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I Francesi in Italia (1796-1815)

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Non si vedono più: si direbbe che una voragine li ha inghiottiti tutti. È bastato che l'esercito francese vinto dagli Austro-Russi in campali giornate, investito ed incalzato in ogni parte dalle bande degli insorgenti, fosse costretto a sottrarre alle libere repubbliche italiane il suo appoggio, perchè queste, come castello di carta al primo soffio, crollassero. Per i loro ideali di libertà e di ordinato viver civile, per l'esistenza di quello Stato che con fede di compiere cosa santa avevano fondato pochi mesi prima, lottarono da eroi fino all'ultimo gli uomini della Repubblica Partenopea, soli: ma non erano che un pugno di forti e la reazione li soffocò col numero nel sangue. Abbandonarono invece il campo, vergognosamente inerti, tutti gli altri nelle altre parti d'Italia. I più compromessi fautori della libertà seguirono l'esercito francese nella ritirata: quelli che credettero di rimanere sul patrio suolo e che non poterono ottenere d'esser dimenticati o anche di far accogliere i loro servigi dai nuovi vincitori, furono o massacrati nel primo momento dal furor delle turbe o carcerati o esiliati o tratti a morte più tardi, quando cominciò per mezzo di persecuzioni e di processi la più misurata, ma non meno feroce e sanguinaria, epurazione a freddo dei sospetti di civismo. Alle stragi di Mario succedono le proscrizioni di Silla.

A spiegare tanta e così subitanea mutazione non basta dire che le violenze e le ruberie dei Francesi, che l'anarchia dei governi da loro istituiti avevano ingenerato odio a sazietà siffatta che gli Italiani avrebbero accolto come liberatore anche il turco: conviene ammettere, come io dicevo da principio, che al soffio delle idee francesi la superficie soltanto della vita italiana si era mossa: che era spuma e non onda quella che s'era sollevata. La natura italiana, nonostante l'apparente consenso generale, non era stata toccata profondamente nel suo organismo dalle novità francesi: un accesso violento di febbre che la paura ed il contatto coi Francesi avevano provocato, l'aveva turbata momentaneamente: passata la paura, cessato il contatto, le tendenze naturali, sentendosi di nuovo libere di sè, avevano ripreso il sopravvento ed avevano per reazione ecceduto nel volere dalla vita italiana espellere ciò che l'importazione straniera vi aveva introdotto.

*

Altri stranieri avevano dominato nei secoli precedenti l'Italia; ma nessuno, prima dei Francesi, aveva voluto d'un tratto e per forza innestare la propria vita, le proprie idee, le proprie ispirazioni nella vita italiana: ciò che delle costumanze e del pensiero spagnuolo era rimasto fra noi, era stato assorbito per lento e spontaneo infiltramento nel volgere di molti anni. Del resto, che la violenta imposizione dei principii della rivoluzione francese non solo si sia esercitata sopra un terreno che in nessun modo era disposto ad accoglierla, ma che sia venuta ad interrompere bruscamente il naturale svolgimento della vita italiana, quando appunto cominciava a rinnovarsi da sè, lo mostra il fatto che neppure il vivere più composto e ordinato di altri quindici anni della dominazione francese restaurata fra noi nel primo anno del secolo, hanno potuto radicarli. Certo per legge di adattamento essi poterono in quegli anni guadagnar terreno e lasciarono traccia di sè in molti che si erano trovati in condizione di vederne e di gustarne i benefici: ma la grande massa del popolo italiano fu lieta che la reazione del 1815 – più fortunata e più durevole di quella del 1799 – rimettesse le cose come erano prima che i Francesi ponessero il piede in Italia, e s'adagiò soddisfatta nel suo nuovo sonno, dal quale soltanto la lenta e graduale preparazione di mezzo secolo potè destarla e metterla in condizione di poter guardare con occhio sicuro il sole della libertà.

