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I Francesi in Italia (1796-1815)

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Poichè le città italiane – salvo poche eccezioni dovute a ragioni locali – non si sollevano contro gli antichi governi, non cacciano i loro principi: quando con la fuga o con la sommessione questi han ceduto alle arti od alle armi dei Francesi e queste ultime sono vicine, allora soltanto l'entusiasmo per la libertà scoppia e si manifesta con tutti i suoi eccessi. E non v'ha dubbio che, se i primi a dar la mossa son coloro che per segrete intelligenze o per spontanea esaltazione o tendenza nell'animo oppure per interesse o per speranza di nuova fortuna o di vendetta o anche di riparare ad un passato non bello, già erano disposti ad accogliere a braccia aperte i Francesi; se altri non pochi son tratti a seguire quei primi dall'irresistibile fascino che esercita sul volgo e sui deboli l'esempio, nella maggior parte della popolazione il desiderio improvviso di libertà non è che l'effetto – pare un paradosso – della servilità dell'animo. L'abitudine, per l'azione continuata di secoli compenetrata nella natura italiana, di accogliere col viso sorridente i padroni venuti dal di fuori, di piegare con ossequiosa obbedienza il capo dinanzi a chi, legittimamente o no, ha in sua mano la forza materiale, di adularlo, di compiacere premurosi ad ogni desiderio suo, trae la massa del volgo a secondare – benchè non siano le consuete che mostravano gli altri padroni – anche le voglie dei Francesi, i quali del resto prepotenti sono come e più degli altri.

Ai Francesi piacciono gli applausi, vogliono che si balli, che si canti, che si stia allegri, che si dica che essi sono fratelli e son liberatori, desiderano che si imiti la loro rivoluzione, e gli Italiani

 
“liberi no, ma in altro modo schiavi„
 

si rompono compiacenti le mani per applaudirli, ballan con furore, cantano a squarciagola, si proclamano ai quattro venti i fratelli più grati e più felici della liberazione ottenuta, e come istrioni – usiamo l'espressione del Foscolo – si studiano di scimiotteggiare e di esagerare l'andatura alla brava ed il sistema democratico dei loro padroni.

*

Sull'acquiescenza servile di questo volgo incurioso ed inerme che l'ignoranza, la paura e la superstizione hanno abbrutito, il Bonaparte era ben certo di poter far calcolo: le minaccie di feroci rappresaglie, seguite dai sanguinosi esempi di Binasco, di Pavia e di Lugo, furono più che sufficienti a mettere un freno alle velleità di resistenza, cui qua e là – specie nelle campagne – parve dapprima che esso, per i consigli e le istigazioni altrui, volesse cedere. Ciò però non bastava al Bonaparte: egli voleva formare – come scrisse al Direttorio – l'opinione pubblica, donner la tournure à l'esprit, per modo da renderlo favorevole alla rivoluzione che portava in Italia. Per ciò egli cercò subito e di proposito di attirare a sè le classi più alte e più colte. La conquista degli animi fu metodica, come metodico e quasi uniforme era stato, ne' più minuti particolari, il procedimento che egli ed i generali francesi avevano adoperato fin dal principio nell'occupare le città e gli Stati italiani.

