Una visita preoccupante

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CAPITOLO CINQUE

“Ta-dà!” esclamò Tom svoltando l’angolo della cucina della pasticceria, portando un piatto di ceramica con le mani infilate in un paio di guanti da forno.

Tutti applaudirono.

Dopo la gita giornaliera alla spiaggia, la famiglia era tornata alla pasticceria, che Tom aveva prenotato solo per loro, come se fosse una riunione clandestina dopo l’orario di chiusura. Tom aveva sistemato addirittura delle candele e c’era una bottiglia a rinfrescarsi nel cestello portaghiaccio. Sarebbe stato così romantico, pensò Lacey, se non avesse dovuto condividere la serata con la sua invadente famiglia.

Il vapore saliva dal piatto che Tom posò sul tavolo.

“Come hai detto che si chiama?” chiese Shirley, strofinandosi i palmi delle mani con trepidazione.

“Homity Pie.” Tom iniziò a tagliare la torta con un coltello. “O anche Devon Pie, come la chiamiamo nella mia città natale. Anche se a pensarci bene non so se sia stata realmente inventata a Devon o se la nostra sia solo una falsa pretesa.”

Ridacchiò e posò una fetta su un piatto, porgendolo a Naomi.

“A me sembra una quiche,” disse lei, prendendo il piatto e tenendolo sollevato a livello degli occhi, neanche dovesse fare un’ispezione per igiene e sicurezza.

Lacey le diede un calcio sotto al tavolo. “È di tradizione britannica,” disse a denti stretti.

Tom non parve offendersi, ma si limitò a sorridere. “Le ricette sono molto simili, è vero. Anche se ovviamente in questa ci sono le patate. Noi britannici adoriamo le nostre patate.”

“Sì, questo l’ho notato,” disse Shirley, tastando scettica la sua fetta con una forchetta. “Torta e purè. Fish ‘n’ chips, cioè pesce con le patatine. Dimmi un po’, ci sono altre verdure che mangiate, qui in Inghilterra?”

Lacey si massaggiò la fronte: sentiva crescere l’irritazione. Sua madre stava tentando di mostrare interesse, ma le sue parole risuonavano velatamente critiche, come quelle di uno spassionato giudice culinario.

“Certo, mamma,” disse con decisione. “E sono sicura che Tom non ha tutta questa voglia di starsene qui a elencartele tutte.”

Shirley corrugò la fronte, ma Tom non sembrava aver colto nessun commento sottinteso. Versò a tutti quanti un bicchiere di prosecco (e succo di male frizzante per Frankie, per non escluderlo) e alla fine si sedette.

“Alla famiglia!” disse.

“Alla famiglia!”

Famiglia, pensò Lacey, con uno stanco e sommesso sospiro.

Tutti brindarono, fecero tintinnare i loro bicchieri e poi si tuffarono famelici sui loro piatti.

Nonostante la tensione, le preoccupazioni di Lacey si dissolsero rapidamente mentre assaporava il meraviglioso impasto al burro di Tom, suo marchio di fabbrica. C’era un accenno di noce moscata mescolata al ripieno di formaggio e cipolla, e Tom era riuscito addirittura a infilarci dentro degli spinaci, senza però che questi oscurassero il resto del gusto con il loro sapore amarognolo.

“È un miracolo,” commentò Noemi. “Frankie sta mangiando le verdure cotte.”

“Sono saporite,” disse Frankie senza ulteriori commenti. “Non come le fai tu, mamma.”

Naomi fece il broncio.

“Il trucco è di usare del burro di buona qualità,” le spiegò Tom. “E di spremere fuori tutta l’acqua in eccesso.”

“Dove hai imparato a cucinare?” chiese Shirley piuttosto bruscamente. Sembrava più l’inizio di un interrogatorio che una semplice domanda.

“Ho seguito corsi in tutto il mondo,” rispose Tom.

“Dove?” chiese Naomi. Era il suo turno di interrompere la conversazione.

