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Il perduto amore

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XII

A traverso le tende semichiuse filtrava una luce scolorata e falsa: era come una mano fredda che mi sfiorasse le palpebre. Stavo disteso sul letto, con gli occhi socchiusi, senza muovermi. Quella luce non mi cagionava nessuna maraviglia, nè il fatto di esser disteso sul letto, vestito, nè il fatto di esser desto, nè le rose gialle e spampanate sulle pareti con certi lor gambi intrecciati e irti di spine, nè gli abiti appesi in un angolo come impiccati. Bensì cercavo di spiegarmi che cosa fosse una macchia nera che vedevo a piè del letto, un groviglio nero da cui uscivano, non si sa come, due, due mani… Sì… Vedevo che erano due mani, due mani lunghe e pelose, con strani luccichii sulle dita; e la loro positura era così stravagante che ora pareva chiedessero un'elemosina e ora offrissero un'invisibile offerta, e ora non offrissero e non chiedessero nulla, ma fossero là, abbandonate e senza vita, estranee a qualunque corpo di uomo di donna. Immobilità. Ed io non riuscivo a comprendere. In quel viluppo nero, vicino a quelle mani, si scorgeva anche una macchia rossiccia, come un involto di carta rossa: la testa fulva di Sterpoli. Ma proprio non riuscivo a trovare un cominciamento in quel garbuglio di cose, non una fine, e nemmeno un ordine qualsiasi che me ne spiegasse la natura. Sapevo che avrei potuto alzarmi e toccare, frugare, trovare ciò che cercavo. Ma mi pareva di non potermi muovere senza turbare la gran pace che, coricato, riposava con me. E poi c'era qualche cosa, non so quale, che continuamente mi distraeva e mi svagava, deviando i miei sensi mal desti. Ora erano gli abiti appesi al muro, quelle gambe e quelle braccia vuote e pendule, quelle ridicole membra di stracci; ora una rosa purpurea che vedevo sul mio petto e che pareva una bella macchia di sangue. Che cos'era quella rosa? Chi me l'aveva appuntata sul petto? O meglio: chi mi aveva fatto quella bella ferita? Ecco: io non riuscivo a comprendere, e di nuovo i miei occhi si posavano su quel mucchio di cose immobili a piè del letto, su quella macchia fulva, e su quelle mani, su quelle due mani abbandonate. Una voce interna mi diceva: – Tu devi esser felice. Ed io, con la stessa voce, rispondevo: – Sono, sono felice. E ancora: – Tu volevi morire. Ed io: – Sì, è vero, volevo morire. E c'era un nodo stretto nel mio cervello, che non si voleva sciogliere; c'era un fiore chiuso che non si voleva aprire; intorno al quale i miei pensieri vaghi, incerti, s'aggiravano come farfalle…

Così vissi. A lungo, a lungo, nere farfalle si aggirarono intorno a quel fiore chiuso.

PARTE SECONDA
Come finì la collana

Se io non avessi scritto soltanto per alleggerire il peso dell'anima mia la pietosa storia di Daria, ma mi fossi lasciato andare a pubblicarla sotto forma di racconto, come tanti fanno oggidì, che invitano nella loro intimità il maggior numero di persone ad udire i piccoli casi della loro vita, più di un lettore si sarebbe domandato dove mai fosse andata a finire quella collana, adorna di uno smeraldo, che Daria gettò in viso a Sterpoli quando affrontò Clauss all'Alhambra, la sera prima della sua morte. Capisco anche che a molti altri l'omissione di questo particolare sarebbe passata inosservata; tanto più che oggi la moda vuole che l'arte del romanzo e della novella sia trattata sinteticamente, a grandi linee, tutta stretta intorno alle cose essenziali e necessarie, senza quel cumulo di descrizioni minute e di inutili particolarità che usavano i romanzieri d'un tempo, quando gli uomini non avevano la fretta che hanno adesso e l'arte narrativa non aveva dato ancora tanti grandi scrittori. Ma per me, la fine di quella collana dallo smeraldo ha un'importanza grandissima, e non posso assolutamente passare sotto silenzio la sua breve storia.

