Assassinio in villa

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La barista era una ragazza slanciata con i capelli biondo chiaro raccolti in uno spettinato chignon in cima alla testa. Sembrava decisamente troppo giovane per poter lavorare in un locale. Lacey decise che la cosa dipendeva dall’età più bassa a cui era permesso il consumo di alcolici in Inghilterra, piuttosto che dal fatto che più lei invecchiava e più gli altri le sembravano avere visi da bambino.

“Cosa desidera?” chiese la ragazza.

“Una stanza,” disse Lacey. “E un bicchiere di prosecco.”

Aveva voglia di festeggiare.

Ma la giovane scosse la testa. “Siamo al completo per Pasqua.” Parlava allargando tanto la bocca che le si vedeva la gomma americana che stava masticando. “Tutto il paese è pieno. Sono le vacanze scolastiche e c’è un sacco di gente a cui piace portare i bambini a Wilfordshire. Non ci sarà niente per almeno quindici giorni.” Fece una pausa. “Allora va bene solo il prosecco?”

Lacey si aggrappò al bancone per non perdere l’equilibrio. Sentiva lo stomaco attorcigliarsi. Ora si sentiva davvero come la donna più cretina al mondo. Non c’era da meravigliarsi che David l’avesse lasciata. Era davvero incasinata e disorganizzata. Un insulto agli esseri umani. Eccola qui, a fare finta di poter essere un’adulta indipendente all’estero, quando in realtà non riusciva neanche a trovarsi una camera d’albergo.

In quel momento Lacey scorse una persona con la coda dell’occhio. Si voltò e vide un uomo che avanzava verso di lei. Era sulla sessantina e indossava una camicia a quadri infilata nei jeans, occhiali da sole tirati indietro sulla testa calva e un portacellulare alla cintura.

“Ho sentito che stai cercando un posto dove stare?” le chiese.

Lacey stava per dire di no – poteva anche essere disperata, ma concordare un pernottamento con un uomo che aveva il doppio dei suoi anni e che l’aveva avvicinata in un bar era un po’ troppo da Naomi per i suoi gusti. Poi l’uomo chiarì la cosa: “Perché affitto case per le vacanze.”

“Oh?” rispose Lacey, sorpresa.

L’uomo annuì e le mostrò un piccolo biglietto da visita che tirò fuori dalla tasca dei jeans. Lacey lo osservò attentamente.

Le accoglienti, rustiche ed eleganti case vacanza di Ivan Parry. L’ideale per tutta la famiglia.

“Sono al completo, come ha detto Brenda,” continuò Ivan accennando alla barista. “A parte una casa che ho appena arraffato all’asta. A dire il vero non è ancora pronta per essere affittata, ma posso fartela vedere se sei davvero a piedi. Magari te la offro a prezzo scontato, dato che è un po’ una discarica? Giusto nell’attesa che gli hotel tornino disponibili.”

Lacey si sentì pervadere dal sollievo. Il biglietto da visita sembrava vero, e Ivan non le aveva fatto scattare nessuna sirena d’allarme nella testa. La fortuna stava virando dalla sua parte! Si sentiva così sollevata che avrebbe potuto stampargli un bacio sulla testa pelata!

“Lei è il mio salvatore!” gli disse, riuscendo a contenersi.

Ivan arrossì. “Magari aspetta di vederla, prima di giudicare.”

Lacey ridacchiò. “Onestamente, quanto male può essere?”

*

Lacey sembrava una donna con le doglie da parto mentre si arrampicava lungo il lato della scogliera accanto a Ivan.

“È troppo ripido?” le chiese con tono preoccupato. “Avrei dovuto dirti che era sulla scogliera.”

“Nessun problema,” disse Lacey ansimando. “Adoro… le vedute… sul mare.”

Per tutta la camminata fino a lì, Ivan si era dimostrato l’esatto contrario dello scafato uomo d’affari, ricordando a Lacey lo sconto promesso (al di là del fatto che non avevano ancora discusso il prezzo) e dicendole ripetutamente di non coltivare troppe speranze. Ora, con le gambe che le facevano male per la scarpinata, Lacey stava iniziando a chiedersi se non avesse tutto sommato ragione a svilire così quel posto.

