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Il perduto amore

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Mio padre disse onestamente:

– Deve essere roba rubata, perchè l'ho presa quasi per nulla.

Poi baciò in fronte Silvina e soggiunse:

– Neppure tua madre, un gioiello di questa bellezza, non l'ha avuto mai!

Si sedette soddisfatto e spezzò il suo pane.

PARTE TERZA
Silvina

I

Delle mie tre sorelle, Silvina, la minore, è oggi una principessa. Porta vestiti sfarzosi che il principe paga per lei, grossi brillanti alle dita, ed esce per la città adagiata in una grande carrozza a due cavalli, con cocchiere e lacchè. Lungo la strada semina occhiate come elemosine. I suoi occhi, che erano un tempo semplicemente chiari, come quelli di mia madre, sono ora grandi il doppio e cerchiati di una spessa ombra. Ciglia e sopracciglia, che erano bionde, sono diventate nere; e somigliano al velluto. Attraverso questo negrore notturno i suoi occhi scuri mandano luci fredde e pallide come scintille.

Se non sapessi che è veramente Silvina, io stesso non la riconoscerei. Soltanto i suoi capelli sono rimasti quelli che erano; se mai con riflessi dorati qua e là più vivaci, specie dove a ondate si riempiono di bagliori. Si ricorderà mai, la piccola, dei giorni in cui mia madre glieli pettinava, quei suoi capelli meravigliosi, lei seduta dinnanzi allo specchio, mia madre in piedi dietro le sue spalle a dipanarli come oro filato? La mano di mamma si posava ogni tanto sul suo capo e vi si indugiava un poco, come si posa la mano sul capo di un bimbo sperduto e gli si dice: – Ti protegga Iddio, poverino, così bisognoso d'aiuto! – E anche continuando a passare il pettine nelle sue chiome disciolte, e poi a spartirgliele e ad annodarle, per tutto il tempo mia madre la guardava attentamente nello specchio, come se cercasse qualche cosa di molto nascosto in quell'immagine che lo specchio racchiudeva nella sua cornice.

Allora Silvina era appena fanciulla; aveva sì e no sedici anni. Le piaceva vestir bene. Nella nostra casa si avevano abitudini signorili, ma da gente di campagna, semplici. Mia madre vestiva e si pettinava all'antica. Era bellissima, ma come le donne potevano piacere un tempo. Così appunto era piaciuta a mio padre. Silvina invece voleva abiti di seta, tagliati con uno stile che doveva essere nuovo. In realtà ella inventava i suoi abiti, ricercando, per lunghe ore e spesso per interi giorni, fra pieghe di stoffe di solito cupe come il suo carattere, fogge capricciose come i suoi pensieri, che erano d'una volubilità straordinaria e più stravaganti delle nuvole. Il suo segreto, credo, consisteva nel comporre intorno alla sua persona, che era mingherlina, esile e di statura poco più che infantile, dei larghi e ariosi fiori, un fiore unico anzi, come un gran giglio o una gran rosa rovesciata, entro cui, senza scomparire del tutto, il suo corpo piccolo stava come un gambo. Così vestita pareva che il suo abito la portasse, e che volasse come una farfalla.

Mio padre era un uomo ruvido, e per ciò gli piaceva quella piccola creatura delicata e difficile. Egli la seguiva sempre con occhi pieni di allegrezza, quando la vedeva passare per il giardino o muoversi per la casa spaziosa e nuda. Credo che la paragonasse anch'egli a una farfalla o a un fiore, e che fosse felice e teneramente innamorato di lei. Gli piacevano i suoi capricci, la stranezza e la novità dei suoi modi, il suo carattere scontroso e indipendente, e quella grazia, come dire? isolata, che ella non dedicava a nessuno, ma soltanto a sè stessa. Silvina infatti non viveva che per sè sola. Non aveva per la mamma nè tenerezze nè confidenze nè abbandoni. Per mio padre non dimostrava nessun sentimento cordiale, ma semplicemente rispetto. Con le sorelle non era legata da nessuna intimità. Quanto a me, si degnava appena, e raramente, di farmi sentire fino a che punto mi disprezzasse. Rimaneva lunghe ore chiusa nella sua camera. Si cambiava più volte d'abito, per l'unica gioia di vedersi nello specchio. Faceva e disfaceva la sua pettinatura per il solo gusto di stabilire in quanti modi avrebbe potuto trasformarsi, rimanendo sempre bella abbastanza per essere contenta di sè.