***

Quando Daria si strappò dal collo quella collana e la scagliò con ira contro Clauss, colpendo invece Sterpoli in pieno viso, la collana cadde ai piedi di Sterpoli tra molti cuscini disseminati sopra il tappeto, e là rimase, dimenticata da tutti. Chi volete che pensasse a quel gioiello, per quanto esso fosse prezioso, quando ora sappiamo fino a che punto tutti noi, presenti a quella scena, fossimo intimamente sconvolti, e più di ogni altro Clauss, il quale pure all'apparenza sembrava conservare intera la padronanza di sè medesimo? Sterpoli certo non si curvò a raccoglierlo, mezzo acciecato com'era, e poi non ne ebbe il tempo, perchè se ne fuggì ad inseguire Daria, come abbiamo veduto. Clauss non lo raccolse egualmente, perchè egli avrebbe dato uno smeraldo mille volte più grosso e luminoso di quello per un bacio di Daria, e certo non importava nulla a lui di sapere chi lo avrebbe raccolto e chi se ne sarebbe impadronito. Io non lo raccolsi, perchè dimenticai subito che la collana fosse caduta fra quei cuscini, mentre più d'ogni altro l'avevo ammirata sul candore niveo della gola di Daria. Poi Clauss ed io ce ne eravamo andati, lasciando gli altri ancora seduti sui divani, e gli avvenimenti che seguirono la notte e il giorno dopo ci condussero pur troppo lontani dal ricordo di quel disgraziato gioiello. Quelli che rimasero dopo la nostra partenza avrebbero ben potuto ricordarsene, non solo perchè dovevano essere molto più calmi di noi, ma perchè, discorrendo ancora a lungo tra loro della scena che s'era svolta sotto i loro occhi, avrebbero dovuto anche soltanto incidentalmente parlare della collana e quindi pensare di raccoglierla. Sta di fatto che assai tardi, a notte molto inoltrata, quei giovani chiesero i loro pastrani e le loro tube al guardarobiere, e se ne andarono facendo pronostici sulle possibili conseguenze dell'avvenimento che s'era prodotto quella sera. E la collana rimase fra i cuscini, là dove era caduta.

***

È vero che quella notte, fantasticando di Daria, la sua immagine non m'apparve mai disgiunta dallo splendore magico dello smeraldo che avevo veduto brillare sulla nudità del suo collo. Quella pietra preziosa era per me quasi un attributo della sua bellezza, come i suoi occhi oltremarini, come le vene azzurre delle sue tempie, come il rosso crudo di cui ardevano le sue labbra. Anche più tardi, quando il delirio che per intere settimane mi tenne sospeso tra vita e morte finalmente si placò, l'immagine di Daria mi riapparve nella precisione lucida del primo ricordo con quello smeraldo verdissimo sospeso alla gola. Nel delirio non l'aveva mai abbandonata. Vedevo colori meravigliosi, e sopratutto il sangue, di cui tutte le cose mi apparivano macchiate e grondanti, era d'un rosso paragonabile soltanto al fuoco e ai tramonti d'estate. Ma il verde di quella gemma vinceva in splendore, in violenza, in bellezza ogni altro colore, nelle mille strane forme che assumeva nell'incubo. Ora era un lago verde, nella cui trasparenza guizzavano pesci di madreperla, di ambra e di corallo, dal cui fondo sorgevano ondeggiando foreste d'alghe e di piante d'ogni varietà di verde; e su quelle piante sbocciavano fiori enormi, bianchi e neri, che poi si distaccavano dai rami e salivano a galleggiare sull'acqua come meduse. Ora invece era una verde pupilla che s'apriva improvvisa in un cielo buio, e da essa scendeva un raggio verde diritto come dalla pupilla di un dio, fluido, abbagliante, che dove si posava divampavano altissimi incendi, serpeggiavano guizzando fiamme verdi, e intere città con torri e castelli erano avvolte da un alone livido fosforescente, e subito incenerite. Le loro rovine formavano poi alte montagne di verdi tizzi ardenti.