Questo fino a che la casa non apparve sul cocuzzolo della collina. Un edificio di pietra si stagliava contro il rosa ormai quasi del tutto sfumato del cielo. Lacey sussultò sonoramente.

“È quella?” disse senza fiato.

“È lei,” rispose Ivan.

Una forza che le arrivava dal nulla improvvisamente le diede uno slancio di energia, e Lacey percorse di gran carriera l’ultimo tratto di salita. Ogni passo che la portava più vicina a quell’attraente edificio le rivelava una caratteristica meravigliosa dopo l’altra: l’affascinante facciata di pietra, il tetto in ardesia, la pianta di rosa rampicante avvolta attorno alle colonne della veranda, l’antica e spessa porta ad arco che sembrava uscita da una fiaba. E a fare da contorno al tutto, c’era l’oceano luccicante e sconfinato.

Lacey era con gli occhi strabuzzati e la bocca aperta quando si fermò davanti all’edificio. Un segnale in legno a bordo strada diceva: Crag Cottage.

Ivan la raggiunse, una lunga catenella portachiavi che gli tintinnava in mano mentre cercava quella giusta nel mazzo. Lacey si sentiva come una bambina davanti al furgoncino dei gelati, molleggiando sulle dita dei piedi, in impaziente attesa che l’erogatore della crema soft facesse il suo dovere.

“Non nutrire troppo le tue speranze,” le disse Ivan per l’ennesima volta, trovando finalmente la chiave – una grossa e di bronzo rugginoso, che sembrava poter aprire il castello di Raperonzolo – e girandola nella serratura per poi aprire finalmente la porta.

Lacey entrò allegramente nel cottage e fu colpita dall’improvvisa e potente sensazione di trovarsi a casa.

Il corridoio era a dir poco rustico, con assi di legno non trattato e carta da parati appariscente ma sbiadita. Al centro della scala che aveva alla sua destra c’era un lussuoso tappeto rosso con i bordi dorati, come se il precedente proprietario avesse pensato che quella fosse una casa maestosa e non un piccolo cottage. A sinistra c’era una porta di legno aperta che sembrava invitarla ad entrare.

“Come dicevo, è un po’ trasandata,” disse Ivan, mentre Lacey entrava in punta di piedi nella stanza.

Si trovò in un salotto. Tre pareti erano ricoperte di carta da parati, anch’essa sbiadita, a strisce verde menta e bianche, mentre la quarta aveva le pietre di costruzione a vista. Una grande finestra a sbalzo si affacciava sull’oceano, con una poltrona fatta apposta posizionata subito sotto. Un intero angolo era occupato da una stufa a legna con una lunga canna fumaria nera, un secchio argentato accanto, pieno di pezzi di legno. Una grande libreria, anch’essa in legno, copriva quasi interamente una delle pareti. Il set abbinato di divano, poltrona e poggiapiedi sembrava risalire agli anni Quaranta. Tutto aveva bisogno di una buona spolverata, ma per Lacey questo rendeva il posto ancora più perfetto.

Fece una mezza piroetta sul posto rivolgendosi a Ivan, che sembrava apprensivo mentre aspettava un suo commento.

“È adorabile,” gli disse.

L’espressione di Ivan si fece sorpresa (con un accenno di orgogliò, da quello che Lacey poté notare).

“Oh,” esclamò. “Che sollievo!”

Lacey non era capace di contenersi. Piena di entusiasmo, fece il giro del salotto, osservandone tutti i dettagli. Sull’adorno scaffale intagliato c’erano un paio di libri gialli, le pagine raggrinzite per l’età. Un salvadanaio in porcellana a forma di pecora e un orologio non più funzionante erano posati sulla seconda mensola in basso, e sulla base c’era una collezione di delicate teiere in ceramica. Era come l’avverarsi del sogno di un amante dell’antiquariato.

“Posso vedere il resto?” chiese Lacey, sentendosi il cuore gonfio di emozione.