Il Bonaparte sa di essere venuto in mezzo ad un popolo conservatore per indole e religioso per fede e per abitudine: perciò s'adopra prima di tutto a rassicurarlo che nè la religione nè la proprietà saranno toccate. Lascia che gli ardenti, che gli ingenui, che coloro i quali, nulla avendo da temere o da perdere per sè, son sempre pronti a ficcarsi in prima fila, diano la stura a tutto il repertorio della rettorica democratica; lascia che costoro – rassicurati e fatti audaci dalla presenza delle armi francesi – si abbandonino a manifestazioni esagerate del loro patriottismo di fresca data e dei loro nuovi principii, ma esteriormente soltanto e in quanto tali manifestazioni possono essere buon lievito a gonfiare l'ardore delle masse e stimolo a chi ha bisogno d'essere spronato per muoversi. Ma quando vorrebbero e potrebbero scendere all'azione cui egli sembrava li avesse spinti, li contiene e li frena, perchè nè il sentimento religioso dei più ne riceva ombra od offesa, nè le classi più alte e più agiate abbiano ragione di temere pericoli per sè o per le cose loro. Agli uomini del medio ceto composto, fra noi, di avvocati, di letterati, di medici, di artisti, di commercianti, molti de' quali son già disposti dalla loro educazione ad accogliere le dottrine che da un pezzo la filosofia francese ha messe di moda, il Bonaparte apre le braccia e fa credere d'esser venuto per scuotere il giogo che li opprime e che per verità ad essi era parso molto leggiero: ne solletica la vanità o l'ambizione: offrendo impieghi ed onori fa brillare ai loro sguardi ideali di grandezza e di libertà. Ma per accoglier costoro non respinge da sè il clero e la nobiltà: chè quello è autorevole e questa non suscita odii ardenti, come in Francia, ed ha molte aderenze: clero e nobiltà dal canto loro, per abitudine e per educazione, sono concilianti e quasi senza resistenza si prestano, parte per paura del peggio, parte per speranza del meglio, a secondarlo.

Quanti nobili e quanti prelati, fatti cittadini, non accompagnarono poi nelle fortunose vicende della sua vita il giovane côrso del quale vedevano allora spuntare l'aurora! E come pronto ed acuto fu l'occhio di lui a penetrare nel cuore e nella mente di quanti lo avvicinavano e a discernere, fra la folla degli adulatori che gli faceva calca intorno, gli uomini, fino allora ignoti a sè stessi, che per le qualità dell'ingegno e dell'animo eran degni ch'ei facesse calcolo sopra di loro; e come seppe senza esitare stendere ad essi la mano per innalzarli e metterli al suo fianco! Alla folla il trastullo delle pompe e delle forme, l'ebbrezza delle esagerazioni: questi pochi, tratti nell'intimità e nella fiducia sua, educava e provava alla vita pubblica, rendeva devoti e legava a sè, aprendo alle loro menti nuovi orizzonti e facendo ad essi balenare lontane speranze per la lor patria, forse allora sincere.

Intanto ben diversa e dolorosa era la realtà che il Bonaparte poteva loro offrire. Questa Italia che egli sentiva essere sua personale conquista e per la quale vedeva disegnarsi e andava vagheggiando ideali che pochi anni dopo l'egoismo suo, prevalendo, troncò, la sapeva riserbata, nei reconditi disegni del Direttorio e dalle necessità politiche della Francia, a pagare le spese della pace con l'Austria dopo che avesse pagate alla Francia quelle della guerra. Ei doveva perciò sfruttarla, dissanguarla, cavarne tutto il succo vitale per provvedere ai bisogni dell'esercito, alimentare la sua impresa, e non offrire all'Austria che un limone spremuto. E doveva in pari tempo impedirle di acquistare tale saldezza di ordinamenti, così larga unione delle sue parti e così libera autonomia di esistenza che potessero poi esser d'ostacolo al mercato per cui la conquista era fatta. Onde la instabilità degli effimeri stati democratici che all'ombra delle sue vittorie o col conforto di molte promesse, lasciò sorgere nella penisola.

