Za darmo

Il perduto amore

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VIII

Quando quelle prime rose furono sfiorite, Isacco ritornò a mietere nel giardino dello zio ricco, e mi portò degli anemoni. Poi scese nella cantina di quello zio misterioso e fantastico, e ne rubò uno, due, tre fiaschi di buon vino chiaretto che venne a bere con noi dopo cena. Come se non bastasse, alcuni giorni dopo Isacco si fece amico del cuoco di suo zio. Allora, ogni domenica, ci portò dei pasticcini di pasta sfoglia, o delle frittelle dolci inzuccherate che, di nascosto, quello impastava e friggeva per lui. Ogni qual volta lo vedeva comparire sull'uscio con uno di quegli involti ghiottissimi, il viso di Luisa s'irradiava di gioia. Lo notai la seconda volta, e poi sempre in seguito; ne ebbi piacere per lei. Anch'io bevevo di quel vino, mangiavo di quei dolciumi. Per molto tempo, in principio, mi abbandonai senza sospetti alla modesta gioia che quei fiori, quel vino, quei bocconi prelibati mettevano in alcuni momenti delle mie grige giornate. Senza confessare ad alcuno il piacere che mi veniva da quelle piccole cose, ne godevo segretamente come un bambino. La miseria, le sofferenze, è verissimo che avviliscono l'uomo, e lo rendono debole e incapace di dominarsi. Io ne avevo ancora una prova. Come apportatore di fiori, di fiaschi, di dolci, Isacco non mi pareva più così spregevole e fastidioso come prima, quando si presentava a mani vuote, e solo carico di parole. La sua compagnia incominciava a piacermi. Giunsi persino a pensare che fosse una vera fortuna per noi d'avere un vicino come lui, con uno zio così ricco, con quel bel giardino, quella cantina, quel cuoco tanto sapiente e servizievole. Quando, seduti intorno alla tavola la sera, si sorseggiava quel vinello chiaro, spillandolo giù dal fiasco che gorgogliava contento, in verità mi sembrava che il gelo, che m'ero portato nell'ossa su dalla strada tutta neve e vento, a poco a poco s'intiepidisse, quasi mi si sciogliesse dentro in un liquido vaporoso e caldo che lentamente, sottilmente, s'insinuava poi in ogni vena. Allora la giornata passata sotto il lume, nell'odore nauseabondo della tipografia, mi si presentava al ricordo meno penosa e squallida. La mattina, poi, quando svegliandomi aprivo gli occhi, la prima cosa che vedevo non era più quel sorriso malinconico malinconico nel visuccio di Luisa, ma erano quei fiori con le loro piccole teste variopinte reclinate sull'orlo della brocca, che dal centro della tavola su cui erano posati colorivano di rosa, di viola, di azzurro, di giallo il grigio sporco di queste pareti, la sudicia monotonia di queste quattro carcasse di mobili.

Proprio in quei giorni, certo in conseguenza di quei fiori, di quelle piccole consolazioni che Isacco aveva portato nello squallore della mia vita, pensai per la prima volta, senza ironia, a mia moglie Luisa. La guardavo mentre cuciva cuciva, e non provavo più nessuna irritazione vedendola penare così, mattina e sera, sul bianco accecante delle sue camicie, ma piuttosto incominciavo veramente ad avere soltanto pietà di lei, che così delicata, doveva logorarsi la salute in quel lavoro ancora meno retribuito del mio. Mi pareva anzi che da qualche tempo ella avesse raddoppiata la sua fatica, poichè non si coricava più nemmeno con me, ma rimaneva alzata molto tempo dopo. E se, per non far rumore, non lavorava alla macchina in quelle ore, zitta zitta imbastiva, o tagliava, o cuciva asole a punti fitti e piccini, con gli occhi sull'ago.

