti, intorno ai cardini, che non finiva mai. E Silvina se ne stava raccolta in un angolo, con tutti e due i suoi vestiti addosso, le mani inguantate, lo smeraldo al collo, parata e immobile come una madonna di cera. A denti stretti ella cercava di vincere il tremito convulso del freddo e tener sveglia la ragione che tanti brutti pensieri cercavano di ottenebrare. Credo che rivedesse allora il nostro gran focolare, dove tutti noi, raccolti in cerchio dinnanzi ai bei ciocchi ardenti, le sere d'inverno facevamo scoppiar le castagne spingendole con le molle bene in mezzo alla brace; e poi, quando erano scoppiate, e la polpa bianca incominciava a rosolarsi, le pescavamo dalla cenere, facendole saltar sulle dita e soffiando a gote piene, finchè non erano intiepidite. Allora, sbucciate e fattene tante piccole focacce, ce le imboccavamo l'un l'altro ridendo con buffi oremus, laudamus e deo gratias. Certo rivedeva mia madre quando, posando sulla sua fronte il bacio della buona notte, le rimboccava calde calde intorno al collo le morbide coltri del suo buon lettuccio, dove era cresciuta e aveva dormito tanti bei sonni tranquilli. Ma quando al di là dell'abbaino la luce scialba invernale incominciò a scemare e dagli angoli si diffusero nella stanza le ombre nere di quella prima sera di solitudine, Silvina si alzò, aprì l'uscio, attraversò il corridoio, scese correndo tre capi di scale, e senza esitare bussò alla prima porta che le si parò dinnanzi.

VII

Madama Humbert abitava appunto al terzo piano di quella casa con le sue sette nipoti e con Loreto Re del Portogal. Ogni volta che Silvina scendeva o saliva le scale, la trovava sull'uscio del suo appartamento e doveva rispondere con un inchino al suo saluto. Non s'eran mai scambiate altre parole che: – Buon giorno! Buona sera! – Ma i sorrisi di madama Humbert erano affettuosi inviti ad un'intimità più profonda. Madama Humbert era una distinta signora, che vestiva sempre di nero. Intorno al suo collo portava sempre annodata una trina nera, e il suo aspetto era quello di un'onesta vedova che offrisse alla memoria ormai lontana del suo sposo il tributo modesto sì ma spontaneo di quegli abiti sempre sempre neri. Dalla cintola in su ella era di una magrezza quasi deforme; e il suo collo lungo e sottile pareva dovesse da un momento all'altro piegarsi stanco sotto il peso del capo, che era rotondo e piatto, con un viso tutto naso e bocca, dove gli occhi, privi di sopracciglia, sembravano due forellini neri. I suoi capelli erano di un grigio rossastro e radi, e tutti tirati a formare sul cucuzzolo un ciuffo di peli arsicci, tenuto fermo da un pettine. Sotto la cintola poi il suo corpo s'arrotondava in un ventre enorme, ch'era una specie di mostruosa montagna su cui ella teneva sempre incrociate le mani.

Aveva da poco finito di cenare e, sdraiata sulla poltrona, dove le piaceva riposare dopo i pasti, madama Humbert guardava amorosamente Loreto che si stava appisolando. E vedendo le sue palpebre leggiere come un velo di seta cadere e rialzarsi sulle indecise pupille annebbiate dal sonno, pensava con tenerezza come Loreto rassomigliasse tutto a un cristiano. Le sette nipoti di madama Humbert, tutte fiorenti e giovani, erano mollemente sdraiate sui tre divani intorno intorno al salotto. Ai colpi che improvvisamente risuonarono contro la porta, chi pisolava si svegliò, chi sbadigliava stirò le belle membra elastiche con un miagolio di gatto, e chi guardava distrattamente le rose del soffitto voltò gli occhi dalla parte dell'uscio e aspettò. Soltanto Loreto, cavato il capo di sotto l'ala dove l'aveva allora riposto, e purgatosi in fretta, disse con un sospiro:

– Lo zio, lo zio, lo zio!

