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Il perduto amore

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XI

Luisa rientrò in questa stanza, si gettò piangendo sulle ginocchia di sua madre. Sua madre l'afferrò per i capelli e glieli tirò con furia rabbiosa come una scimmia: le piantò le unghie nella fronte, e gliela fece sanguinare. Luisa pensò che sua madre era in camicia. Con molta pena la vestì. Poi con le mani sugli occhi si avvicinò allo specchio, e osò guardarsi. Vide il suo volto disfatto, la sua fronte che era tuttavia macchiata di rosso come se l'avesse stretta una corona di spine; si sentì distrutta, annientata, non più ben viva, e tuttavia incapace di continuare a vivere così. La vista di quel sangue che le arrossava le tempie le dette un tremito febbrile in tutte le membra, e le suggerì forse un'idea che non le era mai balenata prima d'allora: una cosa alla quale non aveva mai pensato.

Tutta la notte aveva pianto. Era stanca, sfinita. Il cuore le doleva tanto, il respiro le pesava, tutto il corpo lo sentiva spezzato in ogni giuntura, come se l'avessero bastonata. Il letto era là sfatto, come io l'avevo lasciato. Luisa si trascinò accanto al letto e per spogliarsi non ebbe che da lasciar cadere la sottana e il giubbettino, infilati sulla camicia. Si coricò, si abbandonò Luisa sul letto, si coprì con le lenzuola ancora tepide del mio calore. Distese le braccia lungo i fianchi, chiuse gli occhi. Incominciava allora il giorno. Luisa avrebbe voluto che fosse ancora notte profonda, e che nessun pallore di luce le attraversasse le palpebre. In una mano stringeva, Luisa, un coltellino d'argento, un coltellino che le apparteneva, credo, da quando era bambina, e che si vedeva sempre in giro, ora qua ora là, sopra questo o quel mobile, non si sa come, e per che uso, come tante altre piccole cose inutili. Lo aveva ripreso sul cassettone, se lo era portato a letto con sè. Ora lo stringeva in una mano, e sapeva benissimo che era quel suo coltellino d'argento che teneva stretto fra le dita, ma non voleva confessare a sè stessa di sapere che era proprio quel coltellino. No. Non ne sapeva nulla, Luisa, di quella piccola cosa fredda che teneva chiusa nel pugno, nè perchè l'avesse presa sul cassettone, nè perchè l'avesse portata a letto con sè. Luisa non pensava più; era addormentata. Voleva persuadere sè stessa d'essersi addormentata, di non pensare più, di non ricordare, di non sentire più nulla. Come se anche ella fosse divenuta una cosa, una piccola cosa anche lei, posata su quel letto da qualche immenso gigante che l'avesse presa nel palmo della mano, e l'avesse coricata là nel suo letto per farle fare la nanna.