“Come fossi a casa tua,” rispose Ivan. “Io scendo in cantina a sistemare riscaldamento e acqua.”

Percorsero il piccolo corridoio scuro. Ivan scomparve oltre la porta sotto alla scala, mentre Lacey continuò in cucina, il cuore che le batteva per la nervosa anticipazione.

Quando ebbe varcato la soglia della stanza, sussultò sonoramente.

La cucina sembrava venire da un museo dell’epoca vittoriana. C’era una cucina economica nera originale, pentole di rame che pendevano da ganci avvitati al soffitto e un grosso piano da macellaio al centro. Dalle finestre Lacey poté scorgere un ampio prato. Dall’altra parte dell’elegante porta finestra c’era un patio, che era stato arredato con un traballante set di tavolo e sedie. Lacey già si poteva vedere mentre sedeva là fuori, mangiando brioche fresche di pasticceria e bevendo caffè biologico peruviano comprato al negozio equo solidale.

Improvvisamente un forte colpo la risvegliò bruscamente dal suo sogno a occhi aperti. Veniva da un qualche punto sotto ai suoi piedi: aveva sentito addirittura vibrare le assi del pavimento.

“Ivan?” provò a chiamare, tornando in corridoio. “Va tutto bene?”

La voce dell’uomo le arrivò dalla porta aperta della cantina. “Sono solo i tubi. Penso non vengano usati da anni. Ci vorrà un poco perché si sistemino.”

Un altro forte colpo la fece saltare sul posto. Ma conoscendo ora l’innocua causa, questa volta reagì ridendo.

Ivan riemerse dalla scala della cantina.

“Tutto sistemato. Spero davvero che i tubi non ci mettano troppo ad assestarsi,” le disse in maniera nervosa.

Lacey scosse la testa. “È un elemento in più che si aggiunge al fascino del quadro complessivo.”

“Quindi puoi stare qui quanto ti pare,” aggiunse. “Terrò le orecchie aperte e ti faccio sapere non appena si libera qualcosa negli alberghi.”

“Non ti preoccupare,” gli rispose lei. “Questo è proprio quello che non mi ero resa conto di cercare.”

Ivan le lanciò uno dei suoi sorrisi timidi. “Allora dieci a notte possono andare?”

Lacey inarcò le sopracciglia. “Dieci? Vale a dire dodici dollari o giù di lì?”

 

“Troppo?” rispose Ivan con le guance che avvampavano di rosso. “Magari cinque?”

“Non troppo! Troppo poco!” esclamò Lacey, rendendosi conto di essersi messa a negoziare per alzare il prezzo piuttosto che abbassarlo. Ma il ridicolo sottoprezzo che le stava offrendo rasentava il furto, e lei non aveva intenzione di approfittare di quest’uomo tenero e imbranato che l’aveva salvata in un momento di estremo bisogno. “È una casa con due camere. Adatta a una famiglia. Una volta spolverata e ripulita, potresti facilmente ricavarci centinaia di dollari a notte!”

Ivan sembrava non sapere dove guardare. Chiaramente parlare di soldi lo metteva a disagio. Ulteriore prova del fatto che, secondo Lacey, non era adatto alla vita di un uomo d’affari. Sperava davvero che nessuno dei suoi clienti si approfittasse di lui.

“Beh, allora cosa ne dici di quindici a notte?” suggerì Ivan. “E ti mando qualcuno per la spolverata e ripulita.”

“Venti,” rispose Lacey. “E posso spolverare e pulire da sola.” Fece un sorrisino e gli tese la mano. “Ora dammi la chiave. Non accetto un no come risposta.”

Il rosso sulle guance di Ivan si allargò alle orecchie e giù lungo il collo. Fece un piccolo segno di assenso e passò a Lacey la chiave di bronzo.

“Il mio numero è sul biglietto da visita. Chiamami se si rompe qualcosa. O forse dovrei dire quando.”

“Grazie,” disse Lacey, riconoscente, con una risatina.

Ivan se ne andò.