Tom riprese il discorso. “Italia. India. Paesi Bassi. Portogallo. Ho passato un anno a Parigi per perfezionare i croissant.”

“E in Scozia?” chiese Frankie, intromettendosi nella partita di ping-pong che il povero Tom stava giocando.

“Frankie,” lo rimproverò Naomi.

“Cosa c’è?” protestò lui.

Tom sorrise, senza scomporsi. “Ci sono stato, in Scozia,” disse a Frankie.

Gli occhi del ragazzino si illuminarono. “Hai imparato a fare l’haggis?”

“Certo.”

“Wow…” disse Frankie, senza fiato per la meraviglia.

“E…” aggiunse Tom, “ho imparato anche a fare i tatties and neeps, e ho la migliore ricetta della cullen skink.”

Frankie iniziò a ridere.

Lacey si sentiva scaldare il cuore nel vedere quanto Tom fosse calmo e paziente con suo nipote. Frankie sembrava averlo preso davvero in simpatia. Non aveva nessun modello maschile nella sua vita – un nonno scomparso, nessuna idea di chi fosse il suo vero padre, e ora neanche più David come zio – quindi non c’era esattamente da sorprendersi che si sentisse attratto da Tom. Ma era un sollievo che almeno una persona nella sua famiglia si stesse comportando in modo educato e cordiale, soprattutto considerato che Naomi stava facendo l’adolescente dagli occhi sgranati e Shirley non si era ancora messa del tutto a proprio agio.

“Sei piuttosto esperto, eh?” disse Shirley con voce gelida. Aveva gli occhi fissi sul suo prosecco mentre lo stava facendo rigirare nel bicchiere.

Lacey conosceva bene quel tono di voce. Sua madre stava ovviamente confrontando i risultati culinari di Tom con quelli lavorativi di David, che secondo lei non era un paragone per niente corretto. David e Tom erano come il giorno e la notte. E poi, per quello che la riguardava, seguire il proprio padre nell’azienda di famiglia non era lo stesso che partire da soli, avviando la propria attività e seguendo la propria passione personale.

“Grazie,” disse Tom, come sempre incapace di cogliere i doppi sensi tra le righe di una conversazione. Era un’abitudine che tra tutte le cose irritava Lacey, ma in questa situazione cadde piuttosto a fagiolo.

“Possiamo lasciare che il povero chef mangi qualcosa?” chiese esasperata. Indicò la torta di Tom, da cui lui non aveva preso ancora neanche un morso. “Tutte queste domande mi stanno facendo girare la testa.”

Lacey avrebbe voluto tantissimo poter parlare con Tom da sola riguardo al loro imminente viaggetto, e a come dare la notizia alla sua famiglia. Ma non ne ebbe l’occasione. Perché ovviamente la sua famiglia non la ascoltò quando lei chiese loro di smetterla di importunare Tom, e la conversazione tornò subito a una raffica di domande rivolte a lui.

Però in un certo senso Lacey si stava anche divertendo. O almeno sentiva di tollerare di buon grado la presenza dei suoi famigliari. E vedere l’espressione da cucciolotto che Frankie aveva mentre guardava Tom era effettivamente piuttosto dolce.

Decise di non rovinare quel momento con la notizia, e tenne la bocca cucita. Anche se prima o poi avrebbe dovuto sputare il rospo, per ora aveva deciso per il poi.

*

Era buio ormai quando il taxi li venne a prendere per portarli dalla pasticceria al Crag Cottage. I fanali della vettura illuminarono il vecchio edificio di pietra e nonostante l’abbondanza di prosecco che le rigirava nello stomaco, Lacey provò un’improvvisa fitta d’ansia al pensiero di cosa la sua famiglia avrebbe detto della casa. Era tutt’altra cosa rispetto all’elegante appartamento che aveva condiviso con David a New York, che era un ambiente moderno e confortevole. Ma per lei significava tantissimo. Era suo, solo suo. C’era un mucchio di orgoglio a tenere legati insieme quei vecchi mattoni di pietra sbrecciati.