Ma la collana di Daria, chiusa nella buia mano di un miserabile rigattiere, non mandava più alcuno splendore. Un ragazzo, la mattina che seguì quella notte memoranda, spazzando, l'aveva trovata là dove era stata abbandonata da tutti, e senza neppure il tempo di fiatare, se l'era cacciata nella più nascosta tasca dei suoi calzoni, tutti rattoppati davanti e di dietro. Anzi quella tasca segreta altro non era che una delle tante toppe dei suoi calzoni, nella quale il furbo ragazzo aveva fatto un buco. Quel ragazzo si chiamava Bombita, e suo padre era un facchino. All'Alhambra esercitava il nobile mestiere di sguattero, in attesa di vestire una livrea gallonata e di essere promosso ruffiano. Quella mattina Bombita, che era d'umor taciturno e usava di solito accompagnare l'andirivieni della sua scopa con dispettosi grugniti, l'udirono invece cantare, con una bella voce di mezzo soprano, una delle tante canzoni che là dentro sapevano anche i muri. – Guarda, disse il maestro di casa che in maniche di camicia lustrava le maniglie alle porte, nella testa di Bombita è nato un gallo! Nella testa di Bombita poteva essere nato non soltanto un gallo, ma financo un asino, perchè era non solo rotonda come un uovo, ma grossa come una zucca. Quel ragazzo era rachitico, si può dire che fosse tutta testa; sulla testa cresceva poi un arruffio di capelli gialli come la stoppa, e il suo viso era tutto macchiato di lentiggini. I suoi occhi piccini piccini sembravano anch'essi due macchie un poco più rosse delle altre, e non c'era caso che ti guardassero in faccia. Ma non era nato, no, un gallo nella testa di Bombita. Lo sapeva bene lui, che cosa gli fosse nato sotto i piedi, quella mattina, per cantare così.

***

A mezzodì Bombita si slacciò il grembiule e lo buttò in un angolo. Ma i calzoni se li tenne addosso, e, senza voltarsi indietro, infilò l'uscio e se ne andò dove era atteso a quell'ora, e cioè al mercato dei pesci, sulla banchina nuova del porto. Come ogni giorno, ad ogni angolo di strada incontrava un amico, tutti in giro allo scoccare di mezzodì per importanti affari d'appetito. Ma Bombita camminava con la testa alta, i capelli al vento, le mani in tasca, a passi da granatiere, e non si degnava di guardare in faccia nessuno di quanti incontrava lungo la via. Il mercato era semi deserto, perchè a quell'ora chi aveva voglia di pesce lo andava a cercare nelle casseruole piene di salse profumate, o nelle padelle dove stava guizzando più che vivo tra gli scoppi e i sibili dell'olio bollente, anzichè nelle ceste umide e algose dei pescivendoli, a pesarlo morto sulle loro puzzolenti bilance. Le navi ormeggiate alla banchina dondolavano i loro alti alberi alla brezza lieve di levante, e sul ponte fumavano i fornelli dei marinai, che, sdraiati sui sacchi e per i mucchi di gomene arrotolate, guardavano sonnecchiando la poca gente passare in fretta lungo il molo. I cani randagi facevano allora le pulizie del mercato, pronti a cedere la più bella collana di smeraldi per una lisca di triglia. Ma Bombita non li guardò neppure, quei suoi modesti colleghi, e tirò via verso una barca tirata a secco dietro il casotto dei doganieri, dove era aspettato da Egle. Egle, la figlia del pescatore, aveva tredici anni, mentre Bombita non ne aveva che dodici. Era una bambina rotonda come una palla, due gote rosse come due mele, e un par d'occhi che parevan fatti con due scaglie di vetro nero. I suoi capelli erano crespi come la lana e opachi, corti e arruffati, e legati dietro in una treccia così grossa e sgraziata che somigliava la coda mozza di un cane.

 

Egle stava seduta sotto la barca e sgranocchiava tranquillamente una crosta di pane, quando Bombita le si parò dinnanzi con quell'aria fiera che si conviene ad un vero conquistatore. Egli si lasciò andare di peso a sedere accanto a lei, e ridendo silenziosamente le dette una gomitata nel fianco.