– Non affaticarti così, le dicevo ogni tanto. Perchè? In fondo che cosa ne ricavi, da tanto lavoro? Poveri siamo, poveri saremmo se lavorassi anche meno. Purtroppo questo non basta a cambiare il nostro stato… Vieni, vieni a dormire, Luisa. Domani sarai ancora in tempo…

La vecchia, sempre sveglia, brontolava dietro la tenda che nascondeva il suo letto. Ed io, guardando fra le ciglia semichiuse Luisa tutta infreddolita che si spogliava, consideravo mestamente l'avarizia del suo piccolo corpo di eterna vergine, i suoi senini magri e distanti, le anche su cui la pelle pareva tesa come gomma elastica appena appena rosea, il suo ventre piccino e piatto, ombrato da una strisciolina di peluzzi biondi. E quantunque mi sembrasse una cosina malata e fredda a toccarsi, pure non ne avevo più quel senso di repulsione che fino a pochi giorni prima mi costringeva a chiudere gli occhi per non vederla. E quando m'entrava nel letto rabbrividendo, con la sua camiciola non profumata di bucato o di essenza di rose, ma solo odorosa dell'odore della sua carne che è il profumo del povero, e mi si stringeva contro il fianco per riscaldarsi, io non m'irrigidivo più da capo a piedi, come uno di quei cristi primitivi o di quei morti che si vedono scolpiti nei sarcofagi; ma le posavo (è la parola) le posavo un abbraccio inerte attraverso il fianco, e così cercavo di addormentarmi. Ma prima che il sonno fermasse il moto dei miei pensieri come avrebbe fatto una manata di polvere gettata in un orologio, fingendo di dormire per non muovermi, per non parlare più, chiedevo a me stesso:

– Perchè, perchè non c'è un po' di vero amore in lei? Perchè il suo cuore è così silenzioso, così tepido? Forse se lei volesse, se lei sapesse, un po' di oblio, un po' di gioia potrei anche trovarla in un suo bacio, in una sua carezza, in quello che comunemente si chiama, tutti chiamano: amore. Piccola Luisa… Perchè non sai, perchè non senti nulla? Perchè non indovini? Perchè non tenti? Perchè sei così innocente ed insipida? Piccola Luisa, perchè non mi ami?

Sentivo il suo respiro. Un sibilo sottile sottile le usciva dalla gola. Era quello che la faceva sempre tossire durante il giorno? Povera piccola! E avrei voluto posarle un bacio sulla bocca, un lungo bacio, un bacio d'amore. Ah! se fosse stata un'altra donna! Come quei fiori che mi davano tanta gioia e tanto conforto, così anche lei avrebbe potuto consolarmi un poco delle delusioni passate. Passate da tanto tempo… Quasi dimenticate… Avrei amato lei sola, per sè stessa, non per il rimpianto o il ricordo di quei lontani giorni… Non avrei amato nessun'altra in lei… Ormai ero un altr'uomo. Quello d'una volta non esisteva più.

