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I Francesi in Italia (1796-1815)

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Cui precedeva in fervide, volanti
Rote il Colli, gridando: Avanti! Avanti!
 

è descritto colla più schietta comicità.

Questa impresa costò al Papato la Romagna, nuovi milioni, altri quadri ed altre statue: sarebbe costata di più se il Bonaparte, prevedendo vicino l'ultimo e supremo duello col maggior capitano dell'Austria l'Arciduca Carlo, non avesse spontaneamente fatte insperate aperture di pace.

Anche l'Arciduca Carlo fu vinto ed il Bonaparte dettò davanti a Vienna i preliminari di Leoben seguiti poi dalla pace di Campoformio, che costò alla repubblica di Venezia la libertà. Per compiacere alle prepotenze francesi l'antica repubblica s'era umiliata, s'era spogliata della toga e dell'ermellino, aveva sostituito col democratico berretto frigio l'aristocratico berretto ducale e aveva bruciato il libro d'oro; compiacente, l'antico Leone aveva voltato pagina e sull'ex-Vangelo la sua zampa additava i diritti dell'uomo e del cittadino: ma ora che i neo-patrioti danzavano festosi attorno all'albero della libertà, inneggiando alla redenzione che il sangue delle Pasque veronesi ed il danaro di Pantalone avevano pagato, il Bonaparte faceva mercato di loro e del loro territorio coll'Austria. Mai tradimento sembrò più perfido e fu più vituperato: le parole commosse di Jacopo Ortis vengono sulle labbra. “Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, se pure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere la nostra sciagura e la nostra infamia… Non accuso la ragion di Stato che vende come branchi di pecore le nazioni; così fu sempre e così sarà: piango la patria mia che mi fu tolta e il modo ancor m'offende!„

Quando l'Austria ebbe deposte le armi, ai principi italiani venne a mancare ogni speranza, ai Francesi ogni riguardo. E fu un subito fiorire di democrazia ed un crollare di troni da un capo all'altro d'Italia, che continuò anche quando il Bonaparte, lasciata l'Italia, andò a raccogliere a Parigi, negli applausi e nella ammirazione popolare, il cercato compenso della sua fortunata impresa, ed a conquistare nell'Egitto nuovi allori e nuova popolarità. Già la repubblica genovese v'era sbattezzata: sfuggendo dalle mani patrizie dei discendenti dei Doria, dei Grimaldi, degli Spinola, la Superba era caduta in quelle imbrattate di triaca dello speziale Morando ed aveva insieme con le vesti democratiche, creduto di poter assumere i petulanti atteggiamenti della democrazia francese di fronte alla vicina monarchia sabauda. Povero e santo re Carlo Emanuele IV! Come poteva la devota semplicità dell'animo suo, fatto piuttosto per obbedire e soffrire entro un monastero che per comandare e lottare su di un trono, far fronte alle provocazioni, alle insidie, ai raggiri entro cui d'ogni parte i Francesi l'avvolgevano, in casa e fuori, pur di metter le mani sui dominii di lui e farne un dipartimento francese? Contro le perfidie degli uomini egli volgeva gli occhi al Cuore di Gesù e pregava: e intanto con la dignitosa e paziente rassegnazione di un martire, si lasciava toglier di dosso a brano a brano ciò che gli dava aspetto di monarca: gli restava ancora la corona, depose anche quella, poi povero – chè non volle portar seco nè i gioielli della corona nè il danaro che aveva nelle sue stanze – prese la via dell'esilio. Degli aviti dominii non gli restava che la fedele e povera Sardegna: l'offrì a Pio VI, l'ottantenne vicario di Cristo, che i Francesi avevano strappato al Vaticano e tratto prigioniero nella Certosa di Firenze.

L'uccisione del temerario generale Duphot era stata l'occasione cercata per togliere al pontefice ciò che dei dominii della Chiesa gli era rimasto e la libertà, e per proclamare dall'alto del Campidoglio risorta la Roma dei Bruti, dei Catoni e degli Scipioni.