Debbo confessare che la spiavo spesso in questa sua bizzarra vita, perchè anch'io, come mio padre, come tutti noi, ero teneramente innamorato di lei. Ella esercitava su me un fascino che allora non sapevo spiegarmi, ma che ora spiego, e posso anche analizzare. Silvina somigliava a un mio ricordo; somigliava a qualcuno di cui ero stato perdutamente innamorato. Non potevo guardarla senza avere la precisa e viva percezione di tutto il male di cui la sentivo capace, quella creatura così delicata e graziosa, con quelle piccole mani bianche e affilate. Ma aveva nel profondo del mio pensiero un nome che non oso ripetere, e che non era: Silvina. Io la vedevo poi in procinto di partire da quel medesimo punto al quale ero appena arrivato per miracolo ancora vivo, e avevo paura per lei di ciò che avrebbe potuto compiere inconsapevolmente a danno di chiunque si fosse incontrato con uno suo capriccio. Non aveva mai conosciuto, Silvina, l'ingenuità fiduciosa dei miei vent'anni. Ignorava che cosa volesse dire essere buoni, cioè considerare con benevolenza tutte le cose, andare incontro alla vita sorridendo, disarmati, a braccia tese, con quella beata cecità che conduce al precipizi. Ella era armata di un tremendo egoismo; e credo che la sua piccola testa fosse tutta piena di calcoli.

II

Forse, se la nostra casa non fosse stata prossima alla strada maestra, Silvina, già così pallida allora, sarebbe a poco a poco sfiorita in questa specie di semplice e riposante clausura in cui si vive qui forzatamente, fra usanze antiche, e da molti anni sempre uguali. Sarebbe oggi o fra poco una zitella taciturna ed arcigna, come se ne incontrano di domenica in questi dintorni, brutte più di anima che di corpo, con cuffie strette e begli abiti passati di moda nei quali ancora per dispetto si pavoneggiano. Ma la nostra casa, i vecchi, la costruirono sulla strada, con giardino ed orto alle spalle, anzichè tutto intorno, e per di più con una grande e bassa terrazza che si affaccia sul via vai, alle cui ringhiere s'intrecciò poi il glicine, che ora fiorisce e la ricopre. Molti bussano alla nostra porta. Molti che passano, molti mendicanti, molti curiosi, non possono fare a meno di fermarsi e di bussare, di guardare in su alle finestre e di scambiare parole con la gente di casa. Anche noi apparteniamo alla strada. Io capisco benissimo che è una tentazione troppo forte questa casa signorile a portata di tutti gli occhi e di tutte le mani, dinnanzi alla quale si passa impolverati, stanchi dopo ore ed ore di strada attraverso colline brulle e campagne in gran parte desolate, prima di arrivare al paese. Anch'io forse farei come tutti gli altri, se fossi dalla loro parte.