– Stupido! – disse Egle. – Non sai fare altro che dar gomitate tu! Guarda Andromaco piuttosto come fa con Rosina. Guarda che bel nastro d'oro porta alla cintola! Quello glielo ha regalato Andromaco.

Bombita strizzava gli occhi, e, guardando Egle, rideva silenziosamente, e batteva il pugno sul ginocchio dove sentiva il duro dello smeraldo. Lo zuccone che soffriva terribilmente di gelosia, e sempre, solo a nominargli Andromaco o Ninotto, copriva Egle di sputi, questa volta si contentò di darle tre pizzicotti nella schiena a denti stretti e schizzando gli occhi dalle orbite. Ma stette muto, e poi ricominciò a sorridere. Egle fece la faccia da lacrime, cercò di tastarsi la schiena dove i pizzicotti le bruciavano, poi mostrò un palmo di lingua all'amico e con disprezzo disse:

– Se non la finisci, me ne vado e non mi vedi mai più…

Buttò in mare quell'avanzo di crosta di pane che teneva in mano, voltò le spalle a Bombita, e, puntati i gomiti sulle ginocchia e il mento sui pugni chiusi, guardò verso le barche che si dondolavano sull'acqua.

– Sei come tuo padre, tale e quale, disse con voce agra, senza nè muoversi nè voltarsi, come se parlasse al vento, che tutti dicono che altro che di bastonate non ha mai nutrito nè te nè tua madre. Almeno mi dicessi dov'è quell'anello che mi avevi promesso, e ne parlavi sempre, quando facevo all'amore con Tristano, e non ne volevo sapere di piantarlo per fare all'amore con te. Se lo saranno mangiato i pesci!

E mentre Egle parlava voltandogli la schiena, Bombita, ficcato il dito nel buco della sua toppa, ne aveva tirato fuori a poco a poco la collana, finchè era venuto alla luce lo smeraldo che il sole d'un tratto riempì di scintille abbaglianti. Poi, curvandosi appena, l'aveva con due dita tenuta sospesa sul capo di Egle, e a poco a poco, abbassando il braccio, gliela calò sul naso, finchè Egle la vide e ammutolì. Vide bene, Egle, che era una bella collana con una bella pietra verde tutta piena di verdi sfavillii; ma non la toccò, e, abbassato il capo, stette silenziosa e imbronciata a raspare con le unghie la terra tra i selci. Poi, vedendo con la coda dell'occhio che quella collana continuava a ciondolare all'altezza della sua fronte, con un gesto improvviso la strappò dalla mano di Bombita e se la nascose in grembo.

Bombita non parlò, non cercò che Egle si voltasse a guardarlo e a sorridergli, non aspettò nemmeno che lo ringraziasse, considerando quanto egli fosse più generoso e grande di Andromaco ed ella più fortunata di Rosina. Aveva appetito. Si alzò, e se ne andò di corsa, sicuro che Egle lo avrebbe aspettato anche un anno intiero là, seduta sotto la barca. Ma, mangiata alla svelta la zuppa, sarebbe ritornato fra un'ora.

***

Egle, rimasta sola, allargò le ginocchia e guardò la collana dallo smeraldo che le stava ammucchiata in grembo. Non ebbe neppure un piccolo pensiero di gratitudine per Bombita, e poichè certamente una collana così bella costava più di sette soldi, forse dieci e anche venti, ella giudicò che Bombita doveva averla vinta ai giardini pubblici, giocando al giuoco della campana con qualche ragazzo signore ancora più stupido di lui. La prese fra le dita e incominciò a intrecciarla in mille modi, e spesso, allontanando da sè la mano e tenendola aperta contro il sole, guardava le belle luci di quella pietra verde che splendeva di mille luci diverse. Certo che cosa era il nastro dorato di Rosina in confronto di quella bella collana? Chi sa quanto tutte le sue rivali l'avrebbero invidiata, vedendola apparire nella corte con quello splendore al collo, e come si sarebbero consumate di rabbia perchè non ne avevano una che potesse valere quanto quella! Rosina avrebbe picchiato Andromaco, e forse Andromaco, stanco di buscarne da quella brutta civetta, si sarebbe deciso a fare all'amore con lei. Egle aveva posato lo smeraldo dinnanzi a sè sopra un sasso, perchè il sole lo illuminasse in pieno. Ella guardava l'acqua verde che ondeggiava sotto i fianchi delle navi e pensava che la pietra della collana era proprio verde come una goccia di quell'acqua.