Madama Humbert si alzò e a piccoli passi si diresse verso la porta, che poi aprì lentamente.

Allora nella penombra della scala apparve, bianca, Silvina. Ella piegò seria la fronte, passando dinnanzi a madama Humbert che s'era fatta da parte per lasciarla entrare, e poi le domandò guardandola fissamente negli occhi:

– Non la disturbo, signora?

Madama Humbert ridendo e scrollando il capo la prese per le mani e la condusse in salotto, e, mentre le sue sette nipoti s'alzavano in piedi, ella la fece sedere nella sua poltrona, le spinse sotto i piedi un cuscino e accarezzandola con occhiate amorose:

– Signora, le disse, cara, cara! A che si dovrà quest'onore?

Poi, senza attendere una risposta, presentò le sette ragazze che s'inchinarono graziosamente una per una, e Silvina udì dei nomi come Odette, Frufrù, Mimì, Manon, Lulù.

Quindi, levati gli occhi su Loreto, madama Humbert disse con tenerezza:

– E questo, questo cocco di Dio, è Loreto mio bello…

Loreto squadrò con disprezzo Silvina, si gonfiò di disgusto, torse sdegnoso il capo per non vederla. Ma madama Humbert si sedette di fronte a lei e, riposte le mani sulla prominenza del ventre, la contemplò beata, e disse:

– Chi avrebbe potuto sperare nel piacere di una sua visita, cara signora? Aspettavamo lo zio Stanislao. Ma è tanto tempo che desideravo conoscerla… Tanto! Tanto!

– Lei, soggiunse Silvina, è stata così buona con Silvio… Era mio dovere ringraziarla di quanto ha fatto per lui.

– Oh! cara! esclamò madama Humbert abbassando gli occhi modestamente. Vuol parlare della coperta di lana? Ma i malati di febbre bisogna coprirli bene, bisogna farli sudare! Io immaginavo che una grossa coperta imbottita potesse esserle utile. Lei, signora, non avrebbe fatto altrettanto per me? Ma io la chiamo sempre: signora! Mi sembra così strano. È tanto giovane, tanto piccina… Non è che una bambina, lei!

Toccò a Silvina questa volta abbassare il capo modestamente. E lo abbassò sorridendo, perchè temeva di arrossire. Ma già madama Humbert aveva composto il viso nella più profonda mestizia e diceva con sospiro:

– E ora come la compiango, poverina, che è rimasta così sola, senza il suo Silvio! Chi sa come le sembrerà triste non averlo più vicino! Anche una meno giovane di lei, si sentirebbe perduta, poichè per noi, povere donne, tutto è l'abitudine. Lei poi immagino quanto ne soffrirà…

– Certo mi dà un po' di pena, disse Silvina esitando, come se questa confessione le costasse assai cara. E soggiunse con un sorriso: – Passerà… Non mi perdo d'animo…

Silvina gettava qua e là sguardi discreti, ma penetranti, su quello strano parentado di madama Humbert. Nessuna di quelle ragazze somigliava all'altra, e se Lulù era bruna e snella, Manon era grassa, piccola e bionda. Fosse Mimì fosse Odette, una ce n'era che aveva passati almeno i trent'anni, di taglio maschile, muscolosa, quadrata. Frufrù invece aveva l'aspetto di una bambina esile, magra, con i capelli ancora giù per le spalle, occhi chiari, bocca innocente, mentre Fanny era fulva e maliziosa come una volpe. Chi vestiva di verde, chi di rosso, chi di giallo, abiti delle fogge più disparate. Una delle due più giovani mostrava dal sottanino corto lunghe calze di seta nera. Odette invece aveva i polpacci nudi e ai piedi portava calzettini bianchi e scarpette bianche, di raso. Manon aveva i capelli tutti ondulati, con un gran fiocco di nastro sulla tempia. Dalle trecce lisce e attorcigliate di Mimì ciondolava invece una rosa. Soltanto l'orrore del caldo era a tutte comune, quantunque la stufa non diffondesse che un discreto tepore; poichè chi non aveva le braccia nude e la gola scoperta, portava abiti tanto leggieri che parevano di velo.