Vi sono ancora oggi dei giovani romantici, molte idee romantiche nel mondo. Si subisce la seduzione delle vecchie idee, unicamente perchè se ne stanno silenziose e sconosciute dentro di noi, che le crediamo lontane e morte, e a nostra insaputa generano idee e fatti che a noi paiono nuovi. Dico questo perchè mi riesce estremamente difficile procedere diritto nel mio racconto. Io sono stato senza dubbio del numero: anch'io un romantico. Zotico, campagnolo, con la mia faccia plebea, i miei capelli disordinati, i miei abiti modesti e senza eleganza, io non ho mai somigliato per nulla a quei bellissimi giovani del decimonono secolo che si vedono nei dagherrotipi. Ma colui di cui voglio parlare, ricordava in tutto uno di quelli. Era alto della persona e bruno, con lunghi capelli, grandi occhi, un viso ovale e malinconico, labbra appena segnate e languide, lunghe mani bianche, abiti molto attillati e scuri, e di taglio che imitava la moda antica. Io non ho mai capito che cosa sia l'amore di una fanciulla, come nasca, e che cosa le faccia innamorare. Ma credo che egli fosse appunto uno di quei giovani per i quali le fanciulle, guardandoli mentre passano per la via, piangono, di sera, sole, nei vani delle finestre, e sospirando pensano di morire. Lo vedevo qualche volta venire dalla parte della città, cavalcando un bel cavallo irlandese, e, subito dopo la nostra casa, uscire dalla strada maestra e piegare per i prati verso il greto del fiume. Lo seguivo mentre caracollava fra gli alberi fino alla grande siepe d'ontani, e dietro quella poi scompariva. Al ritorno, verso sera, si metteva di passo lungo il fossato, come uno che non ha gran fretta di camminare. Eravamo allora al principio dell'estate. Le notti erano luminose, anche quando mancava la luna; e cadevano molte stelle. Io trascorrevo lunghe ore alla finestra, a respirare l'aria profumata dai fieni appena tagliati, ad ascoltare i grilli e tutte le indefinibili musiche che l'ombra stellata delle sere estive suscita per i campi e disperde poi nell'infinito. Quel giovane, passando, stendeva la mano e strappava al nostro glicine, che già era sfiorito, una delle sue foglie. Anche Silvina stava a quell'ora dietro le persiane socchiuse della sua finestra a guardare. Ma io non pensavo che ella guardasse quel giovane. Pensavo che stesse là, come me, a fantasticare i suoi strani sogni, e che semplicemente lo vedesse passare.

Per un giorno solo, in tutto l'anno, questo tratto di strada che corre dalla nostra casa al paese, si riempie di popolo; non pare più di stare in campagna, ma nel sobborgo di una città; i mercanti girovaghi di tutta la provincia vi si fermano con i loro carretti, legano i cavalli magri e i loro ciuchi pelati agli alberi, piantano i loro banchi riparati da tende d'ogni colore, e si mettono a vendere come in tante botteghe. Vengono pasticcieri che filano zucchero bianco verde e rosa, e tagliano le caramelle con le forbici, e giocattolai che vendono giocattoli di legno e di latta, bambole di cartapesta in camicia, e sopratutto trombette e quegli strumenti a fiato che solo i contadini suonano e si chiamano «organini»; sotto ripari di frasche verdi, che poi ingialliscono al sole, si aprono spacci di vino, e in un campo si pianta un ballo pubblico, dove i bei giovani del paese e di tutti i dintorni, che portano fazzoletti di seta sgargianti intorno al collo e grandi ciuffi arricciati sulla fronte, intrecciano senza donne, fra loro, interminabili e sudate danze al suono di un violino o di un flauto.

 

Ora, eravamo alla vigilia di quel giorno, e, all'imbrunire, si stava tutti dinnanzi alla porta, a guardare gli operai che con lunghe scale appendevano lampioncini colorati a certi fili tesi attraverso la strada, quando s'udì la voce di mia madre, che dall'alto di una delle nostre finestre, esclamava soffocata:

– Ma che cos'è? Che cosa è stato?

Alzammo il capo e la vedemmo affacciata al davanzale, pallida, che guardava lontano, verso il fiume, dove noi non potevamo vedere nulla perchè la siepe ce lo impediva.

– Mio Dio! gridò mia madre. Poi si ritrasse dalla finestra, poi si riaffacciò, e mi disse, agitando le mani: – Corri, Paris! Silvina, Silvina è caduta…

Mi buttai attraverso la siepe e, correndo per il viottolo lungo il fosso, vidi finalmente Silvina che mi correva incontro, con le mani strette sul cuore, così pallida che mi fece paura. Ci incontrammo ed ella mi cadde fra le braccia, tremando, con gli occhi chiusi, il respiro soffocato, incapace di parlare. Il suo piccolo cuore batteva nella mia mano come se fosse nudo; i capelli, nella corsa, le si erano sciolti, e le cadevano sulle spalle come serpi d'oro. Con uno sforzo riaprì gli occhi e sospirò:

– Laggiù… Sull'argine… è caduto…

Allora guardai verso il fiume, vidi un cavallo libero che galoppava attraverso i prati, e subito lo riconobbi.