Piccole repubbliche che si pavoneggiavano nei nomi gloriosi dell'antichità classica, ma che funzionavano sopra una copia, ridotta per comodo dei Francesi e per illusione degli Italiani, della costituzione dell'anno V; che menavano vanto e discutevano con calore e a grandi frasi dell'esercizio della libertà cui eran chiamati, che evocavano ad ogni momento le ombre di Bruto, degli Scipioni e magari di Camillo ed erano poi allo sbaraglio del primo caporale Gallo che volesse essere insolente. Generali, commissari, agenti ordinatori, requisitori straordinari ed ordinari, civili e militari venuti di Francia, tutti comandavano, tutti insolentivano con prepotenza, tutti credevano di avere il diritto di prendere per un orecchio e trattar da padroni questi uomini liberi. E, come tutti comandavano, così tutti intascavano. Parevano uccelli di rapina calati su di un campo di battaglia: non erano mai sazii: tutto faceva per loro: oro, argento, viveri, quadri, oggetti d'arte, persino i pegni del Monte di Pietà! Nel nome del Direttorio la spogliazione si eseguiva in grande con la garanzia di trattati e di compromessi e per mezzo di dotti e non dotti ufficialmente investiti nella missione di far scelta – in lingua più povera si direbbe rubare – del meglio che trovassero nelle gallerie, nei musei e nelle casse pubbliche. Ma alla spogliazione ufficiale s'aggiungeva la privata. Chiedendo a titolo di dono i più riguardosi, gli altri mettendo gli artigli impudentemente – la parola è del Bonaparte – su quel che loro piaceva, ciascuno cercava di non tornare a mani vuote al di là delle Alpi. E non era giusto che gli Italiani pagassero il beneficio della libertà che i Francesi – bontà loro – avevano portato? i Romani nella Grecia non avevano fatto lo stesso? Ma Mummio, erano gli Italiani che lo ricordavano: i Francesi parlavano invece di Catone e continuavano a frugare nelle tasche dei loro nuovi fratelli. – “Cappello in testa e mani nelle tasche!„ – consigliava in quei giorni di democrazia invadente il Parini ad un campagnolo che per timidità o per abito di cortesia non sapeva stare dinanzi ai magistrati col capo scoperto. Il Parini, al quale il Monti nella Mascheroniana pone in bocca:

 
il dolor della meschina
Di cotal nuova libertà vestita
Che libertà nomossi e fu rapina.
Serva la vide, ohimè, serva schernita.
 

Oh l'Italia pagò cara questa libertà! e s'avvide da ultimo di non stringere che un pugno di mosche. Quando il Bonaparte lasciò la penisola e a questa venne meno con esso anche il freno che fino allora aveva contenuto la più sfacciata ruberia ed impedito il trionfo della demagogia piazzaiuola, già della libertà erano stanchi anche coloro che più sinceramente le erano mossi incontro. I più abili ed i più onesti, dopo avere indarno tentato di reagire contro tanta rovina delle loro speranze e dei loro ideali, dopo aver cercato inutilmente di arrestare l'onda invadente nella vita pubblica degli elementi più torbidi e più violenti che il cieco favor popolare e il non disinteressato favore dei generali e commissari francesi sospingevano innanzi, s'erano ritirati in disparte. Il contrastare degli avidi, il rubare dei disonesti, le piccole prepotenze dei cittadini che avevano il governo di nome e le grandi dei Francesi che lo esercitavano di fatto, la confusione delle attribuzioni, gli odii, le calunnie, la intemperanza del linguaggio avevano, in tre anni, gettato l'Italia nello stato della più completa anarchia.

 
*

Allora appunto, nel 1799, cominciò la reazione antifrancese: ma, come la rivoluzione, anch'essa venne fra noi dal di fuori.

Quasi ad un tempo fu trionfante alle due estremità della penisola.

Dalle Alpi calò in Lombardia il maresciallo Suwaroff, il terribile tartaro che aveva massacrati gli ultimi eroi della libertà polacca, e guidava Austriaci e Russi: piombò in Calabria dalla Sicilia il cardinale Fabrizio Ruffo e lo seguiva un'orda disordinata di borbonici, di briganti, di preti, di frati e di contadini che lungo il cammino diventò folla. Un medesimo odio contro la rivoluzione guidava l'uno e l'altro, il fanatico maresciallo scismatico, l'accorto principe della Chiesa romana: pronti erano entrambi a qualunque eccesso pur di far trionfare Cristo ed il diritto divino dei re.