Un uomo avrebbe potuto anticipare l'aurora di questo sole: Napoleone Bonaparte se egli, quando fu padrone di sè e non doveva render conto ad alcuno, come prima al Direttorio, dell'opera sua, avesse voluto essere italiano soltanto e si fosse proposto di riprender le fila della tradizione italiana là dove l'orrore per la rivoluzione francese, poi le armi di Francia le avevano spezzate. Ma quando calò per la seconda volta nella penisola per metter fine alla reazione che da tredici mesi vi imperversava, e d'un sol salto, colla battaglia di Marengo, fu in sella e di nuovo ebbe in mano il freno di lei ch'era “fatta indomita e selvaggia„ egli non era più il giovane generale invaso dalla voglia d'afferrare per i capelli la gloria e la fortuna dovunque le avesse trovate. Gloria e fortuna le aveva già raggiunte e le teneva strette nel ferreo pugno. Era il primo console, il vero signore della Francia: se in altri tempi egli aveva potuto accarezzare la possibilità di congiungere la propria fortuna alle sorti d'Italia e di far servire gli interessi e le aspirazioni di questa alle sue personali mire d'ambizione e di dominio, ora che il 18 brumaio aveva trasformato i suoi più alti sogni in una realtà e trascinata la Francia ai suoi piedi, l'egoismo suo s'era immedesimato del tutto con questa. Non vedeva più che la Francia nell'Europa, e solo sè nella Francia: tutto nel mondo, l'Italia per la prima, la più cara delle sue conquiste, doveva servire alla gloria, alla grandezza, agli interessi della Francia perchè queste erano la gloria, la grandezza, l'interesse di lui.

L'uomo della rivoluzione era finito col secolo ch'era morto. Colui che con Marengo aveva aperto il secolo nuovo, dalla rivoluzione, attraverso la quale era salito, aveva cominciato a staccarsi: non ne aveva più bisogno, anzi la temeva e voleva per ciò all'opera distruggitrice e disgregatrice del popolo far succedere quella ricostruttrice ed ordinatrice dell'uomo di Stato. Disgraziatamente l'uomo di Stato non era meno rivoluzionario del popolo: le forme della ricostruzione furono diverse perchè personali, ma il metodo finì coll'essere lo stesso: la prepotenza, l'arbitrio, la violenza, il capriccio, la collera, la passione.

Al popolo italiano s'annunciò uomo d'ordine nelle prime parole che gli diresse dopo la vittoria: “Il popolo francese viene per la seconda volta a spezzare le vostre catene. Quando il vostro territorio sarà compiutamente sgombro dal nemico, la repubblica sarà riorganizzata sulle basi immutabili della religione, dell'eguaglianza e del buon ordine.„ Dell'antica formula rivoluzionaria restava la sola eguaglianza: ciò che anche di questa restava, poteron scorgere subito i Milanesi quando, dopo la vittoria di Marengo, videro il Bonaparte andare in Duomo per assistere al Tedeum sotto il baldacchino che soleva essere preparato per i soli sovrani, circondato da uno stato maggiore tutto oro e ricami, preceduto e seguito dalle guardie consolari, con isfoggio di divise, di livree, di velluti, di pennacchi e di ornamenti che ricordavano le pompe spagnolesche del tempo antico. Cominciava il Bonaparte ad avvezzare gli occhi dei liberi cittadini, prima di trasformarli in sudditi, alla teatralità dello spettacolo della sua grandezza: non è lontano il tempo che tutto il mondo sarà in livrea per far cornice e contrasto al suo grigio cappotto.

L'Italia non ebbe per il momento che ordinamenti provvisori: altre cure chiamavano altrove lui che da solo voleva sostenere il carico della reazione dell'Europa intiera. Soltanto allorchè ebbe costretto tutte le orgogliose monarchie dell'antica Europa a stringere la mano vittoriosa con cui offriva loro la pace, pensò ad ordinare più stabilmente la nostra penisola. Era tempo: la verace e saggia libertà che si era attesa da lui non era venuta; le corruzioni, i disordini, le prepotenze degli amministratori e delle amministrazioni provvisorie, le spogliazioni, le requisizioni, le rapine, naturali conseguenze della guerra, si erano rinnovate, come dal primo triennio della dominazione francese ed avevano di nuovo resa odiosa la libertà.