In me il ricordo di quella giornata è terribilmente lucido e angoscioso, come se al solo parlarne la rivivessi intera in ogni suo minuto. Fu una giornata di una brevità assurda. Subito la sera cadde su quelle poche grige ore di luce. M'ero presentato al mattino nella tipografia con una faccia stralunata, da folle. Bastava che uno mi rivolgesse la parola perchè io mi mettessi a ridere. Su ogni bozza di stampa che mi portavano perchè la correggessi, facevo lunghi discorsi: la leggevo ad alta voce, declamando, a rovescio, risalendo dall'ultima parola alla prima. Poi gridavo: – Eccellente! Magnifico! Superlativo! Va tutto bene. Non ci manca nemmeno una virgola! Il proto mi battè amichevolmente sulla spalla e mi disse: – Perchè non vai a prendere una boccata d'aria? – Giusto, risposi: vado subito. Mi calcai il cappello sulle orecchie, e me ne uscii per la strada. Cominciai a girare qua e là. Mi parve molto strano ch'io portassi il soprabito come tutti quanti gli altri uomini che camminavano con me per la via. Stetti più d'un'ora a guardarmi in uno specchio. Poi, battendomi un pugno sulla fronte, mi sfilai il soprabito, e me lo rinfilai alla rovescia. La fodera era a scacchi bianchi e neri, con grosse righe gialle. Le maniche erano nere. Molto soddisfatto dell'aspetto che avevo con quei colori da arlecchino sulla schiena, mi parve che in generale la gente mi desse troppo poca importanza. Allora incominciai a fare grandi inchini a tutti quelli che passavano in carrozza, e toccavo terra con la falda del mio cappello. Ma poco dopo mi stancai, e ripresi a camminare tranquillamente, avviandomi verso il fiume. Molte ore rimasi così, in un tratto semi deserto della sponda, a guardare alcuni barcaioli che scaricavano della legna sulla banchina e un uomo che pescava con la bilancia. Mi pareva di aspettare qualcuno, che dovesse approdare a quella riva con una barca a vapore, e intanto mi domandavo perchè mai in quel punto del fiume non avessero costruito un gran porto. Sarebbe stato facilissimo allargare le due sponde e costruirvi un molo, anzi tutto un sistema di docks, su cui poi avrei pensato io a piantare alcune gigantesche gru. Il problema era semplicissimo. A ognuno che passava domandavo, toccandomi l'ala del cappello: – Scusi, perchè non si costruisce un porto qui? Non le pare che ci starebbe bene? Mi guardavano sorridendo, e scrollando il capo si allontanavano. Nessuno si era posto un problema così semplice, eppure così importante per il commercio della città! Ma incominciò ad imbrunire, scese la nebbia, il pescatore si caricò la rete sulle spalle, e non passò più nessuno per quel tratto di viale. E allora io mi staccai dalla balaustra del muraglione e macchinalmente m'incamminai verso casa mia.

Ero come il cavallo che, quando si sente le briglie abbandonate sul collo, prende la via della stalla. Poichè non pensavo affatto che quella fosse la strada per cui ogni sera passavo uscendo dalla tipografia per ritornarmene a casa. Non potrei giurarlo, ma mi sembra che durante tutte quelle ore, durante tutta quella giornata, il pensiero di Luisa non abbia mai attraversato, neppure per un attimo, la mia mente sconvolta. Quando la casa dove avevo fino allora abitato mi si parò dinnanzi nera, con tutte le sue finestre, le sue botteghe, la sua grande porta quadrata, non mi stupì affatto di trovarmi in quel luogo, nè di vedere Savina, sull'ingresso, fare grandi gesti con le mani levate in alto, e zoppicando corrermi incontro affannata, afferrarmi per il soprabito, gridare:

– Signore, signore… Che cosa è stato! La signora Luisa… Corra dunque! La signora Luisa è morta…

– Morta? Morta? domandai calmo, guardando gravemente Savina.

– Morta le dico! gridò Savina, battendo le mani esterrefatta, come per dire: – Ma capisce lei che cosa vuol dire morta?

Ed io soggiunsi: – Va bene, va bene. E attraversata la strada a passi lenti e solenni, infilai la porta, salii le scale e m'affacciai qui a questa stanza.

Ricordo che questa stanza era insolitamente illuminata. Dappertutto c'erano candele accese. Sul letto non vidi nulla che non fosse bianco, fuorchè gli occhi e i capelli e le mani di Luisa. Il viso di Luisa, le sue labbra, erano d'un biancore di neve. Le sue mani, le sue mani erano rosse! Io non ricordo che il rosso di quelle mani che mi ferì le pupille come un lampo. C'è poi una lacuna, un buio assoluto nella mia memoria, e non so che cosa accadde di me in quel momento. Mi ritrovai inginocchiato accanto al letto dove Luisa giaceva immobile nel suo pallore di morte, con quelle sue mani rosse, pesanti, inerti nelle mie, che urlavo:

– Si è uccisa? Si è uccisa? Perchè si è uccisa?

Intorno a me non vedevo che volti pallidi e muti. Anche Isacco era là, avvolto in un lungo pastrano nero, dal cui bavero non uscivano che i suoi occhi enormemente dilatati dalla febbre.

– Tu! tu! lo supplicavo, perchè si è uccisa? Perchè si è uccisa?

Ma Isacco non mi rispondeva, e continuava a fissare su me quei suoi occhi spiritati. Allora mi rivoltavo verso costei, verso sua madre, verso quest'idiota sorda e muta, e le chiedevo:

– Maledetta fra tutte! Dimmi! Perchè si è uccisa?