Naomi si sporse in avanti dal sedile in ecopelle nera del taxi, allungando il collo per vedere meglio attraverso il parabrezza. “Abiti qui?” chiese con quel tono di incredulità che aveva usato così di frequente nel corso degli anni, da fargli ormai perdere l’effetto desiderato. (“Sposerai lui?” “Ti metti quello?” “Ti trasferisci ?”)

“Già,” rispose Lacey, raccogliendo tutta la sua sicurezza e usandola come uno scudo.

Naomi distese le lunghe gambe dal sedile posteriore del taxi e scese, attraversando il prato a grandi passi.

Lacey tenne d’occhio la sorella mentre porgeva al tassista una banconota da dieci sterline. Naomi stava andando verso la scogliera e la combinazione di erba soffice, tacchi alti, buio e prosecco nelle vene faceva sentire Lacey sempre più nervosa. Seguì rapidamente la sorella, lasciando sua madre a occuparsi di Frankie – che russava – e del baule carico di bagagli.

“Ehi, sorellina, attenta a dove metti i piedi!” la chiamò Lacey, correndo sull’erba illuminata dalla luna.

“Vivi accanto all’oceano?” chiese Naomi a voce alta, continuando a camminare.

Questa volta il suo tono di voce era assente. Era davvero sincera.

“Carino, eh?” chiese Lacey, portandosi finalmente accanto a lei.

Naomi rimase in silenzio. Il suo sguardo era fisso in avanti, rivolto al mare nero e mosso. La brezza le soffiava nei capelli. Si strinse la braccia attorno al busto.

“È proprio come quando eravamo bambine,” disse alla fine. “Quando venivamo qui in vacanza con papà.”

Lacey scrutò il suo profilo. Naomi non parlava mai del passato, se poteva evitarlo. “Te lo ricordi?” le chiese.

“Certo,” rispose la sorella con voce malinconica ed espressione assorta. Si voltò a guardare Lacey, la luna bianca riflessa nelle sue pupille. “Ci sono cose che non si dimenticano mai.”

“Ragazze?” esclamò improvvisamente Shirley con la sua voce acuta.

Lacey distolse lo sguardo da Naomi, voltandosi verso il portico antistante al cottage. Shirley era lì in piedi, circondata da valigie e borse, intenta a tenere appoggiato contro la porta un Frankie mezzo addormentato.

“Potete fare a meno di perdervi in chiacchiere e venire ad aiutarmi?” continuò. “Si gela!”

Era una tiepida serata estiva, e certo non si gelava, ma Lacey corse comunque verso di lei. In quanto sorella maggiore, il suo senso dell’obbedienza le era stato inculcato in un modo molto più marcato rispetto a Naomi. Lasciò quindi sospeso nell’aria accanto alle scogliere il criptico commento della sorella.

 

Il Crag Cottage sembrava piccolissimo con tutta la sua famiglia dentro, anche se Lacey vi aveva ospitato gruppi ben più numerosi in passato. I suoi famigliari erano delle presenze così ingombranti ai suoi occhi. Le sembrava quasi che i bassi soffitti stessero sprofondando, che le strette pareti si stessero avvicinando…

Li condusse subito in cucina. Di tutte le stanze del cottage, la rustica cucina in stile campagna inglese era il suo orgoglio e la sua gioia. Dalla gamma di pentole di bronzo appese alle pareti alla cucina economica originale e all’ampio lavabo in ceramica, tutto in quella stanza era prezioso per lei.

“Che carina,” disse Naomi con freddezza.

“Prova a ridirlo con sentimento,” le disse Lacey con secca ironia.

“È come la casa di un contadino,” disse Frankie sbadigliando assonnato.

“La casa di un contadino di stile,” aggiunse Naomi frettolosamente.

“Intendo l’odore,” disse Frankie. “L’odore di cane. E… quella è spazzatura?”

Naomi fece una risata forzata. “Frankie ha così tanto sonno che sta praticamente delirando,” disse a voce alta.