– Così, concluse madama Humbert un suo lungo discorso che Silvina aveva ascoltato appena, quando il mio terzo marito mi lasciò per salire nella grazia di Dio, io mi ridussi a vivere qui con queste mie ragazze. Noi non riceviamo visite se non di persone di conoscenza, intime e fedeli, perchè il mondo oggi è pieno di villani e di ladri.

Madama Humbert era giunta a questa amara conclusione, quando di nuovo alcuni colpi furon bussati alla porta. Allora di nuovo ella si alzò, andò ad aprire, e, salutato dai festosi strombettii di Loreto, entrò finalmente l'atteso zio Stanislao. Questo signore mi sembra che lo abbiamo già conosciuto, per quanto nessuno di noi conosca propriamente uno zio Stanislao. È un uomo di circa quaranta anni, tutto sbarbato, con un bel parrucchino nero diviso in due da una perfetta scriminatura, vestito con eleganza, e di modi garbati.

 

Egli ha molto da fare a baciare una per una, chi sul collo chi sulla gota, le sue sette nipoti; ma alla fine si inchina dinnanzi a Silvina, posa con galanteria le labbra sulla sua mano, e attentamente la scruta. Sembra che cerchi qualche somiglianza nella sua memoria, qualche ricordo che per il momento gli sfugge. Quindi con un gesto vago allontana questo pensiero, come per dire: – Verrà più tardi da sè. E mollemente si adagia sul divano, fra la matura Odette e Manon, la più acerba, come fra due cuscini. Ma i suoi occhi si riposano su Silvina.

– Ne ero sicuro! esclama ad un tratto, battendosi la mano sulla fronte. All'Alhambra, qualche sera fa, mi ricordo perfettamente d'averla veduta! Non era lei, domanda premuroso a Silvina, alcune sere fa all'Alhambra, in compagnia di un giovane di nome Silvio? E come Silvina accennava di sì col capo, soggiunse: – Non riuscivo a ricordarmi, ma quello smeraldo che ella porta al collo m'ha messo sulla buona strada…

– Anche la mia povera sorella, disse malinconicamente una delle ragazze, aveva una collana con uno smeraldo simile a quello…

– E che ne è di Silvio? domandò lo zio Stanislao.

– Poverino, rispose pronta madama Humbert, lo hanno portato oggi all'ospedale.

Lo zio Stanislao ha un moto di doloroso stupore e guarda attentamente Silvina. Sembra che voglia ora rivolgerle una domanda indiscreta, e infatti pensa fra sè:

– Questa donnina non può essere la moglie di quel ragazzo. Che moglie volete che sia? Ha tutta l'aria di un passerino sperduto, che Silvio ha raccolto chi sa dove.

E Silvina pensa a sua volta:

– Tutti mi hanno ammirata quella sera all'Alhambra. Non soltanto il principe, ma anche quest'altro amico di Silvio.

Silvina sostiene per un attimo con fermezza lo sguardo languido che lo zio Stanislao posa su lei, poi abbassa gli occhi, per lasciarsi liberamente guardare.

– Povero Silvio! dice alfine lo zio. Come mai all'ospedale?

– Con una gran febbre, soggiunge pronta madama Humbert. Povera signora! È rimasta sola…

E segue un lungo silenzio.

Lo zio Stanislao avrebbe voluto compiangere Silvina per l'ingrata sorte di Silvio, ma Odette s'era alzata, e, presolo per le mani, lo tirò su dal divano, e lo trascinò impetuosamente fuori del salotto. Poco dopo, nella stanza vicina, s'udirono due o tre accordi di pianoforte, e la voce di Odette incominciò a cantare:

 
Vous dansez, Marquise,
d'un pied sì leger…
 

Era un'innocente gavotte. Madama Humbert si curvò verso Silvina e le sussurrò:

– Lo zio Stanislao le insegna un po' di musica ogni sera… Odette ha tanta inclinazione!