Anche Porfirio guardava, appoggiato a una mezza botte, certi pescatori che risciacquavano le loro reti tutte piene d'erbe marine, e, vedendole gocciolare contro il sole d'oro, pensava quanto egli sarebbe stato ricco e felice se avesse conosciuto il segreto per trasformare quelle gocciole iridescenti in tante belle pietre preziose. Ma nel suo sacco, che stava posato floscio ai suoi piedi, non c'erano che stracci e un vecchio orologio a pendolo che da un pezzo aveva cessato di segnare il tempo. Anche Porfirio era vecchio come quell'orologio, e il suo cuore aveva da un pezzo cessato di battere al semplice richiamo delle illusioni. Era stato giovane come tutti gli uomini, e anche lui aveva avuto i suoi sogni. Ma quanto quei giorni felici erano ormai lontani! C'è chi sogna una donna amata, c'è chi sogna la gloria, c'è chi sogna la ricchezza, tesori nascosti, colpi di fortuna, eredità favolose, affari indovinati. Il sogno costante di Porfirio, durante tutta la sua vita, finchè la vecchiaia non aveva steso un velo opaco sulla sua immaginazione, era stato quello di trovare a un angolo di strada, camminando camminando, come faceva lui, da mattina a sera, di porta in porta, con il suo sacco in spalla e gli occhi bassi, qualche cosa di molto prezioso, che non gli costasse assolutamente nulla, perchè era roba trovata, e che, rivendendola, egli potesse ricavarne tutto guadagno.

Fra sè, il vecchio meditava sulla sua sfortuna, mentre quei pescatori, risciacquando le loro reti, pescavano le false gemme del mare. Il suo tubino calato sulla fronte, il naso arcigno, la pipa corta spenta fra i denti, la barba bianchiccia che gli pioveva giù dal mento sulla vecchia palandrana verde, stava fermo come una statua, incantato dalle magiche luci che saltavano sull'acqua. Ma quando alfine si riscosse, come se improvvisamente al vecchio orologio chiuso nel suo sacco fosse scoccata l'ora fatale, i suoi occhi furono attratti da ben altra visione. Accanto a lui era posata a secco una barca, mezzo rovesciata, con larghi squarci nel ventre e tutta spalmata di nero catrame. Ma di sotto quella barca spuntavano due piccole mani di bambina che giocavano con una pietra verde, simile a una di quelle scheggie di vetro verde, levigate dal mare, che si raccolgono lungo le spiagge. Senonchè quella pietra sprigionava lampi meravigliosi, come avrebbe fatto un vero smeraldo, tanto che al confronto l'acqua verde del mare pareva pallida e opaca. – Vecchia sgualdrina, pensò Porfirio indirizzandosi alla fortuna, quando finirai di tentarmi con i tuoi falsi miraggi? E, dato di piglio al sacco, sputò e fece due passi per andarsene lontano da quel luogo pieno di supplizi.

***

Ma, fatti due passi, Porfirio si voltò. Egli non sapeva distaccarsi di là nel dubbio che quel falso smeraldo potesse essere invece uno smeraldo vero. Quanti non tradirono così la fortuna, proprio per averla disprezzata quell'unica volta ch'essa era realmente a portata della loro mano! E Porfirio, perplesso, non sapeva distogliere gli occhi da quella pietra verde che ora, posata sopra un sasso, splendeva ferma al sole; e avrebbe pagato non si sa quanto per sapere con certezza se era un pezzo di vetro verde oppure un vero smeraldo.

Egle intanto era già stanca di quella collana; già non le piaceva più. Poichè certo quella collana, con quella pietra così verde, era una bella collana; ma il nastro d'oro di Rosina era pure un bel nastro; e, come nastro, era senza dubbio tanto bello quanto la sua collana. Egle sarebbe stata mille volte più felice se invece della collana avesse potuto mostrare a Rosina un nastro dorato che fosse più bello del suo. Allora certamente Rosina sarebbe stata umiliata e non avrebbe più portato il nastro di Andromaco come se fosse il più bel nastro dell'universo.