– Lasciami sedere sull'erba, mormorò Silvina.

La posai sull'erba e ripresi la mia corsa verso il fiume. Mio padre, seguito da altri uomini, apparve al di qua della siepe. Egli si fermò accanto a Silvina, e gli altri continuarono a correre dietro di me. Giunto in fondo al sentiero, là dove esso sale lungo l'argine, vidi quel giovane disteso immobile sulle pietre bianche del greto. Giaceva supino, le braccia aperte, la bella fronte macchiata di sangue rivolta al cielo che tutta l'illuminava.

– Presto! Presto! gridai spaventato. Portiamolo via di qui!

Lo prendemmo in quattro, lo sollevammo e incominciammo a portarlo. Non un gemito uscì dalle sue labbra. Il suo corpo era inanimato, e pesante della pesantezza che ha la morte. Quando giungemmo sulla strada, Silvina rientrava allora in casa, sostenuta da mio padre. Nemmeno si voltò.

Appena adagiato sul letto il ferito riaprì gli occhi, e li posò su mia madre, che con le mani gli teneva distesa sulla fronte una benda inzuppata d'aceto. A lungo le sue pupille estatiche, vaghe, stettero ferme su lei, che pure lo guardava con amore. Poi, richiuse le palpebre, si assopì. Mia madre annodò la benda intorno al suo capo, gli aggiustò i riccioli sulle tempie e dietro le orecchie, e ordinò a tutti di camminare in punta di piedi.

Fummo chiamati per il pranzo, ma il posto di Silvina rimase vuoto. Ella si era chiusa nella sua camera e non voleva mangiare. Uno per uno andammo a pregarla attraverso l'uscio, ma non rispose a nessuno. Quando mio padre l'aveva raccolta sull'erba, dove io l'avevo lasciata, Silvina piangeva. Il cavallo s'era imbizzarrito proprio passando accanto a lei, mentre ritornava per il sentiero a casa, dopo essere stata a cogliere fiori sull'argine. Il cavaliere era stato sbalzato di sella, s'era disteso senza un grido, e Silvina l'aveva creduto morto. Poi aveva temuto che il cavallo, galoppando per il sentiero, la travolgesse, si era messa a fuggire disperatamente, ed era anche caduta una volta, inciampando in un sasso. Allora l'aveva veduta mia madre dalla finestra, e fortunatamente noi avevamo potuto accorrere subito, soccorrere lei e il ferito. Ma Silvina, che nessuno aveva più veduto piangere da un pezzo, era stata presa da una crisi di singhiozzi, tanto era stato in lei lo spavento per quel tragico accidente. Mio padre era convinto di ciò che diceva, parlandone a tavola a noi tutti che lo ascoltavamo in silenzio.

Intanto fuori, lungo tutta la strada, avevano accesi i lampioncini di vetro bianco rosso e verde. E mentre la gente, andando da un mercante all'altro, incominciava appena ad alzare il tono della voce, e i ragazzi provavano le prime timide trombette e ridevano ai sibili ancora incerti delle lingue di Menelicche, le campane della chiesa maggiore, spalancando d'un tratto le loro gole sonore, soffocarono in un sol frastuono confuso e ondeggiante quei rumori, quelle voci, quei suoni ancora distinti e isolati. Allora chi volle salvarsi da quella sommersione dovette moltiplicare la voce. La strada si mise così in gara col campanile, e quando infine, stanco, il campanile tacque, la strada rimase piena di grida, di strombettii, di fischi assordanti, che da quel momento non si placarono se non a tarda notte.