Ma per Lacey non era un problema, perché sapeva che i commenti di Frankie non erano mai intesi con malizia. L’odore delle pecore della sua vicina era piuttosto forte a volte, soprattutto ora che la temperatura si stava alzando e gli agnelli stavano crescendo. E poi Frankie era solo un bambino. Erano le opinioni di sua mamma e di sua sorella quelle che davvero contavano per lei.

“È proprio come me l’aspettavo,” disse Shirley.

“Cosa vorrebbe dire?” chiese Lacey. Ma sapeva a cosa stesse alludendo sua madre. Lacey aveva ereditato il gusto di suo padre – antichità, cottage vicino all’oceano, pittoresche cittadine britanniche – e Shirley ne era perfettamente consapevole. Però le faceva comunque male sapere che sua madre non avrebbe mai e poi mai approvato quell’aspetto del suo carattere.

“Sto solo dicendo che quell’appartamento sulla Upper East Side non è mai stato veramente il tuo stile,” disse Shirley, facendo marcia indietro. “Quella è più roba da Naomi. Ti ho sempre immaginata in un cottage affacciato sull’oceano.”

Se Shirley stava cercando di arrampicarsi fuori da un buco, stava solo peggiorando le cose.

“Credo che dovremo capire come sistemarvi a dormire,” disse Lacey rigidamente. “Non sono sicura di dove e come riuscirò a farvi stare. Ho solo una stanza per gli ospiti.”

“Io posso prendere la camera per gli ospiti,” disse Shirley, come se si stesse offrendo per un generoso sacrificio.

Lacey guardò Naomi. “Te e Frankie volete dormire insieme nella mia camera? C’è un letto matrimoniale. O Frankie è troppo grande?”

Naomi arruffò i ricci rossi del figlio mezzo addormentato. “Penso che Frankie sia troppo stanco perché la cosa gli possa dare fastidio, per una notte. Ma può darsi che per gli altri giorni dovremo costruirgli un forte nell’angolo della stanza.”

Rise e Lacey si irrigidì, ricordando l’imminente viaggio di cui ancora non aveva detto niente alla sua famiglia. Anche se Naomi ora le aveva offerto effettivamente la possibilità di farlo, aveva la sensazione che non fosse esattamente il momento più opportuno per tirare fuori l’argomento. Non con Shirley che la stava guardando con aria di disapprovazione e con Frankie che barcollava esausto, e Naomi che… beh, non era mai il momento giusto per dare delle cattive notizie a Naomi.

Quindi Lacey scelse la scappatoia del codardo e si ritirò in salotto per dormire sul divano.

Mentre se ne stava sdraiata lì, fissando il soffitto, avvertì più che mai la mancanza di Chester. Se lo poteva immaginare nella cuccia all’ambulatorio veterinario, abbandonato e solo. Il poverino era probabilmente così confuso, incapace di capire cosa gli stesse succedendo. E avrebbe dovuto sopportare l’intera situazione per ben due settimane! Per lo meno lei avrebbe sostenuto il proprio disagio per un paio di notti e basta.

Pensando a Chester, Lacey arrivò a una risoluzione personale. Era ora di smettere di rimandare. Domani avrebbe detto alla sua famiglia che lei e Tom avevano prenotato un viaggio e che quindi li avrebbe lasciati lì a Wilfordshire a badare a loro stessi. Forse così avrebbero capito che la prossima volta che avevano voglia di farle una visita, sarebbe stato meglio prima controllare

Sì, certo. E i maiali volano… fu l’ultimo pensiero di Lacey, prima di addormentarsi.

*

Lacey si svegliò sul divano e cercò di stiracchiarsi. Ogni singolo muscolo era rigido e dolorante: il divano non era esattamente robusto. Dopo otto ore sotto al peso morto di una persona addormentata, si era praticamente disintegrato.

Lacey allungò braccia e gambe, sbuffando mentre il suo corpo protestava.

La luce del giorno stava filtrando da una fessura tra le tende color crema. Ma la casa era nel silenzio. Un insolito silenzio.