Ma ben presto mi riebbi da quella specie di abbandono all'illusione d'una vita che non poteva essere, che non era la mia. Il piacere di quelle piccole cose godute senza altro pensiero che di goderne si mutò subito in amarezza. Perchè Isacco ci regalava quei fiori? Perchè ci elargiva con generosità tanto metodica il vino delle cantine di suo zio, i dolci della sua cucina? E quei doni erano per me o per Luisa? Quando questo dubbio mi assalì la prima volta, stavo mangiando uno spicchio di torta, tutta ricamata di crema, profumata di vainiglia e soffice come la lana. Mi fermai con il boccone in gola, guardai Luisa, guardai Isacco, e posai il pezzo che ancora tenevo in mano sul tavolo. Luisa anche lei aveva uno spicchio di torta delicatamente stretto fra due dita, e la bocca piena. Ma guardava Isacco, e non potendogli sorridere con le labbra, gli sorrideva con gli occhi. Ah! che luce, che vivacità, che ilarità insolite erano negli occhi di Luisa, quella sera! Parevano due carboncini accesi. La luce della lampada vi brillava dentro. E Isacco dove aveva preso, lui, quegli occhi? Grandi e neri, ma di solito sempre appannati e smorti, anche gli occhi di Isacco brillavano d'una luce insolita, vivi, sorridendo a Luisa. Inghiottii quel boccone che mi era rimasto in gola, e per quella sera non toccai più di quel dolce. Isacco se ne andò. E quando Luisa venne a letto, non la sfiorai nemmeno con la punta delle dita. Sentii tutto il gelo che ella portava con sè nella sua carne anemica, cercai di scostarmi da lei voltandomi con la faccia contro il muro. Così, cercando di non sentire il suo respiro sulla mia nuca, il suo odore di fieno nelle narici, incominciai a frugare in tutti gli angoli del mio cervello divenuto terribilmente lucido, e credetti di indovinare, di scoprire la verità. Mi ricordai che ogni mattina, da molto tempo ormai, quando mi alzavo, trovavo Luisa già vestita e pronta ad uscire. E mentre mi vestivo seduto sulla sponda del letto, ecco due tre colpi discreti bussati qui, sulla parete, fra questa stanza e quella di Isacco. Luisa mi si avvicina, mi dice: – Non hai bisogno di nulla? Dunque vado. Prende il suo involto di camicie, ed esce, salutandomi con la mano. Ha un cappellino nuovo, con una penna rossa. L'abito è sempre lo stesso, ma sembra un altro. Quando nel corridoio passa dinnanzi alla porta di Isacco, la porta si apre, Isacco esce: – Buon giorno, signora Luisa, dice. Ed io so che prende il fagotto delle camicie dalle mani di Luisa, e glielo porta per un buon tratto di strada. Tutte le mattine se ne vanno così, insieme. Ed io lo so. Lo so perchè Isacco e Luisa me lo hanno detto, che per lui portare quel fagotto a Luisa è un piacere da nulla, che non gli costa nessuna fatica. Mentre per lei è un piacere immenso non doverlo portare. La strada è ogni mattina la stessa per tutti e due. Tutti e due vanno verso il centro della città. Io poi esco per conto mio, la mia tipografia è subito passato il fiume, mi chiudo, mi seppellisco in quella spelonca buia come un antro, e mi si rivede la sera.

Questa fu la mia grande scoperta di quella notte. La mattina, appena alzato, ebbi la tentazione di prendere il mazzo di fiori dalla brocca posata sul tavolo e di buttarlo dalla finestra. A mezzogiorno Isacco mi si presentò con un paio di scarpe nuove incartate in un giornale. Disse di averle vinte ad una lotteria. E per l'appunto aveva il piede piccino! Infilate ai miei piedi, quelle scarpe calzarono invece come guanti.

IX

Eccole qua, quelle scarpe: le porto ancora ai piedi. Hanno preso già tanto fango e tant'acqua che non sembrano più le stesse. Eppure sono quelle, proprio quelle scarpe. Chi avrebbe potuto dire a Luisa, a me, a Isacco, per quale strada m'avrebbero condotto queste scarpe? Lasciamo andare: c'è una fatalità in tutte le cose, anche nelle più infime, nelle più banali. Pur accettando quelle (queste) scarpe che Isacco mi offriva, volli ad ogni costo pagarle. Isacco che me le guardava compiaciuto mentre muovevo qualche passo per la stanza battendo il piede per sentire se spianava comodo, dette alla mia proposta in un'esclamazione di stupore offeso. Disse, mi pare: – Ohibò! e se ne fuggì correndo. Era sopravvenuta Luisa. S'era tolto il cappellino, e anch'essa mi guardava quelle scarpe nuove con un viso soddisfatto e contento.

 

– Eh! sì, dissi, sono buone. Ma non ti pare, Luisa, che gliele debba pagare? Posso non pagargliele, queste scarpe?

Luisa alzò una spalla e mi fece l'occhietto.

– Non pensarci, disse sottovoce, come per paura che Isacco l'udisse dall'altra stanza. Perchè gliele vuoi pagare? Le avesse comprate… Ma le ha vinte alla lotteria. Eh! Se non ti chiede nulla, che bisogno c'è di pagargliele?

Poi soggiunse:

– È una vera fortuna… Ne avevi proprio bisogno, tu, d'un paio di scarpe nuove.

– Sì, dissi io, ne avevo bisogno. Ne ho bisogno grandissimo. Non le vedi là, quelle vecchie? Si possono più chiamare scarpe? Ma, insomma, qui tutto ormai viene da Isacco… Fiori, vino, dolci, ed ora anche le scarpe! Ti pare possibile?

