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I Francesi in Italia (1796-1815)

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Del resto, finchè il Bonaparte non ebbe con le sue vittorie portata la rivoluzione fra noi e rotto l'incantesimo, non v'era alcuno in Italia, nè principe nè popolo, che non fosse certo della vittoria finale delle armi dell'Europa coalizzate. Dio ci prova: Dio alla fine deve vincere! si era sempre affermato: ma col Bonaparte era venuto per tutti il momento di dubitare e di domandarsi, come faceva il Papi, che cosa stava per accadere.

*

E dal canto suo, con quali intendimenti il Bonaparte poneva il piede in questa penisola donde, non più di dieci generazioni innanzi, erano usciti gli avi suoi che ai tempi del “popolo vecchio„ avevano seduto nei Consigli del Comune di Firenze e poi avevano partecipato alle gloriose e dolorose vicende della parte ghibellina di Toscana? In lui, che ora scende facile promettitore di libertà e rigido partigiano di democratica eguaglianza e che fra pochi anni tornerà restauratore dell'impero, parla ancora qualche voce del sangue antico memore dei tempi, nella lor rude semplicità felici, del viver riposato che Dante rimpianse per il Comune fiorentino, o fermentano ancora l'odio tenace e le speranze sempre rinnovate dei ghibellini, cui alimentavano il triste esilio e la grandiosa visione dell'aquila imperiale trionfante?

Non ignorava il Bonaparte queste vicende: i manoscritti laurenziani che per le cure del nostro Biagi e del signor Masson hanno di recente rivelato un Napoleone ancora sconosciuto, mostrano che nello studio quasi esclusivo della storia, leggendo, analizzando, riassumendo instancabile le opere di numerosi scrittori, si è venuta formando tra il 1786 e il 1792 la mente politica di lui, quale più tardi si rivela sul campo dell'azione. E fra gli appunti allora raccolti piace vedere un estratto di quella parte del secondo libro delle Istorie del Machiavelli dove è narrato dell'origine del Comune di Firenze e delle prime contese fiorentine fra guelfi e ghibellini fino all'ultima cacciata di questi.

Ma non quei lontani ricordi domestici, nè questi più recenti studi, ai quali si direbbe che talvolta, sia pur inconsciamente, obbedisca il genio di quel grande, parlavano alla mente di lui quando ai suoi soldati mostrava come campo di conquista l'Italia. Nè ritornando alla patria degli avi suoi, lo occupava il proposito, che più tardi, quando la mente ammaestrata dall'esperienza ritornava “ai dì che furono„, volle far credere essere stato il fine ultimo delle sue azioni politiche in Italia: e cioè di rinnovarne le glorie antiche e di prepararle quell'avvenire che nei pentimenti dell'esilio divinava non lontano e per il quale tutti i popoli della penisola, per comunanza di linguaggio, di costumanze, di letteratura formanti una sola nazione, dovevano riunirsi sotto un solo governo il cui capo si sarebbe insediato in Roma.

Egli cercava gloria: gloria per sè come mezzo di farsi valere e di imporsi a quanti allora in Francia primeggiavano e governavano. Per quale via avrebbe raggiunta la gloria che cercava, quale forma avrebbe assunto il primato che voleva conquistare, ei non vedeva allora, nè lo poteva: ma già in sè aveva la fede sicura, incrollabile di essere il più forte. Si vantò il Barras di averlo egli tratto fuor della volgare schiera degli innumerevoli ambiziosi che la rivoluzione aveva fatti salire a galla, e di averlo portato sulla grande scena politica col chiamarlo, il 13 vendemmiatore, a spazzare a colpi di cannone per la morente Convenzione le vie di Parigi: credeva il potente Direttore che soltanto al favore di lui dovesse esser grato il Bonaparte del comando dell'esercito d'Italia, ed ai suoi amichevoli uffici della mano da molti ambita della elegante e bellissima creola che era stata moglie del generale Beauharnais. E col Barras lo credevano tutti: non però il Bonaparte. Egli era convinto di non dover nulla a nessuno, tutto a sè stesso.