“Chester,” disse Lacey con tono mesto, ricordando il suo cucciolone a un paio di miglia da lì, rinchiuso in una gabbia dal veterinario.

Il suo pastore inglese era affidabile come un orologio e la svegliava ogni mattina alle sette precise, in modo da potersi fare la sua corsetta mattutina sul prato, cacciando via qualsiasi pecora si fosse addentrata oltre i confini del giardino di Gina durante la notte, per poi trangugiare la sua ciotola di crocchette mentre Lacey mandava giù un espresso. Poi andava generalmente a cercare la sua pallina da tennis preferita, oppure si sedeva sul tappeto della cucina abbaiando in direzione del guinzaglio, perché era finalmente pronto per la passeggiata lungo la spiaggia fino al negozio.

Ma il silenzio sembrava molto più pronunciato che per la mera assenza di Chester. Suonava tremendamente sospetto. E dato che la sua famiglia non era esattamente nota per la propria quiete, Lacey si rese conto che c’era una sola spiegazione: se n’erano andati!

Saltò su dal divano, lasciando cadere il lenzuolo che stava usando come coperta, e corse fuori dal salotto a piedi scalzi. Andò dritta in cucina. Sul tavolo c’erano due piatti pieni di briciole, accanto a una ciotola per i cereali vuota, con un piccolo residuo di latte all’interno e un paio di cornflakes che galleggiavano sul fondo. Due mug usate per il caffè, un bicchiere per il succo. Coltelli e forchette sporchi. Nessuna giacca appesa agli attaccapanni vicino alla porta della cucina. Niente scarpe sul tappetino.

“Se ne sono andati!” esclamò Lacey.

Il pensiero della sua famiglia sguinzagliata in città senza alcuna supervisione le fece provare una scossa di terrore. Avrebbero potuto incontrare chiunque. Dire qualsiasi cosa! Doveva trovarli!

Attraversò rapidamente la casa, raccogliendo le cose che le servivano per la giornata, poi corse fuori.

Dove siete andati, ragazzi? scrisse in un rapido messaggio per Naomi mentre risaliva velocemente il vialetto del giardino e poi il vicolo.

Siamo andati a fare colazione in città, le rispose Naomi.

Dove? le scrisse Lacey, pensando alla caffetteria d’angolo, di proprietà della donna che l’aveva accusata di omicidio, o al bar poco più avanti dove si erano dimostrati ostili nei confronti di un’americana che veniva ad aprire un negozio lungo la via principale. C’erano così tanti posti dove Lacey non voleva che andassero!

Nessun messaggio da parte di Naomi. Lacey allungò il passo.

Quando raggiunse il fondo della via principale, cominciò a camminare zigzagando da un lato all’altro del viale, controllando in ogni vetrina. Non erano alla caffetteria (grazie al cielo) e neanche nel bar. Non erano neanche in panificio, o in nessuna delle graziose sale da tè, con i loro muri color pastello e le tendine quadrettate, la cui particolarità avrebbe sicuramente esercitato il suo fascino su una sentimentale buongustaia come sua madre.

“Dove sono?” mormorò Lacey a voce alta.

Era quasi arrivata al suo negozio di antiquariato, quando improvvisamente vide con la coda dell’occhio qualcosa di arancione. Girò la testa e scorse gli inconfondibili ricci rossi di Frankie attraverso la vetrina della pasticceria di Tom.

“Oh, no…” disse, ancora a voce alta, accelerando il passo.

Man mano che si avvicinava, poteva vedere sempre meglio attraverso la vetrata. Sedute accanto a Frankie c’erano sua madre e Naomi. E poi c’era Tom. Erano tutti sorridenti, come se stessero condividendo un momento di piacevole entusiasmo.

Le si strinse lo stomaco mentre spingeva la porta ed entrava bruscamente nel locale.

Tutti si girarono al suono aggressivo del campanello.

“Lacey,” disse Tom, raggiante. “Grandi notizie. I tuoi vengono a Dover con noi!”