Vindice della Cristianità colpita nel capo della Chiesa osò presentarsi Ferdinando di Napoli: gli davano forza gli energici incitamenti del Nelson e più la certezza che gli Inglesi fossero pronti a fargli spalla.

 
Con soldati infiniti
Si mosse da' suoi liti
Verso Roma bravando
Il re don Ferdinando,
E in pochissimi dì
Venne, vide e fuggì.
 

E con tanta paura fuggì da non tenersi sicuro finchè fra i Francesi che l'inseguivano, e sè, la sua Corte, i suoi tesori, non ebbe interposto il mar di Sicilia. Sorse allora – fiore di pura bellezza – in quel terreno mal preparato, dove una plebe oziosa e corrotta imputridiva al sole e dinanzi al mare nell'ignoranza e nella superstizione, la Repubblica Partenopea. Lo coltivarono pochi eletti ingegni che lo studio dell'antica filosofia aveva rinvigorito e nobilitato: e s'illusero – e ne pagarono poi il fio con la vita – che l'esempio della virtù operosa avesse forza di trascinare i lazzaroni, e che l'aiuto e la protezione dei Francesi potessero essere disinteressati e sinceri.

Caduto il regno di Napoli, venne la volta della Toscana. Lucca repubblica dovette per forza democratizzarsi e far il viso allegro. Al Granduca Ferdinando non bastò l'aver spinto la longanime arrendevolezza fino ad annunciare ai suoi sudditi che avrebbe considerato come una prova di fedeltà e di affetto per lui le buone accoglienze che essi avrebbero fatte ai Francesi i quali venivano, ed ei lo sapeva, ad occupare le sue città. Quando questi ebber posto piede in Firenze, gli intimarono di partire entro 24 ore, ed egli se ne andò.

Così l'onda della rivoluzione aveva percorsa tutta la penisola e tutta l'aveva sovvertita. Restavano in piedi degli Stati che i Francesi vi avevano trovati, due soli e parevan esservi rimasti a derisione del passato: la repubblica di San Marino ed il piccolo Stato del bigotto campanaro di Parma.

*

Nè soltanto mutati erano gli ordinamenti politici ed ai principati antichi sostituite repubbliche nuove: pareva che anche nel popolo italiano mutata si fosse d'un tratto la disposizione degli animi. Gran maestri ed insuperati furono – e sono sempre – i Francesi nell'arte difficile di mettere in iscena commedie e pur troppo anche tragedie politiche, con tutto l'apparato e la montatura che occorre perchè esse producano l'effetto voluto!

Sono scesi fra una popolazione che fino allora li aveva guardati con orrore e con terrore, nemica del chiasso, aborrente dal disordine e riposata nell'ozio, nelle inutili cure della galanteria e della piccola vita di tutti i giorni: con violenza, l'hanno strappata alla sua quiete, al suo ozio, ai suoi pettegolezzi graditi, al suo passato vuoto di passioni: eppure della loro violenza non hanno raccolto frutto di odio! Si direbbe anzi che la popolazione italiana altro non aspettasse che la loro venuta: tanta esaltazione e così rumoroso entusiasmo accompagna i Francesi ad ogni passo che muovono e così irrefrenabile sembra invader tutti un bisogno febbrile di muoversi, di agitarsi, di scrivere, di parlare, di urlare contro tutto quel passato che fino a ieri era venerato e temuto.