Ora da sola, Lacey andò al piano di sopra per finire la sua esplorazione. La camera principale si affacciava sulla parte frontale della casa, con balcone e veduta sull’oceano. Era un’altra stanza in stile museo, con un grande letto a baldacchino in legno scuro e un armadio abbinato tanto grande da poterla portare a Narnia. La seconda camera dava sul retro e si affacciava sul prato. Il gabinetto era separato dalla stanza da bagno e di per sé era grande più o meno come uno sgabuzzino. La vasca era bianca e con i piedi di bronzo. Non c’era nessuna doccia separata, ma solo un attacco sul rubinetto della vasca.

Lacey tornò nella camera matrimoniale e si lasciò cadere sul letto a baldacchino. Era la prima volta che aveva davvero l’occasione di riflettere su quella frastornante giornata, e si sentiva effettivamente quasi scioccata. Quella mattina era stata una donna divorziata dopo quattordici anni di matrimonio. Ora era single. Era stata un’impegnata donna in carriera a New York. Ora si trovava in un cottage in cima a una scogliera in Inghilterra. Che emozione! Che brivido! Non aveva mai fatto niente di tanto coraggioso in vita sua, e cavolo se era bello!

I tubi emisero un altro sonoro scoppio e Lacey lanciò un gridolino. Ma un attimo dopo scoppiò a ridere.

Rimase sdraiata sul letto, fissando il rivestimento di stoffa sopra di sé e ascoltando il rumore delle onde che si infrangevano contro la scogliera. Quel suono riportò improvvisamente alla sua mente la fantasia infantile precedentemente accantonata di vivere vicino all’oceano. Che buffo che si fosse dimenticata del tutto di quel sogno. Se non fosse tornata a Wilfordshire, sarebbe rimasto forse sepolto nella sua mente e mai più recuperato? Si chiese quali altri ricordi avrebbero potuto tornarle alla mente durante la sua permanenza qui. Forse, dopo essersi svegliata l’indomani, avrebbe esplorato un po’ il paese, alla ricerca di indizi nascosti.

CAPITOLO TRE

Lacey fu svegliata da uno strano rumore.

Si mise a sedere di scatto, momentaneamente confusa trovandosi nella stanza poco familiare, ora illuminata solo da un piccolo raggio di luce naturale che filtrava tra le tende. Le ci volle un secondo per ricalibrare il proprio cervello e ricordare che non si trovava più nel suo appartamento di New York, ma in un cottage di pietra a Wilfordshire, in Inghilterra.

Il rumore si ripeté. Non era il solito scoppio dei tubi dell’acqua questa volta, ma qualcosa di completamente diverso, qualcosa che sembrava avere origine animale.

Controllando il cellulare con gli occhi annebbiati, Lacey vide che erano le cinque di mattina. Sospirando, si alzò stancamente dal letto. Gli effetti del jet-lag apparvero subito evidenti nella pesantezza delle gambe mentre si portava al balcone a piedi scalzi e tirava le tende. Da lì si vedeva il limitare della scogliera e la distesa del mare che all’orizzonte andava a fondersi con un cielo chiaro e privo di nuvole che stava cominciando pian piano a diventare blu. Non si vedeva nessun animale colpevole sul prato antistante, e quando sentì ancora il rumore, Lacey riuscì questa volta a definirne la provenienza: il retro della casa.

Avvolgendosi nella vestaglia che si era ricordata di comprare all’ultimo secondo in aeroporto, scese trotterellando le scale scricchiolanti per andare a indagare. Andò diretta verso il retro della casa, nella cucina, dove le grandi finestre di vetro e la porta finestra le davano una completa veduta sul prato retrostante. E lì Lacey scoprì l’origine del rumore.

Nel suo giardino c’era un intero gregge di pecore.

Lacey sbatté le palpebre. Dovevano essercene almeno quindici! Venti. Forse di più!

Si strofinò gli occhi, ma quando li riaprì, tutte quelle creature dal pelo voluminoso erano ancora lì, intente a brucare l’erba. Poi una alzò la testa.