Ma la vecchia scuoteva il capo facendo dondolare il filo sottile di bava che le pendeva dal mento, e sorda ai miei richiami, muta alle mie domande, fissava un punto lontano, chissà quanto lontano da me, con le sue morte pupille. Allora, disperato, mi piegavo su Luisa, le prendevo fra le mani, fra le mani tutte macchiate del suo sangue, il viso bianco, freddo e duro, e le domandavo singhiozzando:

– Perchè, perchè ti sei uccisa? Luisa perchè hai voluto morire?

Non ero più ora agitato da nessuna strana follia. Ero nuovamente io, in tutta la mia lucidità e pienezza di comprensione. Ora capivo perfettamente che cosa era accaduto la notte prima di quella, e la mattina, e il giorno, fino al momento in cui ero entrato in quella camera con tutte quelle candele accese, e quell'odore di medicine, e quella gente attonita, impietrita, muta, e Luisa con il suo viso bianco, di cera, e le sue mani rosse, di sangue. Quella era Luisa, morta. Io ero Paris, vivo. Ah! sapevo anche che si era uccisa per me, Luisa, per mia colpa, per me, per me solo! Ma non mi bastava. Volevo sapere, sapere, sapere perchè si fosse uccisa Luisa.

Passarono così ore di spasimo, di pianto, di disperazione convulsa. Non so quando, come, la stanza si vuotò. Non so che ora fosse di quella notte, allorchè, sollevato il viso dalle coltri tutte umide dalle mie lagrime, vidi la camera ridivenuta semibuia, dove solo due o tre candele ancora bruciavano languide e tremole, e in quella luce, seduta laggiù, la paralitica con il suo viso di scimmia, qui Isacco con la sua faccia pallida e trasudata. Su Isacco fermai il mio sguardo a lungo. Non so perchè lo guardassi così. Non so che cosa gli dicessero i miei occhi con quello sguardo. So che dopo un lungo silenzio, scuotendo desolatamente il capo:

– Lo vedi, mormorai, lo vedi Isacco? È morta, Luisa. Perchè? Perchè?

Allora Isacco schiuse le labbra gonfie e livide, e disse con un filo di voce:

– Per te… Per amor tuo…

– Per amor mio? gli domandai.

– Per amore, bisbigliò Isacco. Per quell'amore che tu non hai mai veduto…

– Luisa? gli domandai.

– Ah! esclamò Isacco. Nessuna donna ti amerà mai così, fino a morirne…

 

– Isacco! Isacco! lo supplicai. Ella è ancora qui che ti ascolta!

– Ne sarà felice, soggiunse Isacco. Tutto eri tu per lei. Quei fiori, quei dolci, quel vino che tu bevevi, quelle scarpe che porti ai piedi, tutto veniva da lei… Lavorava giorno e notte per te… E aveva paura che tu lo sapessi! Per quei fiori… Per quelle piccole cose, Paris…

– Tutto? domandai. Quei fiori? Queste scarpe? Tutto, tutto?

– Tutto, tutto, mormorò Isacco, perchè tu l'amassi un poco… E tu l'hai uccisa!

Isacco chiuse gli occhi. Il suo viso spettrale si rigò di due lunghe lacrime…

XII

Ora, chi sono io? Che sarà di me? Ora che ho perduto l'amore di Luisa, ora che ho perduto il solo amore della mia vita, che sarà, che sarà di me? Non quello di Daria! Non quello di Silvina! Questo, questo era il mio amore…

Costei mi tiene ancor vivo. Io la guardo e la vedo vivere. Debbo vivere anch'io per lei. Sono qui, in attesa. Ogni ora che passa la conto. Ne ho già contate migliaia. Anch'io come Robinson ho un bastone, su cui incido un segno per ogni ora che passa…

Sono qui, in quest'isola deserta, io solo, e lei, due naufraghi, perduti nel tempo. Il tempo è infinito come il mare. Noi lo attraverseremo un giorno insieme, per navigare verso il nulla da cui approdammo per caso a quest'isola abbandonata.

FINE