CAPITOLO SEI

Lacey afferrò Tom per il gomito e lo trascinò nella cucina della pasticceria.

“Cosa stai facendo?” sibilò.

“In che senso?” le chiese lui, confuso.

“Hai invitato la mia famiglia a unirsi a noi per la nostra gita romantica a Dover?”

Tom scrollò le spalle. “Hanno fatto il viaggio fino a qui da New York,” le disse. “Non possiamo andarcene e lasciarli qui. Sarebbe quantomeno maleducato.” Fece un passo avanti e le accarezzò con affetto il braccio. “E comunque sarà una buona opportunità per me per conoscerli meglio. Che vorrebbe dire conoscere meglio anche te. Non penso che tu mi racconteresti di tua spontanea volontà tutti gli aneddoti imbarazzanti della tua infanzia, no?”

Le rivolse un tenero sorriso, ma non servì ad ammorbidirla. Lacey si mise le mani sui fianchi.

“Ma dove li mettiamo? Non intendo dormire ancora sul divano!”

Tom le strinse le braccia con fare rassicurante. “Rilassati. Doveva essere una sorpresa, ma la locanda è effettivamente un faro riconvertito di recente. Ho prenotato la suite principale, ma c’è la possibilità di affittare l’intero edificio. Chiamo subito il proprietario e prenoto le altre stanze, ok? Ci sarà spazio a sufficienza per tutti quanti.”

Un faro? O santo cielo! Se Tom non gliel’avesse rivelato in circostanze tanto stressanti, Lacey sarebbe stata davvero emozionata. Era una cosa unica! Così esotica! E invece la sua mente era completamente annebbiata dallo shock e l’unica sensazione che riusciva a provare era totale frustrazione.

“Avresti dovuto chiedermelo prima,” bofonchiò.

Tom la guardò perplesso. “Pensavo che avessi voglia di passare del tempo con la tua famiglia. Non avevo idea che la cosa ti avrebbe dato fastidio.”

“Non mi dà fastidio,” ribatté lei immediatamente, anche se le era difficile comprendere il complesso dei sentimenti che provava, figurarsi spiegarlo. “È solo che volevo passare del tempo con te,” disse, espirando tristemente.

“Ho buone notizie,” le disse Tom con un sorriso malizioso in volto. “Vengo anch’io.”

Ma la battuta non ebbe l’effetto di rallegrarle l’umore. Era davvero tipico di Tom. Avrebbero dovuto godersi una gita romantica, anzi, la loro prima gita romantica! Ma con la sua famiglia alle calcagna, ogni possibilità di cene a lume di candela o champagne e fragole, o bagni nella Jacuzzi sarebbe stata assolutamente fuori discussione. Eppure sembrava che la cosa non lo infastidisse per niente.

Lacey non sapeva che parole usare per esprimere quello che stava pensando. Quindi gli rivolse un mesto sorriso e si limitò a ribattere: “Sì, immagino di sì.”

*

“Non pensi che mi stia comportando in modo egoista, vero?” chiese Lacey lasciandosi andare a un profondo sospiro. “È solo che ero davvero entusiasta di avere del tempo tutto per me e Tom, e poi lui li ha invitati a venire con noi. Cioè, ma ci credi?”

Stava fissando gli scuri occhi comprensivi di Chester. Il cane mugolò, come a indicarle che la capiva, e lei gli accarezzò le orecchie vellutate.

“Grazie,” mormorò Lacey. “Sapevo che avresti capito.”

In quel momento, Lakshmi apparve sulla porta con il suo camice verde scuro addosso. Abbassò lo sguardo su Lacey e Chester, accoccolati sul pavimento fuori dalla gabbia aperta. “State bene lì per terra?”

Lacey annuì. Era venuta direttamente dalla pasticceria di Tom alla clinica per avere un po’ di solidarietà canina dal suo Chester, che di certo non l’avrebbe giudicata, come probabilmente avrebbe fatto invece Gina. Voleva anche salutarlo, perché quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrebbe visto per un po’ di giorni.