Lacey fissò la pecora dritta negli occhi, fino a che, alla fine, la bestia piegò la testa indietro ed emise un lungo e sonoro belato.

Lacey si mise a ridere. Non le veniva in mente modo migliore per iniziare la sua nuova vita DD. All’improvviso il fatto di essere lì a Wilfordshire assomigliava meno a una vacanza e più a una dichiarazione d’intento, un riscatto del suo vecchio sé, o forse un sé completamente nuovo, mai incontrato prima. Qualsiasi cosa fosse, le dava allo stomaco una sensazione di bollicine, come se qualcuno gliel’avesse riempito di champagne (o forse era solo il jet-lag: per quello che ne sapeva il suo orologio interno, il suo corpo aveva appena avuto l’occasione di godersi una bella dormita fino a tardi). Ad ogni modo, Lacey non vedeva l’ora di cominciare la giornata.

Si sentiva pervasa da un improvviso entusiasmo e desiderio di avventura. Ieri si era svegliata con i soliti rumori del traffico di New York, oggi con il suono di innocenti belati. Ieri aveva avuto nelle narici l’odore di bucato fresco e prodotti per la pulizia. Oggi: polvere e oceano. Aveva preso la vecchia familiarità della sua vita e l’aveva spazzata via del tutto. In quanto neo-donna single, il mondo le sembrava improvvisamente come un guscio di conchiglia. Voleva esplorare! Scoprire! Imparare! Tutt’a un tratto si sentiva traboccare di un entusiasmo che non aveva provato da quando… beh, da quando suo padre le aveva lasciate.

Lacey scosse la testa. Non voleva pensare a cose tristi. Era determinata a non permettere a niente di rovinare quel suo nuovo senso di gioia. Almeno non oggi. Oggi avrebbe impugnato quella sensazione e non l’avrebbe lasciata andare per niente al mondo. Oggi era libera.

Cercando di non pensare troppo alla pancia che brontolava, cercò di fare una doccia nella grande vasca scivolosa. Usò la strana pompa collegata ai rubinetti per spruzzarsi di acqua dalla testa ai piedi, come si sarebbe potuto fare con un cane ricoperto di fango. Senza alcun preavviso l’acqua passava di tanto in tanto da calda a gelata mentre i tubi facevano clang-clang-clang. Ma l’immediata morbidezza dell’acqua, confronto a quella più dura a cui era abituata a New York, fu per lei l’equivalente di un balsamo ravvivante su tutto il corpo, e Lacey si crogiolò in esso, anche quando un’improvvisa ondata fredda le faceva battere i denti.

Quando tutto lo sporco dell’aeroporto e l’inquinamento della città furono eliminati dalla sua pelle, lasciandola quasi letteralmente luccicante, Lacey si asciugò e indossò i vestiti che si era comprata in aeroporto. C’era un grande specchio all’interno dell’anta dell’armadio di Narnia, e Lacey lo usò per darsi una controllata. Non era proprio un gran che.

Fece una smorfia. Aveva preso i vestiti da un negozio per abbigliamento da spiaggia all’aeroporto, ragionando sul fatto che degli abiti casual fossero la scelta più adeguata alla sua vacanza al mare. I pantaloni beige erano un po’ troppo stretti, la camicia bianca di mussola le cadeva larga addosso e le scarpe erano larghe e leggere, ancora meno adatte dei suoi tacchi ai ciottoli delle strade! La priorità della giornata sarebbe stata quella di investire in qualcosa di decente da mettersi.

La pancia di Lacey brontolò ancora.

Seconda priorità, pensò, accarezzandosi lo stomaco.

Andò al piano di sotto, i capelli bagnati che le gocciolavano sulla schiena, ed entrò in cucina. Guardando dalla finestra, vide che solo due pecore della banda di quella mattina erano ora rimaste nel suo giardino. Controllando la credenza e il frigorifero, scoprì che entrambi erano vuoti. Era ancora troppo presto per andare in città, in pasticceria, e prendere le sue leccornie fresche di forno per la colazione. Avrebbe dovuto ammazzare un po’ il tempo.