– No, no, esclamai con convinzione, o gliele pago, o gliele rendo…

Così tenni queste scarpe e cominciai ad usarle. Ma non riuscivo a capire come mai Luisa osasse suggerirmi di non pagarle. Doveva credermi molto stupido… Forse cieco. Ormai non nutrivo più dubbi di sorta. Un intrigo c'era fra lei ed Isacco. Ed io avrei dovuto fare da una parte la figura della vittima, dall'altra quella del beneficato. Mi conoscevano male, tanto l'una che l'altro! Quantunque fingessi di non vedere, di non capire, vedevo e capivo ogni cosa. Vedevo in che modo Isacco guardava Luisa, quando c'ero anch'io, la sera, e non avrebbe dovuto guardarla così. Era uno sguardo tutto tenerezza, che sarebbe stato innocente solo negli occhi di un fratello. Ma Isacco non era fratello di Luisa. Ed Esposito, oh! Esposito, suo fratello, certo non l'aveva mai guardata a quel modo. Quando Isacco se ne andava e Luisa l'accompagnava fino all'uscio, e si fermavano ancora a chiacchierare sulla soglia, poi Isacco, nel salutarla, le prendeva una mano e gliela stringeva, e indugiavano sempre qualche minuto così, con la mano nella mano. Due amiche, due amici avrebbero potuto salutarsi con quelle lunghe strette di mano. Ma una donna e un uomo, che non fossero due fidanzati, due amanti? No, certo: non era un modo naturale di salutarsi. Tuttavia non andavo così lontano, con le mie supposizioni. La gelosia non m'aveva ancora completamente acciecato, come poi mi acciecò. Solo pensavo che Isacco fosse innamorato di lei e che Luisa si lasciasse a poco a poco circuire. Io cercavo sempre di persuadermi che se anche questo intrigo fosse realmente esistito, e nelle sue ultime conseguenze, quelle che nemmeno l'uomo più pio subisce e tollera senza rivolta, a me, a me marito di Luisa, a me solo forse fra tutti i mariti, non avrebbe dovuto nulla importare. Cercavo di rafforzare sempre più in me stesso il convincimento che io non fossi un marito come tutti gli altri, e Luisa una moglie come tutte le altre; ma io una finzione di marito e lei una finzione di moglie. Non mi pareva concepibile la gelosia, là dove non c'era l'amore. Ogni sentimento di gelosia, nel caso nostro, mi sarebbe sembrato mostruoso e ridicolo. Geloso poi di Isacco? Era forse un uomo, Isacco? No, non era un uomo. Non era niente, Isacco. Eppure proprio qualche cosa di mostruoso, di mostruosamente ridicolo, cominciava a nascere in me, al pensiero di Isacco e di Luisa, uniti insieme in un solo pensiero. Era una specie di istintiva repulsione per tutto ciò che s'associava a quel pensiero, e m'impediva ormai di provare la più piccola gioia nel guardare i fiori che ornavano la nostra povera tavola, di bere un bicchiere di quel vino buono, d'inghiottire un boccone di quelle torte, di quei pasticci, che Isacco continuava ad offrirci ogni tanto. Mi versavano il bicchiere colmo, ed io vi intingevo appena appena il labbro. Il bicchiere rimaneva pieno. Mi dicevano: – Perchè non bevi, Paris? Rispondevo: – Questo vino non è come l'altro. Non mi va. Non mi piace. Allora m'alzavo, m'avvicinavo alla poltrona della vecchia, che aveva la sete negli occhi, e, sollevatole il mento, le versavo lentamente il vino del mio bicchiere nella bocca aperta, come dentro un imbuto.