Sulla scena della storia italiana non si incontravano di solito prima che pochi nomi: quelli dei primi e dei sommi: il resto taceva o faceva il coro: ora è una folla di artisti che si affaccia: e tutti vogliono farsi sentire, tutti hanno la loro parte da recitare, la loro idea da lanciare e sopratutto il loro posto da prendere sul proscenio. Un vero bosco di variopinti e imbandierati alberi della libertà, una gaia fioritura di coccarde tricolorate ricopre d'un tratto tutta la penisola: e intorno a ciascun albero, nelle piazze delle città, nei sagrati dei borghi e delle ville, infuria la danza e s'alzano tonanti gli inni patriottici e le grida di evviva urlati da uomini e da donne d'ogni condizione ed età: nobili e popolani, preti, frati, soldati, dame e prostitute, tutti incoccardati, si danno la mano in fratellevole comunanza e girano e sgambettano attorno al nuovo emblema della rivoluzione che i Francesi hanno inventato:

 
Ecco l'arbor trionfale
A cui scritto intorno sta
In carattere immortale
Eguaglianza e Libertà.
 

A Milano un cappuccino si taglia la lunga barba e l'appende con la grigia tonaca, trofeo della sua abiura, all'albero della libertà: ed il Padre Appiani, sessagenario, professore di teologia, invaso da subito furore, dà spettacolo grottesco ed inverecondo di sè ballando in Duomo la Carmagnola. A Venezia fu vista una dama ballare con un frate, e caduti, rialzarsi e continuare la spigliata Carmagnola: esempio di virtù cittadina che fu pomposamente celebrato nel Monitore Veneto del tempo e al quale avevano dato occasione le prime nozze celebrate sotto il simbolico albero da un giovane e da una donzella veneziani, che v'andarono accompagnati da una bandiera col motto Fecondità democratica. È dolce l'aver figli che devono godere la libertà, diceva, in simile circostanza, la scritta d'un'altra bandiera. Ed appunto per favorire la moltiplicazione di questa figliolanza fortunata, Felice Lattuada, milanese, propugnava il divorzio, e Giambattista Giovio – più radicale – proponeva addirittura di ammazzare tutti i padri e tutte le madri nobili: così sarebbe stato possibile educare subito democraticamente i figliuoli.

Non si direbbe che una pazzia abbia invaso il popolo italiano? Un opuscolo del tempo è intitolato Milano all'ospedale dei pazzi; ma Milano non è sola: tutte le città grandi e piccole, dove i Francesi han posto il piede, sono in preda all'esaltazione. La rivoluzione francese non spaventa più: anzi se ne celebrano come avvenimenti patriottici e come trionfi dell'umanità democratica i più sanguinosi anniversarii: a Milano, con gran pompa fu festeggiato il dì anniversario che Luigi XVI ebbe tronca la testa sul patibolo; si gridò Morte agli aristocratici, e si portarono in giro e si affissero cartelloni con le scritte: Il fulmine colga tutti i re in un fascio! Il pugnale di Bruto possa spaventare gli schiavi di Cesare e gli imitatori di Antonio!

 