“Ammazziamo il tempo!” esclamò Lacey con voce alta e piena di gioia.

Quand’era stata l’ultima volta che ne aveva avuto l’occasione? Quando si era mai anche solo permessa la libertà di sprecare del tempo? David era sempre stato così rigido con quel poco tempo libero che lei aveva. Ginnastica. Brunch. Commissioni di famiglia. Qualcosa da bere. Ogni momento “libero” era sempre programmato. Lacey ebbe un’improvvisa epifania: il semplice atto di programmare il tempo libero, ne negava la libertà! Permettendo a David di pianificare e dettare quello che facevano ogni volta, lei si era effettivamente lasciata rinchiudere in una camicia di forza di obblighi sociali. Quel momento di chiarezza la colpì con la potenza di una rivelazione buddista.

Il Dalai Lama sarebbe così fiero di me, pensò, battendo le mani compiaciuta.

In quel preciso istante le pecore in giardino belarono. Lacey decise che avrebbe usato la sua neo-acquisita libertà per trasformarsi in una detective amatoriale e scoprire da dove fosse saltato fuori quel gregge.

Aprì la porta finestra e uscì sul patio. La fresca umidità generata dall’oceano le bagnò il volto mentre lei percorreva il viottolo del giardino, diretta verso le due palle di pelo morbido che ancora stavano brucando la sua erba. Quando la sentirono arrivare, trotterellarono via goffamente, senza la minima grazia, e scomparvero attraverso un varco tra le siepi.

Lacey le seguì e guardò attraverso il buco, vedendo un altro giardino pieno di fiori variopinti al di là del groviglio di arbusti e cespugli. Quindi aveva dei vicini. A New York i suoi vicini erano stati distaccati, coppie di professionisti come lei e David, le cui vite consistevano nell’uscire di casa prima del sorgere del sole per farvi ritorno dopo il tramonto. Ma questi, da come appariva il loro giardino perfettamente curato, si godevano la bella vita. E avevano delle pecore! Non c’era un solo animale nel vecchio condominio in cui Lacey aveva abitato fino al giorno precedente. La gente impegnata negli affari non aveva tempo per gli animali domestici, né tantomeno l’inclinazione per avere a che fare con mute del pelo o odori da fattoria. Che delizia vivere ora a così stretto contatto con la natura! Addirittura l’odore degli escrementi delle pecore era in piacevole contrasto con l’appartamento iper-pulito di New York.

Mentre si rimetteva dritta in piedi, Lacey notò un’area dove l’erba era pestata e rada, ma un sentiero segnato dal passaggio ripetuto di tantissimi piedi. Conduceva dagli arbusti alla scogliera. Lì c’era un cancelletto, praticamente fagocitato dalle piante. Lacey vi si avvicinò e lo aprì.

Sul versante della scogliera era stata ricavata una serie di gradini che portavano giù fino alla spiaggia. Sembrava una cosa uscita da una fiaba, pensò Lacey, felicemente sorpresa mentre si apprestava a scendere con attenzione.

Ivan non le aveva neanche detto che c’era un passaggio diretto fino alla spiaggia. Se le fosse venuta una voglia matta di sentire la sabbia tra le dita dei piedi, poteva esaudire il desiderio nel giro di pochi minuti. E pensare che a New York era sempre stata così orgogliosa dei due minuti a piedi che la separavano dalla metropolitana.

Scese i disordinati gradini fino a che si trovò circa un metro sopra alla spiaggia. Fece un salto e la sabbia morbida permise alle sue ginocchia di assorbire perfettamente l’impatto nonostante le scarpe scadenti acquistate in aeroporto.

Lacey fece un profondo respiro, sentendosi totalmente libera da ogni pensiero. Questa parte della spiaggia era deserta. Intatta. Doveva essere troppo distante dai negozi in paese perché la gente vi si avventurasse. Era come se fosse una sua spiaggetta personale e privata.