“Avevo solo bisogno di una sessione di pet-therapy,” scherzò Lacey. Liberò le gambe da sotto il peso di Chester, che le si era sdraiato in braccio. “Gina verrà a trovarti domani,” gli disse.

Chester la guardò con occhi tristi.

“Oh, piccolo, non farmi quella faccia,” gli disse. “Tu adori Gina.”

Chester sbuffò dalle narici, poi entrò obbediente nella sua cuccia, con la coda bassa e penzolante. Lacey provò una fitta di senso di colpa.

 

“Sta bene là dentro?” chiese a Lakshmi, piena di preoccupazione.

La dottoressa chiuse la porta della gabbia e vi mise il lucchetto. Chester guardava sconsolato attraverso il vetro.

“Sta benone,” le assicurò. “Sta reagendo bene alle pastiglie. Stavi dicendo che qualcun altro verrà a trovarlo mentre tu sei a Dover?”

Lacey sentì le guance che si arrossavano. Lakshmi doveva aver origliato tutta la precedente conversazione tra lei e Chester, con tutta la sua lamentosa tirata su Tom che aveva invitato la sua famiglia a Dover.

Si grattò il collo in modo imbarazzato. “Hai sentito tutto, eh?”

Lakshmi rise. “Uh-huh. Mi sa di sì. Ma non ti preoccupare. Io non penso per niente che tu ti stia comportando da egoista.” Abbassò la voce. “Io vado in vacanza per allontanarmi da mia madre. Se qualcuno la invitasse a venire, sarei furente.”

Anche Lacey rise. “Sono contenta di non essere l’unica.”

Con l’umore leggermente risollevato, lasciò Chester alle capaci cure di Lakshmi e tornò verso il suo negozio.

Sua madre, sua sorella e suo nipote erano tutti dentro quando arrivò. Frankie era seduto sul pavimento e giocava con Boudicca, mentre Naomi sedeva vicino alla finestra, sfogliando una rivista di pettegolezzi. Anche Shirley era seduta, con la schiena dritta e rigida, sulla poltroncina in velluto rosso, l’espressione un misto di disagio e noia.

“Eccola qua!” esclamò Gina quando il campanello d’ottone tintinnò leggermente al suo ingresso.

“Lacey,” disse Shirley con lo stesso tono che era solita usare quando da bambina Lacey ne combinava qualcuna. “Dove diavolo eri scomparsa?”

“Scusate,” mormorò lei. “Sono dovuta andare dal veterinario a salutare Chester. Pensavo di averlo detto.”

Sapeva benissimo di non averlo fatto, dato che se n’era andata di punto in bianco dal negozio di Tom, frastornata, ma una piccola bugia innocente a volte era necessaria per evitare discussioni maggiori.

“Gina mi ha raccontato tutto di Punch e Judy,” si intromise Frankie. “Voglio comprare il pagliaccio, ma la mamma ha detto che non posso.”

“Mi fa paura,” disse Naomi, guardando la marionetta con una smorfia. “E lo vuoi solo perché ha i capelli rossi. Non ci giocheresti mai.”

Lacey guardò Gina con espressione dispiaciuta. Non le era venuto in mente che l’amica sarebbe rimasta incastrata con la sua famiglia mentre lei faceva la sua sessione di pet-therapy con Chester. Eppure Gina non sembrava per niente stressata, ma piuttosto positiva. Dopotutto era una che amava stare con la gente. E non aveva neanche lo stesso passato che lei aveva vissuto con loro.

“Allora, cosa facciamo oggi?” chiese Shirley con il suo tono leggermente irritato. “Non voglio starmene seduta nel tuo negozio per un’eternità.” Anche se non lo disse a voce alta, era più che evidente che Shirley si sentiva piuttosto a disagio nel negozio di antiquariato di Lacey. Il suo naso arricciato e la postura rigida erano un segnale inequivocabile.