Nuovo Attila, il Suwaroff, e come lui terribile nella bruttezza ripugnante del volto e della piccola persona, si gittava furibondo in mezzo alla mischia cogli occhi iniettati di sangue, e tenendosi ritto su di un selvaggio cavallo della steppa, correva seminudo sotto una bianca e lunga camicia tartara, donde pendevano decorazioni e reliquie, fra le file de' suoi incitando alla strage, dandone l'esempio: i suoi urli erano di belva inferocita, le pose e i gesti teatrali: quando s'incontrava in una croce o in una immagine sacra scendeva da cavallo, si gettava bocconi e colla testa beluina nella polvere baciava il suolo.

Il Ruffo, maestoso nella eleganza signorile della porpora cardinalizia, incedeva sereno in mezzo alle turbe furibonde e fanatiche de' suoi nuovi crociati. Dalla sua bocca di miele uscivano parole che suonavano pace e perdono cristiano, ma che sulle turbe le quali lo ascoltavano col cuore invasato di sacro odio producevano l'effetto di staffilate: gli sciagurati che s'eran fatti nemici della religione e del re e che conveniva richiamare, per salvezza delle anime loro e per tranquillità e sicurezza degli altri, alla fede di cristiani e di sudditi, ei li additava con la punta della spada: con la croce benediceva le schiere che tornavano dalle stragi sanguinose: di tratto in tratto fermava i suoi ad una chiesa ed intonava il Tedeum al Dio della vittoria.

Una lunga traccia di incendi, di stupri, di saccheggi, di rapine, di lascivie per cui il Suwaroff menava vanto e gli brillavano gli occhi di gioia e il Ruffo mostrava di vergognarsi e dolersi, segnava il passaggio in Lombardia e nel Regno delle milizie oltremontane e nostrane della Santa Fede: e dietro la traccia, e per allargarla, accorrevano, come iene attratte dall'odore della preda e del sangue, sempre nuove turbe di insorgenti e più feroci, fiutando se vi eran superstiti alle prime stragi, cercando se trovavano avanzi delle prime rapine, insaziabili per timore che le vittime venissero loro a mancare.

Col successo il contagio si diffonde dalle estremità nel centro d'Italia. Un selvaggio furore sembra invadere le tranquille e gentili popolazioni della Toscana, dell'Umbria e delle Marche: cadono gli alberi della libertà e sorgono per ogni dove le croci; cessano lo squillar delle trombe e il rullar dei tamburi; fra un lento e continuo suonar di campane, echeggiano da ogni parte grida selvaggie di Morte ai Giacobini, Viva Maria! Moltitudini sterminate di contadini armati di picche, di falci, di fucili si muovono quasi in processione militare dai loro borghi, si organizzano in bande, improvvisano capi. Centro dell'armata della fede è in Toscana, Arezzo: generalessa una donna, Alessandra Mari da Montevarchi che, novella Giovanna d'Arco, portando un'imagine della Vergine, precede a cavallo la turba aretina e la conduce delirante d'odio e di fede, fra il canto delle sante litanie, alla caccia dei Francesi, dei giacobini, degli ebrei, di tutti i nemici della fede.

D'onde in ogni parte di questa Italia, che ieri pareva delirare d'entusiasmo per i Francesi, d'amore per la libertà, sono sbucate d'improvviso tante masse cristiane e così numerosi sanfedisti? Dove si tenevano finora nascosti, e come tanto odio non visto covava? E dove sono ora i molti che smaniosi di godere e di esercitare i diritti del cittadino facevano ressa attorno ai pubblici uffici? i non mai sazi di libertà? gli energumeni, i declamatori delle tribune, dei giornali, delle piazze che parevan non trovar sufficienti parole per affermare e ripetere il loro risoluto proposito di sacrificare la vita piuttosto che la libertà acquistata?