 

Guardando in direzione del paese, vide il molo che sporgeva allungandosi nell’acqua dell’oceano. Subito venne colpita da un ricordo che la vedeva giocare al tirassegno, e la rumorosa sala giochi dove suo padre aveva permesso loro di spendere due sterline. Lacey ricordò che sul molo c’era anche un cinema. Era esaltata dai frammenti di memoria che le stavano tornando alla mente. Era una piccola sala, grande quanto una monovolume e praticamente non era quasi cambiato da quando l’avevano costruito, con le poltrone in elegante velluto rosso. Papà aveva portato lei e Naomi a guardare un oscuro cartone giapponese là dentro. Lacey si chiese quanti altri ricordi le sarebbero tornati alla mente durante la sua permanenza a Wilfordshire. Quanti altri vuoti nella memoria sarebbero stati riempiti da questo viaggio?

C’era bassa marea, quindi buona parte della struttura del molo era visibile. Da dove si trovava lei, si potevano vedere anche alcune persone che portavano a spasso il cane e un paio di altre che facevano jogging. Il paese stava iniziando a svegliarsi. Magari adesso avrebbe trovato una caffetteria aperta. Decise di imboccare la lunga via che costeggiava il mare per andare in paese e iniziò a percorrerla.

Man mano che si avvicinava al centro cittadino, la scogliera arretrava, e presto ci furono solo strade e stradine. Nel momento in cui mise piede sulla via pedonale, le venne in mente un altro improvviso ricordo: un mercato sotto un tendone che vendeva vestiti, gioielli e bastoncini di zucchero. C’erano sul pavimento una serie di numeri disegnati con la vernice che indicavano i punti in cui andavano sistemate. Lacey provò un’ondata di entusiasmo.

Allontanandosi dalla spiaggia, si diresse verso la strada principale, o High Street, come la chiamavano i Britannici. Notò il Coach House all’angolo, dove aveva incontrato Ivan la sera precedente, poi svoltò nella via decorata di festoni.

Era così diverso rispetto a stare a New York. Il passo era più lento. Non c’era il suono continuo dei claxon. Nessuno spingeva. E, con sua sorpresa, alcune caffetterie erano effettivamente aperte.

Entrò nella prima che trovò, dove sembrava non esserci coda in vista, e ordinò un caffè americano e una brioche. Il caffè era perfetto, forte e cremoso. La brioche riempiva la bocca di pasta friabile e delizia burrosa.

Con lo stomaco finalmente soddisfatto, Lacey decise che era giunta l’ora di andare a trovare degli abiti decenti. Aveva visto un bel negozietto alla moda all’altro capo della strada principale e aveva già iniziato a camminare in quella direzione quando un profumo di zuccherò le assalì le narici. Si voltò e vide un negozio di fudge artigianali che aveva appena aperto i battenti. Incapace di resistere, entrò.

“Vuole provare un assaggio gratuito?” chiese un uomo con un grembiule bianco a strisce rosa. Le indicò un vassoio argentato pieno di cubetti di diverse sfumature di marrone. “Abbiamo cioccolato nero e bianco, caramello, toffee, caffè, frutta mista e originale.”

Lacey sgranò gli occhi. “Posso provarli tutti?” chiese.

“Certamente!”

L’uomo tagliò dei cubetti per ogni gusto e glieli servì in modo che potesse provarli. Lacey si mise in bocca il primo e le sue papille gustative esplosero.

“Sorprendente,” disse con la bocca piena.

Passò al successivo. In qualche modo era migliore del primo.

Provò un pezzo dopo l’altro, e tutti le parvero man mano sempre più deliziosi.

Quando mise in bocca l’ultimo, quasi non si concesse il tempo di respirare ed esclamò subito: “Devo mandarne qualcuno a mio nipote. Resistono se li spedisco a New York?”

L’uomo sorrise e tirò fuori una scatola di cartone rivestito di carta stagnola. “Se usa la nostra speciale confezione per la consegna, sicuramente,” le disse ridendo. “È diventata una richiesta talmente comune, che le abbiamo fatte progettare appositamente. Abbastanza sottili da passare nella cassetta della posta, e leggere per mantenere basso il costo della spedizione. Può anche comprare i francobolli qui.”

“Che moderno!” disse Lacey. “Ha pensato a tutto.”