Quando Porfirio, apparendo improvvisamente di dietro la barca, si fermò dinnanzi a lei, e le domandò: – Bambina, che cos'è quella pietra verde che ci giuochi? Egle lo guardò senza paura e rispose: – È una collana, non la vedi? E quando Porfirio, con la voce più buona del mondo e sorridendo amorevole, le disse: – Ah! come faccio a vederla se sono mezzo cieco? Dammela un momento che guardo che razza di vetro è quello… – Egle gliela porse tranquillamente, e si mise a grattar la terra con un sasso.

Porfirio accostò gli occhi allo smeraldo e lo scrutò per ogni verso, lo palpò col polpastrello di ogni dito, lo pesò sul palmo della mano e si mise a ridere. – Scommetto, disse, che l'hai pagato più di quattro soldi. Egle lo guardò con disprezzo e rispose pronta: – Quattro soldi? Più di venti, ne costa… – Per Dio! esclamò Porfirio, più di venti soldi? Se erano soltanto quindici, te lo ricompravo io.

Egle abbassò il capo. Quindici soldi! Forse con quindici soldi, forse anche soltanto con dieci, avrebbe potuto comprare un bel pezzo di nastro d'oro, più bello, più largo, più ricco del nastro che Andromaco aveva regalato a Rosina. Nella vetrina d'una bottega di merciaio, ne aveva veduti dei gomitoli immensi, tutti d'oro, oppure d'oro e argento intrecciati, che erano nastri non mai veduti altrove. Quindici soldi valevano forse quindici volte più di quella collana, che non aveva di bello se non quella pietra verde!

Porfirio sentiva il suo vecchio cuore scoppiare, e di sotto il tubino nero gli gocciolava sulla fronte un sudor freddo. Quello era proprio un vero smeraldo. Ma come la fortuna gli si mostrava fino all'ultimo avara! Quella stupida bambina lo aveva certamente trovato per via, e mentiva quando diceva d'averlo pagato più di venti soldi. Ma lui, Porfirio, nella migliore ipotesi, per averlo, avrebbe ora dovuto pagare almeno quindici soldi, anche se la bambina non ne avesse pretesi ad ogni costo venti. E così la sua gioia non sarebbe stata neppure quella volta piena ed intera.

Allora Porfirio afferrò il suo sacco per il collo, lo squassò e lo sbatacchiò per terra. Il vecchio orologio, risvegliato da quell'imprevisto sconquasso, digrignò i denti di tutte le sue ruote arrugginite e incominciò a battere come un tamburo. E Porfirio, spalancando gli occhi e soffiandosi furiosamente nella barba, disse con voce cupa:

– Bambina, lo vedi questo sacco? Lo senti questo tamburo che suona là in fondo? Questo è il sacco nero dove sta chiuso l'uomo nero, e questo tamburo è la pancia dell'uomo nero che ha fame di bambine vanitose e cattive che portano collane con una pietra verde. Ora guardalo che salta fuori e ti si mangia tutta in un boccone!

Quando Porfirio ebbe pronunciate queste spaventose parole, l'orologio nel sacco, stanco, si era già riaddormentato. Ma Egle coi capelli ritti fuggiva ancora gridando: – Mamma, mamma! e Porfirio non la rivide mai più.

***

Porfirio aveva la sua bottega in un vicolo triste dove non risplendeva mai raggio di sole. Era una stanzina umida piena di luridi stracci, di vecchi orologi, di scarpe sfondate, di ferramenta rugginose e di bottiglie vuote. Una bilancia stava appesa a un chiodo. In fondo, tra gli altri stracci, c'erano quelli che gli servivano da letto. Quando Porfirio si fu chiuso nella sua bottega e, acceso un moccolo di candela, aprì finalmente le dita che stringevano la bella collana di Daria, sembrò al vecchio che quelle nere pareti, tutte coperte di ragnatele, si illuminassero di una luce stupenda, come se per il tetto scoperchiato vi fosse piovuta dentro la luna in una notte serena. Ora egli poteva godere liberamente di quello splendore magico, inebbriarsene, e magari piangere di contentezza al pensiero che quello smeraldo era suo, assolutamente suo, e che non gli costava nemmeno un soldo. Sentiva, Porfirio, di non aver vissuto invano tanti anni ingrati a vuotare i guardarobe dei poveri, a frugare nelle immondezze, a raccogliere i rifiuti dei morti, se poi, in fondo a tanta miseria, doveva splendere per lui quello smeraldo meraviglioso che vinceva in fulgore la luce stessa del sole. Dio l'aveva infine premiato!