Naomi si unì a lei. “Sì, Lacey, cosa facciamo oggi? Abbiamo visto la spiaggia. Le scogliere. Le pecore. Abbiamo mangiato pasticcini appena sfornati e bevuto tè dalla teiera. Cos’altro c’è da fare qua in giro?”

“Tom ha detto che dovremmo bere il cream tea del pomeriggio,” disse Frankie. Guardò Lacey con espressione interrogativa. “Cos’è il cream tea? È come un frullato caldo?”

Lacey rise. “Capisco come tu sia arrivato a questa conclusione, ma no, il cream tea non è un frullato caldo. Il cream tea è quando bevi una tazza di tè con uno scone alla marmellata e la panna,” gli spiegò.

“Gli scone!” ripeté Frankie. “Li ho mangiati. La mamma me li prepara nelle occasioni speciali.”

Sorpresa, Lacey si voltò a guardare la sorella. Naomi stava fingendo di non ascoltare più la conversazione, per l’ovvio motivo che la persona che aveva fatto loro conoscere gli scone era stato loro padre, e lo aveva fatto proprio a Wilfordshire.

“Beh, Wilfordshire ha i migliori scone di tutto il Regno Unito,” disse Lacey, rivolgendosi di nuovo a Frankie. “Devi provarli prima di tornare a casa. Posso suggerire un’adorabile sala da tè sulle colline, e lì c’è anche una bellissima residenza signorile che si chiama Villa Penrose.” Se la sua famiglia avesse fatto tutto il giro fino alla villa, lei avrebbe avuto almeno un paio d’ore di respiro prima che il loro viaggio li costringesse a stare ancora più vicini.

“Altro cibo?” disse Shirley con un sospiro sdegnoso. “Onestamente, come fanno gli inglesi a non essere tutti sovrappeso? Pare che ci sia un pasto dopo l’altro, qui.”

Gina iniziò a ridere, dandosi dei colpetti sulla pancia leggermente arrotondata. “Alcuni di noi lo sono.”

Boudicca emise un piccolo verso, come se volesse protestare contro l’auto-ironia della padrona.

“Non possiamo restare qui?” chiese Frankie. Era seduto a gambe incrociate sul pavimento accanto a un baule aperto, circondato da giocattoli antichi.

“Ti annoieresti nel giro di cinque minuti,” commentò Naomi.

Shirley non sembrava per niente contenta della richiesta di Frankie. “No, Frankie. La nonna non se ne vuole stare seduta in una stanza buia e polverosa tutto il giorno. Non è salutare per i miei polmoni. E non posso neanche dire che l’odore mi piaccia molto.”

Diciamo che sono più che altro i ricordi a non essere graditi, pensò Lacey, la mente che andava al ricordo del vecchio negozio di antiquariato del padre a New York. Ma ovviamente non disse niente a voce alta. Parlare di suo padre era peccato.

Frankie si alzò in piedi, lasciando il suo mucchio di giocattoli sul pavimento, e andò alla porta. Naomi e Shirley lo seguirono.

“Almeno abbiamo solo un giorno da passare qui,” disse Naomi a Shirley mentre aprivano la porta. “Domani partiamo per Dover.”

Il campanello tintinnò mentre la porta si richiudeva dietro di loro.

Non appena se ne furono andati, Lacey si accasciò in avanti sul bancone e si lasciò andare a un profondo sospiro. Dubitava fortemente che nella pittoresca cittadina balneare di Dover ci sarebbe stato qualcosa di sufficiente a tenere occupata la sua famiglia, se Wilfordshire li aveva annoiati così rapidamente.

Gina si mise a ridere. “Dimmi che sono pazza, ma potrei giurare che tua sorella ha appena detto che domani vanno a Dover.”

Lacey posò gli occhi stanchi sull’amica e annuì tristemente. “Tom li ha invitati a venire con noi.”

Dietro alla sua montatura rossa, Gina sgranò gli occhi. “Oh.”

“Proprio oh,” rispose Lacey, prendendosi la testa tra le mani.

Sarebbe stato un lunghissimo viaggio.

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