Ben presto riuscii insopportabile a me stesso. Gli altri sembrava che non si accorgessero neppure di me. Non potevo più dubitarne: ero veramente geloso! Ero geloso di Isacco, senza amare Luisa. Il sentimento della gelosia è per sè stesso atroce. Ma quando c'è l'amore, penso che l'amore trasformi in una specie di frenetica voluttà questa dolorosa follia dello spirito. Deve essere come l'incontro di due fuochi che generano fuoco. E nell'ardore che divampa, il bene e il male, dolore e gioia, si confondono come la vita e la morte nel delirio d'un agonizzante. Poichè l'amore distrugge incessantemente ciò che la gelosia ha creato, e la passione incenerisce con un soffio i castelli incrollabili che la ragione crede di costruire sulla realtà. Ma nel caso mio non esistevano che tristezze e dolori. La mia gelosia era un sentimento freddo, isolato, arido, un sentimento cattivo ed immobile, che mi trovava sempre completamente lucido, e sempre sempre solo. In ogni momento ero pronto al suo richiamo, pronto a lasciarmi prendere nel giro dei suoi capziosi sofismi, dai quali nulla veniva a liberarmi mai. Orribile vita! Rimanere lontano da Luisa m'era penoso. Durante il giorno, mille volte ero assalito dalla tentazione di lasciare a metà il mio lavoro, afferrare il cappello e il bastone, correre a casa, sorprendere impensatamente Luisa in un momento qualunque della sua vita. Quella vita che io in fondo ignoravo. Che mi sfuggiva. Che non potevo controllare. Ma quando ero vicino a Luisa, la mia pena, il mio tormento, improvvisamente svanivano, e al loro posto subentrava una specie di deserta e dolorosa stanchezza, come un rilassamento dello spirito che mi piombava in una profonda malinconia. Quand'ero lontano da lei, mi sembrava che Luisa avesse un altro viso, un altro corpo, un'altra figura fisica, e che tutto questo mi appartenesse di diritto, fosse cosa mia che non potevo cedere ad altri pacificamente. Quando le ero vicino tutto mi sembrava insignificante in lei, e indifferente che appartenesse a me o ad altri.

Per uscire da questo stato veramente penoso, ordinai a Luisa di non vedere più Isacco, nelle ore in cui ero fuori di casa. Le proibii di uscire con lui la mattina, di riaccompagnarlo la sera nel corridoio e di fermarsi a chiacchierare con lui. Dissi anche che quei fiori non volevo più vederli nella brocca sul tavolo; che da allora in poi, per evitare le visite di Isacco, di bere, di mangiare con lui, ci saremmo coricati subito dopo cena. Luisa accolse senza una parola, senza una domanda, queste mie imposizioni. Ma vidi che ne fu profondamente toccata. Il suo silenzio mi confermò nei miei sospetti. Per non incontrarmi con Isacco, alla fine del mio lavoro, presi l'abitudine di uscire da una porticina secondaria della tipografia, che s'apriva sopra un cortile. Isacco m'aspettò più di un'ora per alcune sere di seguito dinnanzi all'ingresso principale. Poi tralasciò di venire. La nostra vita era così ritornata quella di prima: prima che Isacco fosse venuto a turbarla. Chiesi un anticipo ai miei padroni: feci un debito. Gli lasciai in una busta, dal portinaio, il prezzo delle mie scarpe. Così avrei voluto far alzare qui, al posto di questa parete, un muro maestro, che mi impedisse persino di sentire ciò che faceva Isacco, rincasando la notte, o alzandosi la mattina, nella sua stanza. Mi misi a cercare nel quartiere opposto della città un'altra casa, dove abitare. Non trovai nulla. Quasi non rivolgevo più la parola a Luisa, nelle lunghe ore che ormai passavamo soli insieme. Luisa cuciva, cuciva. Dopo qualche tempo credetti di essermi liberato per sempre dell'incubo della gelosia, e infatti incominciai a poco a poco a rasserenarmi.