III

Io ritornai a sedermi dinnanzi alla porta, sotto il glicine, ma il mio pensiero non poteva distaccarsi da quel giovane che ora riposava sotto il mio tetto, dopo essere scampato miracolosamente alla morte. Lo rivedevo, con un brivido, disteso sulle pietre nude del fiume, mentre il suo irlandese impazzito caracollava solo per la campagna. La sua fronte macchiata di sangue riappariva continuamente, rossa, dinnanzi ai miei occhi. Allora non c'era stata ancora la guerra, e nessuno di noi aveva imparato a considerare con rassegnazione prima, poi con indifferenza le più crudeli immagini della morte, a pesare il dolore sul palmo della mano, come fa Amleto con il teschio di Yorik. Io ragionavo fra me della sorte che ci incombe, e come essa colpisca sempre con rapidità fulminea: improvvisa e inevitabile. Poi ragionavo anche del fatto che la morte sarebbe poca cosa, e forse per nulla orribile, se ad essa sopravvivessero le passioni dell'uomo; le sue speranze, i suoi sogni, cioè il suo spirito, il suo pensiero, la sua volontà, e tutto ciò fosse sensibile ancora e vitale dopo la morte.

Poi rivedevo Silvina, e veramente un'immagine fino allora sconosciuta di Silvina, allorchè s'era abbattuta fra le mie braccia tremante, pallida, e avevo sentito quanto fosse lieve il peso del suo corpicino, quanto fosse fragile la sua volontà che per la prima volta l'abbandonava, quel dominio di sè medesima che io non le avevo mai veduto smarrire, neppure per un istante, prima d'allora. Ma in quel momento il suo orgoglio l'aveva abbandonata d'un tratto. Aveva parlato con voce supplichevole, guardato me con tenerezza, atterrita per quel poco sangue che aveva rigato di rosso la fronte d'uno sconosciuto. Mentre correva tenendo le mani premute sul cuore, in quell'atteggiamento così doloroso e appassionato, il suo bell'abito scuro si agitava leggiero intorno alle sue gambe. Eppure ella aveva perduta ogni leggerezza, e quella corsa non somigliava affatto ad un volo.

Quest'immagine nuova di Silvina io l'accarezzavo struggendomi di tenerezza per lei, abbandonandomi a un senso vago di felicità, come se mi si fossero aperte improvvisamente le porte del suo cuore, che erano prima chiuse per me come per tutti gli altri. Ma nello stesso tempo io pensavo con tristezza che, purtroppo, se soltanto avessi tentato allora di avvicinarmi a lei con una carezza, chiedendole, in nome di quel momento di debolezza, di accogliermi nella sua intimità con amore, con confidenza di sorella, ella, ormai ridivenuta la Silvina d'ogni giorno, certamente mi avrebbe respinto con un sorriso ironico, forse anche con parole umilianti. E forse, adirata contro sè stessa per quello smarrimento d'un attimo, se ne sarebbe vendicata con crudeltà sopra di me, innocente.

Mi stupivano gli occhi delle ragazze che, passandomi dinnanzi a gruppi nella strada affollata, mi guardavano sorridendo. Mi stupivano i ragazzi che, vedendomi assorto, mi saettavano nelle orecchie le loro lingue sibilanti di carta, e poichè nè mi muovevo, nè mi mostravo adirato, nè li guardavo, non la finivano più, eccitati dalla mia indifferenza. Come la vita doveva essere facile per tutti, in quella sera di festa! Forse Silvina stessa, nascosta come sempre dietro le persiane della sua finestra, guardava curiosamente la gente passare, obliosa ormai delle lacrime di poco fa.

Presi la mia sedia e rientrai in casa. Senza salutare nessuno, posando appena un bacio silenzioso sulla fronte di mia madre, salii le scale, e, affacciatomi un momento alla stanza dove il ferito riposava, vidi al lume giallo di una veilleuse il suo respiro calmo nel sonno. Appunto nel corridoio, tra la sua stanza e la mia, raccolsi quel foglietto di carta ripiegato nel quale lessi la seguente lettera:

«Piccola prigioniera,

«io non sono che uno sconosciuto per voi: ho un nome oscuro e nessun potere in questo mondo, fuorchè quello della mia libertà. Questa libertà è tuttavia un potere estremamente incerto; ed io stesso non so come esercitarlo.