Poi si raccolse in ascolto, e non si mosse più.

Silvina rimase silenziosa. Ora c'era una ragione di tacere, e se ne rallegrò in cuor suo.

 
La fleur est sans grace
certes auprès de vous…
 

Delle sei ragazze rimaste nel salotto una se n'era alzata dal divano dove stava sdraiata, per andarsi a sedere accanto a Silvina, sopra uno sgabello. Silvina non sapeva se fosse Manon o Lulù, o proprio quella il cui nome le era sfuggito. Ma spesso, volgendo il capo, ella incontrava i suoi occhi che la guardavano e la sua bocca che le sorrideva. E lo strano era che mentre le sue labbra le sorridevano dolcemente, i suoi occhi continuavano a fissarla immobili, inespressivi. Erano occhi grandissimi e belli, ma senza splendore, e distratti finchè vagavano qua e là in cerca di un punto dove posarsi. Poi, quando finalmente si eran posati, una fissità meravigliata li dilatava, e rimanevano così, fermi, senz'anima. Il suo viso giovane terminava in un mento aguzzo che ne sciupava l'ovale, e tradiva più che mai la larghezza della bocca leggermente tumida, tinta di un rosso scarlatto. Soltanto i suoi capelli erano veramente belli, ammassati in grosse trecce pesanti nerissime, con tanti riflessi azzurri.

La voce di Odette era una bella voce squillante. Ma Silvina non amava la musica. I suoi occhi si posarono un poco più a lungo sulla sua vicina. Allora quella accostò ancora più a lei il suo sgabello, e sottovoce le disse:

– La mia povera sorella aveva una collana proprio come la tua, con uno smeraldo tale e quale. Ma un giorno la smarrì e non fu mai più ritrovata…

Tacque un momento, sorrise a Silvina che l'ascoltava benevolmente, e continuò:

– La mia povera sorella aveva tante gioie, che furono tutte vendute dopo la sua morte. È morta giovane, mia sorella. Si è uccisa. Aveva tante altre collane con zaffiri e brillanti, diademi di perle, anelli e braccialetti d'oro. Era molto bella e tutti le facevano regali. Ma noi, qui! Non ci regala niente nessuno…

Esitò un momento. Poi le domandò:

– Tu non hai sorelle?

Silvina rispose:

– No, nessuna.

La gavotta in quel punto diceva:

 
Voyez comme on danse
la main dans la main.
Allons en cadence
Jousqu' au doux hymen!
 

La voce dello zio Stanislao, un po' rauca e stonata, s'era unita d'un tratto alla voce d'Odette. Gli ultimi due versi della strofe furono cantati con impeto, e il ritornello finale fu suonato di galoppo, senza accompagnamento di voci. Poi regnò nella stanza vicina un silenzio profondo, che nessun percettibile rumore turbò per un pezzo.

Madama Humbert domandò a Silvina:

– Non avrà paura, signora, a passare sola la notte lassù?

Silvina sorrise. Veramente non si sentiva punto coraggio. Avrebbe preferito rimanere tutta la notte seduta in quella poltrona, anzichè coricarsi nel suo letto sola, lassù, in quella stanza isolata sotto i solai. Ma come fare? Quella debolezza la riempiva di vergogna. Non avrebbe osato confessarla a nessuno. Disse:

– Cercherò di farmi coraggio…

Incontrò nuovamente gli occhi della ragazza seduta accanto a lei, e le parvero, nella loro immobilità, pietosi. Ripetè:

– Mi farò coraggio…

E si alzò per andarsene. Ma allora anche quella si alzò, e, presale una mano, gliela accarezzò.

– Perchè non rimani a dormire con me? chiese timidamente. Anch'io a dormir sola ho sempre tanta paura.

Silvina rifiutò con un cenno del capo. Ma poi anche madama Humbert la pregò tanto, che alfine non seppe più negare a sè stessa la gioia di sottrarsi alla solitudine dolorosa di quella notte.

Disse:

– Per questa notte soltanto…

E, fatto un inchino a madama, si lasciò condurre per mano.