Non vi spaventi – o signore – tanta ferocia di linguaggio: non prendete sul serio le minaccie di questi improvvisati demagoghi che hanno la bocca sempre piena di pugnali, di corda e di ghigliottina, quasi fossero altrettanti Marat. A sentirli si direbbe che d'altro non si pascono che del sangue di aristocratici, di preti e di tiranni; che il loro ideale è battere sul tamburo la pelle di un papa con gli stinchi di un re. Non v'è più Dio o religione per loro: di Cristo si lavano la bocca o lo tollerano solo in quanto la democrazia gli permette d'essere considerato come primo autore del sanculottismo: i santi li hanno aboliti: le vie, le piazze, le porte ribattezzate: in teatro applaudono frenetici alle volgari scempiaggini di uno spettacolo che rappresenta turpi amorazzi e subdoli intrighi della Corte romana e vanno in visibilio quando da ultimo il papa, fatto cambio del triregno con un berretto frigio e offerto il braccio ad una madre badessa, dà il segnale di una specie di cancan cui tutti, sulla scena, partecipano, cardinali, monsignori, preti, frati, monache, soldati. C'è chi – novella Erodiade – offre su per i giornali la mano di sposa a chi le porterà sopra un bacile la testa del papa: ed è una giovanetta ventenne, figlia di un chimico di vaglia. C'è chi ha osservato che il ferro della ghigliottina, troncata la testa, s'imprime troppo profondamente nel ceppo sottoposto sicchè si deve penar molto a levarnelo. È un inconveniente che nuoce alla eleganza ed alla rapidità della patriottica operazione: bisogna toglierlo; e propone di mettere sotto il collo del paziente un pezzo di sughero. Non lo direste un boia consumato nell'esercizio delle sue funzioni? o almeno un dilettante appassionato di ghigliottina il quale studia i perfezionamenti dello strumento che ama, perchè funzioni regolarmente? Niente affatto: è Antonio Ranza, un semplice imbrattacarte il quale inonda di libri, di discorsi, di opuscoli, di proclami incendiari la penisola: un vecchietto sparuto che all'ombra di una lunga zazzera e d'un largo cappellaccio cova e sogna, senza tregua, cospirazioni e rivoluzioni: ma che non ha mai, che io sappia, intinte le mani nel sangue di alcuno. La sua passione la sfoga organizzando banchetti fraterni, piantando alberi della libertà, facendo concioni alla folla, denunziando colpe di anticivismo e di bigotteria, ma sopratutto scrivendo, scrivendo e scrivendo. Vede rosso… sulla carta e quando parla: e come lui, di questi patrioti, dei quali dice il Foscolo che “morte e sangue gridavano, feroci di mente mostrandosi, prodi in parole e ad ogni impresa impotenti„ ce ne sono molti, e sono quelli che hanno fatto tutto il rumore.

Così è anche di tutto questo movimento che la venuta dei Francesi ha provocato in Italia. In Francia, dove è uscita spontanea dalle intime condizioni del paese, la rivoluzione si fa sul serio: da noi, dove la violenza delle armi l'ha portata dal di fuori, la rivoluzione si rappresenta, e come attori di commedie, noi cerchiamo di farci il minor male che si può: perciò là son fatti e sangue, qui son parole e rettorica. In Francia le teste regie si tagliano per davvero: noi le tronchiamo o le cambiamo alle statue e di un Filippo II facciamo un Giunio Bruto, di Francesco d'Este una Libertà, di un Gregorio XIII un San Petronio. In Francia i nobili e i preti si imprigionano, si mandano a morte e i loro beni sono confiscati e venduti: da noi aristocratici ed ecclesiastici sono coperti, è vero, di contumelie e minacciati ogni volta che un patriota apre la bocca, ma alla fine dei conti ci contentiamo di atterrarne gli stemmi e di costringerli a chiamarsi cittadini, a portar la coccarda ed a giurare fedeltà… alla Repubblica francese. Si grida all'eguaglianza, ma si raccomanda anche ai nobili di non licenziare i loro servitori e di non smettere le carrozze perchè non si deve privare di lavoro e di guadagno il popolo. Il decreto che dichiara la patria in pericolo fa balzare l'un dopo l'altro dal suolo di Francia quattordici eserciti che corrono ai confini e salvano la patria: da noi su tutti i toni si parla di civismo, di amor di patria, di doveri patriottici, si esalta con parole reboanti l'acquisto fatto dei diritti del cittadino e sopratutto di quello di portare le armi: ma quando si trattò di armare davvero i cittadini e si volle a tal fine istituire la Guardia Nazionale, non bastò neppure l'assicurazione che non sarebbero condotti a combattere fuori della città, per indurre i cittadini ad inscrivervisi numerosi. E di chi furono in gran parte composte le prime milizie della libertà italiana, la legione lombarda, la cispadana, la polacca, se non dei medesimi mercenarii che già servivano l'Austria, il Duca di Modena ed il Papa e che la democrazia vituperava col nome di sgherri della tirannide? Del resto, qual prova più evidente di quanto fosse fittizio e superficiale il movimento rivoluzionario italiano, che il veder le popolazioni esultare per la libertà ricuperata e compiacersi de' suoi benefici nell'atto appunto che erano tratte a subire la peggiore delle tirannie, quella della violenza e dell'arbitrio militaresco?