Giuseppina Beauharnais aveva piegato riluttante, come una capinera sotto l'occhio del falco, al fascino inesplicabile fatto d'amore e di spavento che lo sguardo dominatore del giovine côrso già esercitava tutto intorno a sè. Lo confessa ella stessa, aprendo l'animo ad un'intima amica, pochi giorni prima di consentire alle nozze fatali, le quali ebbero luogo la vigilia della partenza del Bonaparte per l'Italia. E soggiunge: “Barras mi assicura che farà ottenere al generale il comando supremo della nostra armata d'Italia, se lo sposerò. Allorchè ieri il Bonaparte mi parlò di questa preferenza, che, quantunque non sia ancora accordata, fa di già mormorare i suoi compagni d'arme, mi disse: – Credete che io abbia bisogno di protettori per far carriera? Un giorno essi si reputeranno felici se io consentirò a favorirli. Tengo la mia spada al fianco e col suo aiuto andrò lontano. – Cosa dite di questa certezza del successo? Non dimostra una fiducia nata da un immenso orgoglio? Un generale di brigata che vorrebbe atteggiarsi a fautore dei capi del governo! Non so come avvenga – continua Giuseppina – ma talvolta quella fiducia ridicola mi affascina al punto da farmi credere possibile tutto ciò che quest'uomo così strano abbia fissato di ottenere. E chi tenendo calcolo della sua immaginazione vivace può prevedere ciò che egli farà?„

Ciò che egli avrebbe fatto e qual uomo straordinario egli fosse, cominciò per la prima volta a rivelarlo alla Francia ammirata e all'Europa stupita ed intimidita questa sua spedizione d'Italia: e forse allora soltanto anche il Bonaparte cominciò a leggere più chiaro in quell'avvenire di grandezza che finora aveva sentito confusamente come suo.

Non era ancora finito il secondo anno della sua presenza in Italia e già in uno di quei momenti di intima espansione cui, nei rari intervalli che la guerra gli concedeva, amava di abbandonarsi nella splendida villa di Mombello, domandava ad uno de' suoi famigliari: “Che direste, o Villetard, se io mi facessi re di Francia?„ Di Francia non d'Italia; chè soltanto nella giovanile energia della nuova Francia, ei lo vedeva, gli sarebbe stato possibile di trovare le forze per salire tanto alto: l'Italia poteva essere il gradino, non il trono.

Ma io m'avvedo che mi accade ciò che pur era da prevedere come inevitabile: la figura di Napoleone è tanta parte degli avvenimenti di questa età che mi trae ad invadere il campo altrui: torniamo ai Francesi ed all'Italia.

*

Incominciò nel mese di aprile con impeto meraviglioso questa memoranda spedizione: la rapidità de' suoi avvenimenti – farò mie le parole di Alessandro Verri – ne rende breve il racconto. I Francesi col ferro, senza artiglierie, guadando fiumi, correndo veloci benchè scalzi, senza tende e vettovaglie, per quindici giorni continui sconfissero due eserciti, il piemontese e l'austriaco, e li separarono. Inseguirono il primo e al re di Sardegna, omai non più sicuro nella sua stessa reggia di Torino, dettarono i patti di Cherasco: poi gloriosi e sicuri alle spalle si volsero prontamente contro gli Austriaci, li sorpresero con la rapidità dei movimenti inaspettati, li batterono e li costrinsero ad indietreggiare, finchè ebbero dinanzi la fortezza di Mantova: era tutto ciò che alla fine di maggio restava della dominazione austriaca in Italia!

La Corte di Savoia per bocca del suo ministro degli affari esteri, aveva ammonito l'Austria: “Se i Francesi abbattono il Piemonte, l'Italia è perduta anche per la Corte di Vienna.„ E così fu. Posto che ebbero i Francesi il piede in Lombardia, nè cinque formidabili eserciti, nè i migliori generali dell'Austria, il Wurmser, l'Alvinzi, l'Arciduca Carlo, valsero a cacciarneli, o a fermarne la marcia vittoriosa su Vienna, e ad impedire che, fatto centro della Lombardia, dirigessero punte audaci tutt'all'intorno a dettar leggi alla penisola intiera, occupando città col solo presentarsi, traendo i popoli a sè con lo specchietto della libertà, facendo con lo spauracchio della guerra fuggire o scendere a patti i sovrani e tremare i governi.