V'era in Italia una popolazione che il Bonaparte prediligeva fra tutte: quella che dalle Alpi per le pianure lombarda, emiliana e romagnola si stende al di qua ed al di là del Po fino all'Esino. In mezzo ad essa, nel 1796, aveva vissuto i suoi giorni migliori, quelli delle prime glorie, che son sempre le più care, e gli pareva che là battesse il vero cuore della nazione italiana: certo di là gli eran venuti gli uomini che meglio fra noi lo avevano compreso e secondato e che ancora lo circondavano. Per ciò, dopo Campoformio e contro le istruzioni del Direttorio, le aveva permesso di formare col nome di repubblica Cisalpina una forte unità di Stato, ed alla nuova repubblica aveva dedicato cure e lasciato intravvedere alti destini e più larga unità.

Se il Bonaparte non volle mai dell'Italia tutta

 
le disciolte
Membra legarle in un sol nodo e stretto,
 

lasciò però, che anche dopo il suo ritorno nella penisola questa unità cisalpina risorgesse e rimanesse, della intiera nazione italiana, quasi il simbolo, in attesa – ei lasciava creder di prometterle – che tempi migliori le permettessero di esserne il nucleo. Ma intanto volle esserne egli il padrone e la guida. Conclusa la pace generale, ne chiamò a consulta i rappresentanti perchè studiassero un nuovo ordinamento di repubblica rispondente ai bisogni della lor nazione ed alla volontà sua; li chiamò a Lione, in terra straniera, davanti ai suoi ministri francesi ed a sè stesso e della lor nuova repubblica volle che lo eleggessero presidente.

Che importava? Ma con la nuova repubblica, che fu detta italiana, usciva finalmente e per la prima volta dopo tanti secoli di storia assumeva valore politico questo nome significativo di ideali e di speranze che già erano nell'intimo pensiero o almeno nel sentimento di molti; ma della nuova repubblica il Bonaparte affidava le redini, come a vice presidente, al Melzi, l'italiano per integrità di carattere, per altezza d'ingegno, per nobiltà di propositi più rispettato, l'uomo che dell'avvenire d'Italia ebbe forse la più chiara visione e la più sicura coscienza. Le circostanze e la volontà del Bonaparte non permisero che quel nome d'italiana assumesse più largo e più vero significato: chè delle altre parti d'Italia già pervenute in mano di lui o che vi pervennero poi, preferì o formare dipartimenti francesi o mantenerle isolate o aggrupparle artificiosamente fra loro, anzichè allargare i confini della repubblica italiana. Ma le speranze che nel Melzi erano state concepite, cominciarono a divenir realtà: egli purgò la repubblica dalla corruzione, restaurò il senso morale e la giustizia, ed iniziò con mano tranquilla, con larghezza di vedute e con audacia temperata dal senso pratico ch'egli aveva della vita, un'opera lenta di ricostruzione sociale e politica, la quale poteva assicurare allo Stato lunga vita e sicura. Parve un'êra nuova di prosperità e di benessere che s'aprisse: pur troppo non fu lunga nè libera di difficoltà e di ostacoli. I maggiori di questi venivano di Francia. Il Bonaparte aveva detto alla Consulta di Lione: “Voi avete bisogno di leggi generali e di costumi generali. Non avete eserciti, bensì avete gli elementi per crearli.„ E la repubblica italiana ebbe per opera del Melzi savie leggi generali, e pose le basi di quell'esercito che doveva essere la miglior scuola della nazione italiana e che restò la visione gloriosa e più di frequente evocata dai forti italiani, quando tornò per loro il tempo dell'inerzia.