 

Porfirio non volle mostrarsi da meno del suo sublime benefattore, e quando il pensiero della Divina Provvidenza balenò alla sua mente eccitata, subito egli cadde in ginocchio; e senza staccare gli occhi dallo smeraldo che la fiamma tremula della candela illuminava in tutto il suo splendore, egli pregò a lungo, umilmente e in silenzio. Chi lo avesse veduto allora avrebbe pensato ciò che tutti falsamente pensano degli avari, e cioè che egli adorasse in ginocchio quello smeraldo. In realtà nello smeraldo di Daria Porfirio adorava unicamente Iddio. Poi si levò, e volle che una giornata tanto memoranda non avesse altro seguito. Se fosse stato un nume, avrebbe comandato al sole di anticipare il tramonto. Non essendo che un povero rigattiere, fece la notte per conto proprio, spense il moccolo, e stringendosi al cuore quella collana tanto amata, si coricò, per dormire, nel suo lettuccio di stracci. Ma il sonno non fu così ubbidiente come egli avrebbe voluto. I suoi occhi non potevano addormentarsi, come accade quando, in estate, coricati sotto un verde albero, un raggio di sole, attraverso il folto fogliame, cade a piombo sulle vostre palpebre chiuse. Quella luce che feriva gli occhi chiusi di Porfirio era un raggio verde smeraldo.

Alfine, senza accorgersene, egli si addormentò, e sognò tutta la notte, ma di quei sogni non conservò, al ridestarsi, alcun preciso ricordo. Appena riaperti gli occhi, egli si sentì felice. Ma prima di afferrare la ragione di quella felicità gli abbisognò di ricercarla a fatica per più d'un minuto. Quando l'ebbe afferrata, se ne rallegrò vivamente. Ma avendo già pagato il suo tributo d'entusiasmo alla propizia fortuna, tenne spenti i fuochi di fantasia e chiamò invece a raccolta le idee pratiche. Il grande affare di Porfirio in quel giorno e per molti giorni successivi, fu di cercare per le cantonate se qualcuno avesse perduta una collana con uno smeraldo e facesse appello all'onestà di chi l'aveva trovata per ricuperarla con la promessa di un premio. Porfirio si sentiva sicuramente superiore a un'onestà che per manifestarsi aveva bisogno di così fatte lusinghe. Ma avrebbe volentieri letto un manifesto concernente lo smarrimento di quella collana poichè quella collana poteva esser stata smarrita, ma poteva anche essere stata rubata; e Porfirio aveva fretta di risolvere con certezza questo dubbio grave, per sapere in che modo comportarsi nel commercio che pensava di farne.

Ma nessuno fece ricerche della collana di Daria. I muri delle case non suggerirono nulla a Porfirio, e Porfirio dovette affidarsi alla propria prudenza, che era in tutto degna di un savio suo pari. Egli dunque continuò a commerciare in stracci e in bottiglie usate, girovagando di porta in porta con il suo vecchio sacco sulle spalle, il tubino unto calato sugli occhi, e in tutti i suoi atti la solita modestia e semplicità. Il suo tesoro lo portava annodato in un fazzoletto e sepolto in una tasca misteriosa che s'apriva nella fodera della sua palandrana. Come tutti gli eroi, egli aspettava pazientemente la sua ora. Quando vedeva una bambina con un vestito scozzese, senza affrettare il passo imbucava la prima porta che gli si parava dinnanzi o voltava l'angolo della prima strada. Con un gesto naturalissimo si calava ancora più sul naso le falde del cappello, e così procedeva fiducioso che la sorte non avrebbe disfatto ciò che aveva fatto una volta. Ma una mattina, mentre avrebbe dovuto svegliarsi con il pensiero deciso di affrontare finalmente l'inevitabile quanto sospirata conclusione di quella strana avventura, il vecchio Porfirio non si svegliò. Un rigattiere suo concorrente gli chiuse gli occhi, che pur senza svegliarsi si erano aperti. Ed è importante sapere che egli fu seppellito nudo in una cassa d'abete.