Così, s'erano appena i Francesi affacciati all'Emilia, che già il Duca di Parma era prostrato ai loro piedi ed offriva milioni, quadri, buoi, viveri, foraggi, purchè non entrassero nella sua capitale. Buon per lui, allora e finchè visse, che la pace conclusa da poco fra la Repubblica francese ed i Borboni di Spagna, alla cui famiglia egli apparteneva, stendesse la sua ala protettrice anche sopra il suo capo: sicchè egli dovette, è vero, fondere i vasellami d'argento della sua mensa e privarsi del mirabile San Gerolamo, che il pennello del Correggio aveva dipinto; ma non ebbe il dolore di esser costretto a fare delle sue care campane, cannoni; potè salvare tutte le madonnine e le statuette de' santi che ornavano i suoi altarini di Fontevivo e Fontanellato e continuare, così fino all'ultimo respiro, nel prediletto esercizio di suonar le campane e di fare il sagrestano.

Ercole III, duca di Modena, non aveva trattati di parenti che lo proteggessero: lo minacciavano invece la sua condizione di feudatario dell'impero e di parente stretto dell'imperatore e ciò che, dati i tempi, era più pericoloso, la fama generalmente diffusa dei molti milioni che la parsimonia sua e dei suoi predecessori aveva accumulati nelle casse estensi. Perciò, appena ebbe notizia della presenza dei Francesi nel vicino ducato di Parma, con un bel manifesto annunciò ai suoi sudditi che dopo aver ponderata sulle bilancie della Prudenza la presente critica situazione e richiamato ad uno ad uno i suoi doveri di Principe, s'era persuaso che il meglio era… mettere in sicuro a Venezia la sua Serenissima Persona, come in simile circostanza aveva fatto il Serenissimo Avo suo. Le tradizioni di famiglia erano rispettate, non c'è che dire: chi si trovò nelle peste fu la Reggenza cui egli, fuggendo, aveva lasciato la tutela degli Stati suoi, con la raccomandazione in caso di bisogno, di indirizzarsi per qualunque possibile assistenza all'Arciduca Ferdinando d'Austria governatore di Lombardia e Serenissimo suo Genero. Bene indirizzati davvero! Due giorni dopo il Serenissimo Genero aveva notizia che i Francesi stavano passando il Po e, prese in mano le medesime bilancie della Prudenza che erano nel guardaroba di famiglia, s'era, come lo suocero, persuaso che nel rumores fuge stava riposta una antica ma grande verità; sicchè s'era allontanato più che di corsa, portando seco il più ed il meglio che, nella fretta dello scappare, potè raccogliere. La Reggenza modenese rimasta a far fronte da sola alle difficoltà, scese a patti e comprò dai Francesi, a suon di milioni, la promessa che sarebbe stata rispettata la integrità dello Stato. Nel fatto ottenne questo bel risultato: che appena tre mesi dopo – quando però già quasi tutti i milioni promessi erano nelle casse del Direttorio – Reggio, segretamente istigata dai Francesi, insorgeva e si sottraeva al governo estense ed i Francesi, col pretesto che il Duca per avarizia indugiava a pagare, occupavano Modena e tutto il resto dello Stato.