 

Anche quello che il Bonaparte aveva chiamato il costume, cioè il carattere ed il sentimento nazionale, si era proposto e si studiò il Melzi di formare: aveva accettato di essere l'uomo del Bonaparte rispetto alla nazione italiana e voleva essere – ei diceva – anche l'uomo della nazione rispetto al Bonaparte; ma perchè potesse raggiungere così nobile intento conveniva che cessasse l'asservimento alla Francia. Il contatto coi Francesi era troppo continuo, perchè non fosse cagione di spiacevoli contrasti: la dipendenza dalla Francia troppo diretta e troppo presente perchè gli interessi di questa non avessero a prevalere su quelli che avrebbe imposto la nazionalità della serva e più bisognosa sorella. E invece che diminuire l'asservimento diventava ogni giorno più duro, e più ferrea e più imperiosa si faceva sentire la volontà di Napoleone. Prima erano consigli e raccomandazioni al Melzi: diventarono poi ordini e ingiunzioni fatte – nonostante l'affetto e la grande stima che il Bonaparte nutriva per il patrizio milanese – con quel tono secco di militaresca villania che al Talleyrand faceva dire col suo fine sorriso: – “Peccato che un uomo di tanto ingegno sia tanto male educato!„ Il Melzi era costretto quasi sempre a piegare il capo: non vi si rassegnava però che riluttante e dopo di avere con coraggio, che era già di pochi e che presto non sarebbe stato di nessuno, tentato di persuadere e di resistere.

Di mano in mano che il Bonaparte si avvicinava alla corona imperiale, tanto più invadente, accentratrice si faceva la personalità sua: ogni azione altrui dalla sua restava soffocata e distrutta: una volontà sola, una sola vita vi doveva essere in Europa, la sua.

Il Bonaparte fu chiamato il primo dei controrivoluzionari: e per vero egli aveva creduto di fermar l'opera della rivoluzione rimettendo la società sopra le basi donde la rivoluzione l'aveva spostata: l'ordine e la religione. L'operosa ricostruzione interna del consolato, la pace generale con l'Europa, il Concordato col papa parevano nel 1801 voler mantenere la promessa. Ora il Cesarismo lo aveva ricondotto di nuovo là dove la rivoluzione con la violenza era giunta. Non la Francia soltanto, ma l'Europa intera turbata; principi e popoli in istato di continua instabilità ed in pericolo di sovvertimento ad un sol cenno di lui; il Pontefice, come ai tempi della rivoluzione, strappato alla sua sede e trascinato in Francia e le coscienze religiose turbate.

Seguirlo in questa fase ultima della sua vita politica non tocca a me nell'ordine di queste letture; è giunto il momento in cui la individualità del Bonaparte ha talmente assorbito la vita di tutta l'Europa da formare con essa una sola ed indivisibile cosa. Napoleone è già il Giove terreno che fulmina, che riceve gli incensi, che si sente al difuori e al disopra del genere umano.

 
E torrenti di luce il sol diffuse
Napoleone Dio, Napoleone!
Rispondeva la terra, e il ciel si chiuse.
 

Miseri mortali costretti a vivere fuor delle loro condizioni normali, ad obbedire senza discutere, ad ammirare sempre; sempre in attesa di qualche colpo di scena che d'un tratto muti le loro sorti; sempre nel timore che un segno di penna annulli la loro esistenza, che li privi delle sostanze, che strappi i lor figli alla casa paterna e li balzi qua e là per tutta l'Europa. Mai la ragion di Stato aveva annientato tanto l'individuo! Nulla aveva più valore nella vita dell'uomo privato, nè in quella dei popoli. Che importa alla storia sapere quali principi Napoleone abbia posto sui troni o quali ne abbia balzati? restano ombre prive di corpo, nomi vani, quando attraverso ad essi non si vada a cercare il sole che li illumina e li vivifica. Che importa sapere come Napoleone abbia riunito all'impero francese l'uno dopo l'altro il Piemonte, poi Genova con la Liguria, poi Parma, Piacenza, Lucca, poi la Toscana, dopo averne fatto un effimero regno d'Etruria, e da ultimo Roma? Quali destini serbava all'eterna città quando, attingendo ancora una volta alla forza della sua tradizione gloriosa, faceva di essa la seconda metropoli dell'impero, poi del figlio lungamente desiderato, un re di Roma? Ne voleva far centro della nuova nazione italiana? Chi può seguirlo attraverso il fantasmagorico mutare e rimutare della sua volontà, e cogliere in mezzo il barattare continuo di troni e provincie, quale sia l'ultima mira dell'azione sua?