***

L'autunno era trascorso: incominciò il grigio inverno. Io allora mi aggiravo per la mia casa, pallido come un morto, appoggiandomi ad un bastone, cercando a poco a poco di riconoscere le cose alle quali avevo già detto addio quando credevo che non le avrei più rivedute. La mia febbre era durata molte settimane, e quando alfine mi ridestai dal suo sonno malefico, tutti mi dissero che io, più d'una volta, avevo varcata d'un passo la soglia dell'al di là. Ma sempre il peso vivo dei miei vent'anni m'aveva tirato indietro, ed ero infine rimasto con quanti ad ogni costo volevano che non me ne andassi da quello che, per ironia, si chiama il banchetto della vita.

La stagione era triste, grigia, piovosa. Io non potevo arrischiarmi nè al vento, nè alla pioggia, nè all'aria gelida di novembre. Dalla finestra dietro la quale rimanevo per lunghe ore seduto, vedevo le colline deserte e squallide, i campi grigi, il bosco tutto giallo e nudo. Se dal cielo sempre nuvoloso un povero raggio di sole per un momento appena illuminava quel paesaggio invernale, si accendeva qua e là, sorridente, qualche raro cespuglio ancor verde, come una speranza subito soffocata di primavera. Il cielo non aveva più luna, non più stelle. Perciò quella stagione era senza notti. Era tuttavia piena di tenebre, che calavano assai presto e duravano a lungo, e costringevano tutte le cose ad una dolorosa cecità. Allora io mi rifugiavo accanto al fuoco, e l'immagine di Daria, quella di Clauss, quella di Sterpoli, disgraziato, mi visitavano, e si sedevano al mio fianco, rimanendo là mute ed immobili finchè io con uno sforzo non le mandavo via. Ma non appena se ne erano andate, bastava che distrattamente rivolgessi loro un pensiero, per vederle subito riapparire dall'ombra in cui erano scomparse, come se il loro compito fosse di tenersi sempre pronte a comparirmi dinnanzi ad ogni mio richiamo. La mia sola speranza era, prima di addormentarmi, di vedere la mattina dopo la neve candida e silenziosa posarsi sulle colline, sui campi, sui boschi.

Una di quelle sere si festeggiava il compleanno di Silvina. Eravamo tutti seduti intorno alla tavola imbandita. Mia madre, guardandomi più teneramente che mai, mi supplicava con gli occhi di sorridere un poco, e Silvina, vestita con un bellissimo abito nuovo di seta cangiante, non staccava mai le pupille da un anello di platino con un piccolo fiore di smalto azzurro che portava all'anulare destro, ed era il dono che le avevano fatto le sorelle insieme. Mio padre era stato in città tutto il giorno, e la diligenza era arrivata allora allora dinnanzi alla nostra porta, e s'udivano i cavalli nitrire, scalpitare e scuotere le loro squillanti sonagliere. Non aspettavamo che lui per incominciare il pranzo. Ed egli entrò ridendo, abbracciò la mamma, baciò tutti noi, e si fermò dietro a Silvina. Si frugò in tasca, e guardandoci uno per uno con occhi che esprimevano una gran meraviglia, ne trasse una collana adorna d'uno stupendo smeraldo. A quell'improvvisa apparizione io mi sentii tutto gelare il sangue e chiusi gli occhi per non vedere quello smeraldo; li chiusi per non vedere l'immagine alta e diritta di Daria che era apparsa al fianco di mio padre quando la luce verde dello smeraldo aveva brillato fra le sue dita. E quando li riaprii, Silvina aveva al collo quella collana, e la pietra verde splendeva sulla sua esile gola.