«Voi mi vedete passare ogni sera dinnanzi alla vostra casa ed io guardo su, dove siete quasi sempre affacciata. Avrete notato che spesso, per indugiare un istante sotto le vostre finestre, strappo un fiore o una foglia ai festoni di glicine che ricadono dalla veranda. Allora, mentre i miei occhi possono posarsi un poco più a lungo sulla vostra persona, penso che forse per voi la libertà è un sogno, e che a chi ve la offrisse in dono, la libertà, forse sapreste insegnare in che modo goderne.

«Vorrei chiedervi: c'è qualche cosa che veramente vi seduce oltre il limite della vostra vita presente? Chi fosse pronto a condurvi lontano, nel vasto mondo, lo accettereste voi per compagno? E sapreste trovare per questo compagno di libertà tanta luce per guardarlo con amore? Curiose domande, lo so bene, con le quali rischio di perdervi per sempre, voi che già mi siete più cara della vita! Ma se le mie parole non vi sembrano vane, abbiate la bontà di portare un fiore rosso alla cintura, ritornando domani in quello stesso luogo dove il caso vorrà che io possa lasciar cadere ai vostri piedi questa mia prima lettera.

Silvio».

Questa lettera non portava data alcuna. Io m'era chiuso in camera mia, e, lette le ultime parole, caddi in uno stato di meditazione fantastica dalla quale non mi riebbi che molto tempo dopo. – E ora, pensai ripiegando quel foglio, che cosa debbo fare? Chi ha smarrito questa lettera? Silvio o Silvina? E pensai: – Oggi non le ho veduto nessun fiore rosso alla cintura.

Procedevo senza logica, con ragionamenti saltuari, perchè la commozione era così grande in me che io non sapevo dare un ordine ai miei pensieri. Se mi fossi abbandonato al mio cuore avrei pianto dirottamente. – Innamorata, pensavo, lei, Silvina! Uno che passa potrà dunque portarsela via, lei così debole, piccola creatura capricciosa che si crede tanto forte! Uno qualunque, soltanto perchè veste con eleganza, e cavalca un bel cavallo irlandese, e ha un viso pallido e riccioli neri, potrà portarsela chi sa dove lontano di qui. E lei che non guarda con amore nessuno, nemmeno la mamma, nemmeno me che l'adoro, nemmeno suo padre che si farebbe uccidere per lei, guarderà con amore lui solo, questo sconosciuto, questo vagheggino che non è nulla per nessuno, che non sarà mai nulla per noi! Gualcii rabbiosamente la lettera che tenevo ripiegata fra le mani e gridai: – Stupida lettera, piena soltanto di sciocche frasi, di lusinghe ridicole! Maledetta! Dovevo proprio io raccoglierti! Dovevi cadere nelle mie mani! Poi pensavo che forse il caso non era stato tanto infame, perchè meglio nelle mie mani, quella lettera, che nelle mani di mia madre, o nelle mani di mio padre, o di qualunque delle mie sorelle. Infine mi fermai su questa vaga speranza: che essa fosse caduta dagli abiti di Silvio mentre lo trasportavano e che Silvina non ne sapesse assolutamente nulla.

Allora considerai con più benevolenza quel giovane e anche con una leggera punta d'ironia, perchè pensai: – Eccoci tutti uguali, noi di questa maledetta generazione, capaci di suscitare gigantesche illusioni dalle minime cose! Che cosa spera costui da Silvina? Si offre come un salvatore, ma chiede aiuto. A chi? A Silvina. E perchè? Perchè lo ha guardato con quei suoi occhi gelidi, con cui guarda tutte le cose. Il mondo non gli sembrava abbastanza vasto per i suoi sogni ambiziosi, e d'un tratto ha scoperto che questo mondo immenso e piccolissimo è tutto in suo potere, di lei quando si degnerà di sorridere. Stupido ragazzo! Se tu avessi sofferto come me, e sperimentato come me il sorriso d'una donna, che specie di felicità s'irradi da due occhi che ti guardano con amore, altro che fidarti nell'aiuto di Silvina! Povera piccola! Così stupida, in fondo, anche lei! Silvina! In fondo, nemmeno una donna…