X

Tutti ricordano come è stata rigida la fine dell'inverno. Alla metà d'aprile c'era ancora la neve alta per le strade. La mattina tutto gelava. Pareva che il tempo ci portasse verso una più cruda stagione, anzichè verso la sospirata primavera. Una notte ero così pieno di freddo in tutto il corpo che non riuscivo ad addormentarmi. Luisa, Luisa, invece, respirava tranquilla nel sonno, con quel sibilo nella gola, e pareva che il gelo del letto lo avesse lasciato tutto a me. Improvvisamente accadde qualche cosa d'insolito nella stanza di Isacco. Udii il passo zoppo di Savina, la nostra vecchia padrona di casa, avvicinarsi nel corridoio, e un altro passo meno pesante che s'alternava col suo. Una voce d'uomo disse: – Ah! è qui… Ed essi aprirono la porta di Isacco ed entrarono nella sua stanza. Allora mi ricordai che veramente, quella sera, non aveva udito Isacco rincasare come il solito, all'ora sua, poco dopo le nove. Comunemente arrivava alla svelta, cantarellando (quel canto mi stizziva: lo consideravo una provocazione, un insulto, sia che cantasse per Luisa, sia che cantasse per me), con un rumore secco ficcava la chiave nella serratura e l'apriva, e prima di richiuderla accendeva il lume. Poi, con un colpo, sbatacchiava l'uscio e dava il paletto di dentro. Subito incominciava a gargarizzarsi. Tossiva, sputava, versava l'acqua nel catino, si lavava le mani. Quindi si sedeva sulla sedia o sul letto, e in fretta si spogliava, gettando scarpe ed abiti uno qua ed uno là, con fracasso. Quando s'era coricato, prima che si addormentasse, il suo letto non faceva che stridere e cigolare. Ma quella sera niente di tutto questo era accaduto; come se Isacco non fosse esistito mai. Ora, quando quei due furono entrati nella stanza, il letto d'Isacco stridette e cigolò. La voce di Savina disse: – Non vuol bere, non vuol mangiare. Non si lamenta. Non si muove mai. E quando si parla, non risponde. La voce dell'uomo soggiunse: – È molto grave… Poi il letto cigolò e stridette di nuovo, e infine la voce dell'uomo disse: – Non c'è niente da fare… Vedremo domani. Riaprirono la porta ed uscirono. Li udii scendere, parlando, le scale. Tutto ritornò in silenzio.

Isacco doveva essere ammalato. Il medico aveva detto: – Grave. Isacco era dunque gravemente ammalato. Ora mi spiegavo come mai non lo avessi udito rincasare come ogni sera. Quella mattina certo non s'era neppure alzato e tutto il giorno era rimasto coricato lassù. Forse, senza che io ne sapessi nulla, la sua malattia durava già da tempo. Forse da due, da tre giorni. E che malattia era quella? Savina avrebbe potuto informarmi. Avrei potuto chiedere a lei. Domani mattina, uscendo, le chiederò di che male sia malato Isacco. Non che mi stia molto a cuore saperlo. Ma così, per una semplice curiosità. Mi sta tanto poco a cuore la malattia di Isacco, che proprio non ne provo alcuna pietà. Anzi… Debbo esser sincero? Pensare ch'egli sia malato mi fa quasi piacere. Forse dire: piacere, non è dire cosa esattissima. No: veramente non mi fa proprio piacere, ma penso che, infine, il male che avrebbe voluto fare a me, con quella sua aria di malizioso sventato, in qualche modo ricade sopra il suo capo. Un castigo, qualunque sia, gli sta bene. Imparerà che il dolore è giustamente distribuito in questo mondo, e che ciascuno ne ha la sua parte. Non ho nessun sentimento caritatevole per lui. Non penso nemmeno quanto egli sia solo e abbandonato in quella mezza soffitta, alla mercè di Savina. Non mi si affaccia nemmeno per un attimo l'idea che egli possa aver bisogno di aiuto, durante la notte, così solo com'è. Tutto mi perdo dietro altri sentimenti, altri pensieri. Il male, la solitudine in cui Isacco si trova abbandonato, persino il pensiero della sua morte, non mi toccano affatto. Seguo ora una fantasia che mi conduce molto lontano di qui, in anni tanto tanto lontani, quand'ero bambino, e mi ammalai di tifo. Mi ricordo che mia madre mi vegliava le intere notti con una cuffietta bianca e rossa in capo, con un nastrino rosso annodato sotto il mento. Questo ricordo, sì, e specialmente il ricordo di quella cuffiettina rossa e bianca, mi tocca e mi commuove. Quando si è ammalati tutto è molto confuso. Ma quasi sempre, in tanta confusione di impressioni e di idee, un particolare insignificante, un particolare da nulla, sempre emerge, con una chiarezza meravigliosa, e si ficca nella memoria per non uscirne mai più.