L’uomo riempì la scatola con un cubetto per ogni gusto, la chiuse per bene fissando il coperchio con del nastro adesivo e vi appiccicò sopra il giusto francobollo postale. Dopo aver pagato e ringraziato l’uomo, Lacey prese il suo pacchetto, scrisse il nome di Frankie e l’indirizzo e lo imbucò nella tradizionale cassetta delle lettere dall’altra parte della strada.

Quando il pacco fu sparito attraverso la fessura, Lacey si rese conto che si stava distraendo dal suo effettivo compito: trovare dei vestiti. Stava per ripartire alla ricerca di un negozio d’abbigliamento, quando la sua attenzione venne richiamata dalla vetrina del negozio accanto alla cassetta della posta. Mostrava una scena della spiaggia di Wilfordshire con il molo che si allungava nel mare, ma l’intera figura era stata realizzata con macarons color pastello.

Lacey si pentì subito della brioche e degli assaggi di fudge che aveva già mangiato, perché la vista di quella delizia le fece venire l’aquilina in bocca. Fece una foto per il gruppo delle Doyle Girls.

“Posso esserle di aiuto?” chiese una voce accanto a lei.

Lacey si mise sull’attenti. Sulla porta del negozio c’era il proprietario, un uomo di bell’aspetto sulla quarantina, con i capelli folti e scuri e una mandibola ben disegnata. Aveva gli occhi verdi e brillanti, con piccole rughe di espressione ai lati che facevano subito capire quanto fosse uno che si godeva la vita, il tutto confermato da una bella abbronzatura, segno di frequenti viaggi in paesi dai climi più caldi.

“Sto solo facendo un giro per vetrine,” disse Lacey, la voce che le usciva come se qualcuno le stesse strizzando le corde vocali. “Questa mi piace molto.”

L’uomo sorrise. “L’ho fatta io. Perché non entri e provi qualche dolcetto?”

“Mi piacerebbe, ma ho già mangiato,” spiegò Lacey. La brioche, il caffè e i fudge sembravano agitarsi nel suo stomaco, dandole quasi una sensazione di nausea. Lacey si rese conto all’improvviso di quello che stava succedendo: era quella sensazione di attrazione fisica, perduta da tempo, che le faceva sentire le farfalle che volavano nello stomaco. Le sue guance subito si imporporarono.

L’uomo ridacchiò. “Dall’accento mi pare di capire che sei americana. Quindi forse non sai che qui in Inghilterra abbiamo questa cosa che si chiama la pausa delle undici. Viene dopo la colazione e prima del pranzo.”

“Non ti credo,” rispose Lacey, facendo una piccola smorfia con le labbra. “La pausa delle undici?”

L’uomo si premette la mano sul petto. “Te lo giuro, non è un trucchetto di marketing! È l’ora perfetta per tè e dolcetto, o tè e tramezzino, o tè e biscotti.” Fece un gesto d’invito attraverso la porta aperta, indicando la vetrinetta interna, piena di dolciumi realizzati con creatività e dall’aspetto irresistibile. “Oppure tutte quante.”

“Basta accompagnarle con il tè?” disse Lacey con tono sarcastico.

“Esatto,” rispose lui, gli occhi verdi che si illuminavano in un guizzo di ironia. “Puoi anche provare prima di comprare.”

Lacey non poteva più resistere. Che fosse una sorta di dipendenza causatale dagli zuccheri che aveva in corpo o, più probabilmente, l’attrazione magnetica di questo meraviglioso esemplare di uomo, alla fine entrò.

Guardò deliziata, l’acquolina in bocca, mentre l’uomo prendeva dalla vetrinetta un panetto dolce pieno di burro, marmellata e crema, e lo tagliava con precisione in quattro parti. Eseguì l’intera operazione in maniera piuttosto teatrale, come se fosse una routine di danza. Posizionò i pezzetti su un piattino in ceramica e lo porse a Lacey, sostenendolo da sotto con le punte delle dita, completando la sua accurata e disinvolta performance con un allegro: “Et voilà.”