 

“Non basta la fortuna per comandare un esercito, ci vuole anche audacia ed orgoglio!„ aveva detto il Bonaparte al marchese Costa di Beauregard quando questi era andato al campo francese per trattare a nome del suo re i patti di Cherasco. Nè audacia, nè orgoglio facevano, per vero, difetto e al generalissimo francese ed ai soldati suoi: ne avevano anche di troppo per la viltà sommessa dei principi italiani. Ferdinando di Borbone, il Re Lazzarone, che finchè i Francesi erano lontani aveva da solo fatto rumore per dieci e votate le tasche de' sudditi suoi per mettere insieme un esercito di 60.000 uomini, non appena i Francesi furono in Lombardia, aveva supplicato una tregua e l'aveva ottenuta. Pio VI, il pontefice, contro i rivoluzionari, nemici della religione di Cristo ed usurpatori dei dominii della Chiesa in Francia, aveva fino allora lanciato condanne e scomuniche: ma alla notizia che i Francesi si avvicinavano ai confini delle Legazioni, aveva fatto tappezzare le vie delle città e dei borghi, le porte delle chiese e gli alberi della Romagna di bandi nei quali raccomandava ai sudditi suoi d'accogliere i Francesi, se fosser venuti, come ottimi amici suoi, e vietava persino il suono delle campane nel timore che i Francesi ne prendessero sospetto o pretesto di guerra. Sicchè bastarono ai Francesi pochi battaglioni ed una passeggiata militare per prender possesso delle legazioni di Bologna e di Ferrara: e fin d'allora essi avrebbero potuto occupare anche il resto dei dominii papali, se il Bonaparte, per aver le mani libere contro l'Austria, non avesse preferito scendere ad accordi e contentarsi di quel che aveva preso, di alcuni milioni e di una prima scelta fra i tesori d'arte raccolti in Roma. E mentre parte de' suoi stringeva d'assedio Mantova ed altri occupavano le Legazioni, alcune poche centinaia di soldati francesi occupavano Massa e Carrara in nome della Repubblica, poi come se gli Stati del Granduca di Toscana fossero territorio francese, un corpo francese li attraversava e si stabiliva a Livorno per organizzarvi una spedizione contro la Corsica, ed il Bonaparte in persona si presentava solo alle porte di Firenze e sedeva da pari a pari alla mensa del Granduca.

Nè i monarchi soltanto il Bonaparte trattava da padrone: la potente repubblica di Venezia, quelle di Genova e di Lucca vedevano occupate con varii pretesti le loro terre, istigati i sudditi loro a ribellione e, a scanso di peggior sorte, dovevano umiliarsi e poi metter mano alle borse e cavarne denari. La sola repubblica di San Marino fu rispettata allora e sempre: era così piccolo il suo territorio e così povera la popolazione raccolta da secoli sul monte Titano, che il Bonaparte poteva concedersi il lusso di inchinarsi rispettoso alla remota antichità repubblicana di essa ed anche di regalarle due cannoni: erano affidati a mani sicure.

Alla fine del 1796, in men di nove mesi, tutta l'Italia aveva piegato dinanzi alla fortuna, all'audacia ed all'orgoglio del generale francese: unica speranza dei nemici di Francia era Mantova, che ancor resisteva. Cadde ai primi dell'anno seguente e gli effetti della sua caduta ebbe a sentirli non l'Austria soltanto, ma anche il pontefice.

S'era illuso Pio VI nella fiducia che nuove forze mandate dall'Austria in soccorso di Mantova avrebber potuto finalmente aver ragione del Bonaparte, ed in tale illusione s'era troppo apertamente scoperto nemico de' Francesi. Ora che l'illusione era svanita, ei si trovava esposto solo alle vendette del Direttorio. Volle far viso forte a mala fortuna. Alle milizie papali aveva dato un capo l'Austria, il general Colli: attesero a pie' fermo sul Senio presso Faenza l'arrivo de' Francesi. È vero che i cannoni papali furono caricati a fagiuoli? Fu detto e creduto. Certo si è che, dopo le prime fucilate, i papalini, quando videro i Francesi disporsi a guadare il fiume, voltaron le spalle e corsero, corsero, corsero per duecento milia e solo ad Ancona raccolsero il fiato. Fuga rimasta celebrata nella tradizione di poltroneria di cui, fra il popolo, han sempre goduto le milizie papali: e che suggerì al Leopardi, cantando le battaglie delle rane coi topi, i noti versi ne' quali l'affannoso fuggire dell'“oste papale„