Mentre così sognavo ad occhi aperti, sentii Luisa muoversi leggermente al mio fianco. Credevo che dormisse. Ma ella non si muoveva come ci si muove nel sonno. Pareva che cercasse di allontanarsi da me a poco a poco, preoccupandosi di non fare movimenti bruschi, ai quali il letto avrebbe scricchiolato. Strisciava fra le lenzuola, ed io sentivo benissimo, rimanendo immobile come se fossi addormentato profondamente; che Luisa aveva già piegato le gambe sulla sponda e che fra poco sarebbe uscita tutta dal letto. Un minuto dopo era in piedi. E nella penombra della stanza vedevo, attraverso le ciglia socchiuse, l'ombra bianca della sua camicia, diritta, che lentamente si muoveva. Il viso lo teneva sempre rivolto verso di me (la vedevo contro la finestra grigia illuminata) come se, mentre cercava qualche cosa annaspando con le mani nel buio, sorvegliasse il mio sonno per timore d'essere sorpresa in quell'atto. Così s'avvicinò alla sedia su cui erano posati i suoi abiti, e s'infilò una sottana e un giubbettino di lana. Poi si curvò, e credetti di sentire che raccoglieva le sue scarpe. Io non mi muovevo, ma, dentro, il cuore incominciava a martellare dandomi una pena enorme. Che cosa faceva Luisa? Quando ebbe le scarpe in mano, si curvò sul letto per meglio assicurarsi che io sempre dormivo tranquillo. Nulla m'aveva destato. Poteva andare sicura. Allora, camminando sulla punta dei piedi, scalza, si accostò all'uscio e posò una mano sulla gruccia. Qui incominciava il difficile. Quella porta aveva i gangheri arrugginiti. Sempre, quando si apriva o si chiudeva, dava in un miagolio che terminava con un rantolo quand'era tutta spalancata. In silenzio non concedeva che un'apertura d'un palmo, tanto da passarci un cane o un gatto. Luisa rimase qualche minuto immobile, preoccupata del rumore che quella porta avrebbe fatto nell'aprirsi. Poi si decise, girò la maniglia e trasse a sè adagio adagio l'imposta. Che fortuna esser magri, piccini, in talune circostanze della vita! Certo Luisa allora benedisse d'esser così sottile, perchè dove ci sarebbe appena passato un cane o un gatto, anche lei ci passò. Senza chiudere, riaccostò l'uscio. Dopo, per quanto non udissi nulla, capii che, appoggiandosi col fianco alla parete, si infilò le scarpe. Il suo passo lungo il corridoio lo percepii appena. Al rumore che fece la chiave della porta di Isacco girando nella serratura fu leggiero come il rosichìo del topo. La porta s'aprì con un soffio, con un soffio si richiuse, e Luisa fu nella stanza di Isacco.

 

M'ero sollevato sul gomito. Non ne potevo più di quell'immobilità in cui ero rimasto fino allora. Non tossivo mai, ma proprio in quel momento un prurito tormentoso mi salì alla gola, e mi mise addosso una specie di frenesia, un bisogno invincibile di tossire. Doveva essere una conseguenza della soffocazione che mi dava il cuore in tumulto, con il suo battere precipitato e ineguale. Credevo di scoppiare. Stando così, vedevo come se questa maledetta parete tanto sottile fosse divenuta anche trasparente, di vetro, vedevo Luisa curva sul letto di Isacco, con il viso vicino vicino al suo. Aveva strofinato uno zolfanello, una candela s'era accesa. Al lume di quella candela Luisa contemplava Isacco che sembrava addormentato. Il suo viso non era più grigio pallido come sempre. Era rosso, infiammato dalla febbre. Ed ella non si contentava di guardarlo, ma lo accarezzava dolcemente con una mano, sulla fronte, sulle gote, sul collo. Poi si curvava ancora di più, e posava la sua gota sulla sua bocca, come per sentire se le sue labbra bruciassero. Bruciavano. Oh! certo: bruciavano le labbra di Isacco, arse dalla febbre. Ma Luisa non staccava la gota da quella bocca, non prendeva un bicchiere d'acqua e v'immergeva un dito per inumidirgliela, ma, voltando appena il capo, posava la sua bocca sulla bocca di Isacco. Teneva gli occhi chiusi, e dai suoi occhi gocciolavano due lacrime. – Amore, povero amore, bisbigliava, sono qui, sono venuta… Sentimi, guardami… Non sei più solo. Luisa tua è con te… Non me ne vado più… No, amore, mai più, mai più.

Nelle orecchie avevo un ronzio confuso, come il rumore di un risucchio lontano. Come non vedevo nulla, così pure non udivo nulla. Ma mi sembrava di udire. Luisa non si muoveva, non dava un sospiro, una voce. Ma mi sembrava che bisbigliasse non so quali parole oltre quelle che ho scritte. Luisa? Luisa? E anch'io, cauto come un ladro, leggiero come un'ombra, rovesciai le coperte, silenziosamente scesi dal letto, mi avvicinai alla porta, girai lento lento la gruccia, chiusi il battente, detti il paletto. Era fatto. Luisa non sarebbe rientrata più, quella notte, in casa mia. Quando, dopo poco, uscì dalla stanza d'Isacco e, sfilate nuovamente le scarpe, posò una mano contro la porta e sentì che non cedeva alla pressione della sua mano, Luisa non volle credere subito che la porta fosse chiusa. Si ostinò, prima con molta prudenza, poi con orgasmo, a tormentare la maniglia, a graffiare con le unghie il battente. Quindi sentendosi perduta, incominciò a bussare pian piano, poi più forte, finchè disperata si decise a chiamarmi per nome.

– Paris, sei sveglio? Paris, aprimi, Paris, Paris!

Allora mi sentii vendicato dal mio silenzio, mi sentii grande nel silenzio che ebbi la forza, dovrei dire la crudeltà, di opporre ai suoi richiami. Tacevo. Non risposi una sillaba alle preghiere di Luisa. Mi sentivo grande e potente, invincibile, mi sentivo immenso, contro la debolezza, la vergogna, il pianto di quella creatura debole, umiliata, implorante pietà e perdono. Mi sarei mostrato nel centro d'un'apoteosi, con una mitra d'oro in testa, un mantello d'ermellino, ritto sopra una piramide, perchè tutti potessero ammirare la mia potenza, la mia grandezza. La potenza e la grandezza d'un uomo che aveva ridotta in disperazione così, con un semplice giro di chiave, una povera donna, della forza d'un bimbo o d'un uccellino. Io ve lo dico: guardatevi da chi ha troppo sofferto, da quelli ai quali la fortuna ha sempre voltato le spalle, da chi ha subìto affronti e persecuzioni, da chi è stato offeso, insultato, tradito, calpestato, deluso in tutte le sue speranze, deriso, privato d'ogni felicità! Sono i peggiori nemici, i più crudeli, i più pericolosi nemici del bene. Non troverete nè carità, nè tolleranza, nè perdono il giorno in cui cadrete in loro potere. Io ero uno di questi! Io lasciai, senza batter ciglio, che Luisa si disperasse in lacrime contro quell'uscio chiuso. Non ebbi neppure per un attimo l'impulso di aprirle. Non ebbi alcuna pietà di lei. Invece mi rallegrai quando l'udii che s'allontanava singhiozzando, e poi l'udiii, singhiozzando, rientrare nella stanza di Isacco, e abbandonarsi perduta sul suo letto. Era quasi giorno. Incominciava a sbiancarsi l'ombra. Mi vestii in gran fretta, e in punta di piedi m'avvicinai alla porta. Volevo uscire senza essere udito. Ma, fatti due passi, con un brivido di terrore, sentii due mani ossute, dure, che mi si posarono sulle spalle e, voltandomi, vidi contro il mio viso il viso spaventoso dell'idiota. Sua madre, sua madre, mi stava di fronte! Era anche lei uscita dal letto in camicia. Quella camicia era ampia e lunga, e giù per la scollatura si vedeva il suo corpo schifoso di vecchia, la sua orrenda nudità. Il suo capo tremava vertiginosamente, i suoi occhi mi fissavano morti. Non c'era di vivo in lei che quel gesto delle mani ossute lunghe che mi stringevano per le spalle. Allora, freddamente, le afferrai i polsi e a rinculoni la sospinsi verso la sua poltrona e ve la piegai; ve la costrinsi per forza, e la lasciai là seduta, in camicia, a tremare e a gemere. Poi a passi lunghi, senza distogliere gli occhi da lei, attraversai la stanza, aprii l'uscio e lo richiusi d'un colpo dietro di me.