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I Vicere

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4

«Oggi non si mangia?»

Il principino moriva di fame. Da un pezzo l’ora del desinare non arrivava mai: un po’ mancava il duca, un po’ Raimondo, un po’ lo stesso principe; quel giorno eran fuori tutti e tre, più Lucrezia e Matilde. E il ragazzo era la disperazione di tutta la casa: correva su e giù dalla cucina alla scuderia, dalle stalle al giardino, inquietava la servitù vecchia e nuova intenta al lavoro. Come don Blasco aveva annunziato al Babbeo, tutti i servi protetti dalla principessa erano stati mandati via da Giacomo; invece i diseredati, quelli che per aver favorito il figliuolo avevano meritato l’avversione della madre, erano stati da costui riconfermati nel loro posto. Due sole eccezioni aveva fatto il principe: una a favore di Baldassarre e l’altra del signor Marco. Baldassarre, figliuolo d’una antica cameriera, allevato al palazzo e assunto giovanissimo all’ufficio di maestro di casa, sapeva fin da bambino il debole della famiglia, le rivalità, le avversioni e le manìe; aveva perciò badato esclusivamente al proprio servizio lodando tutti i padroni checché facessero o dicessero, tenendo in riga i suoi dipendenti che osavano mormorare dell’uno o dell’altro. Pertanto madre e figlio l’avevano ben visto entrambi, e il legato della principessa non gli procurava il congedo del principe. Quanto al signor Marco, lancia spezzata della morta, molti si meravigliavano che il figlio, da due mesi capo della casa, non se ne fosse ancora sbarazzato. Veramente, fin da quando la principessa era caduta inferma, l’amministratore aveva mutato tattica, prendendo con le buone il padrone nella previsione di doverlo presto servire; morta la madre, se non gli aveva proprio lasciato rubare il numerario, come diceva don Blasco, gli si umiliava certamente in tutti modi. Del resto, un procuratore come lui, che conosceva la casa da quindici anni, che sapeva le condizioni delle proprietà e lo stato delle liti, non si poteva surrogare da un momento all’altro.

«Non si mangia più?… Che fate?… Voglio vedere!… Perché non allestite?… A me!»

In cucina, tolto di mano a Luciano, il credenziere, un coltello che questi stava nettando, il principino continuò egli stesso l’operazione.

«Vostra Eccellenza, che fa mai!…» Il nuovo cuoco, monsù Martino, non sapeva come prenderlo. «Se ne vada di sopra, ci lasci lavorare.»

«Lèvati di torno! Voglio far io!»

Bisognava lasciarlo fare. Se lo contrariavano, diventava una furia: digrignava i denti, gridava come un ossesso, rovesciava quanto gli capitava fra le mani. In verità il principe educava severamente il figliuolo, non gliene passava nessuna liscia; ma, da un’altra parte, non scherzava neppure con le persone di servizio se queste, messe con le spalle al muro e perduta la pazienza, rispondevano male al padroncino. E giusto adesso, dopo la morte della principessa, il posto di cuoco, in casa Francalanza, era divenuto più importante di prima. Giacomo dava punti alla madre quanto a diffidenza e a vigilanza: teneva tutte le provviste sotto chiave, voleva conto delle cose più miserabili, degli avanzi, delle croste di pane; ma insomma la spesa giornaliera, non contando l’aumento per gli ospiti, era considerevole e il trattamento più lauto: mangiavano adesso quattro piatti; mentre ai tempi della madre se ne facevano tre per lei e per don Raimondo: gli altri dovevano contentarsi, nei giorni ordinari, d’una minestra e d’un po’ di carne o di pesce. Anche quando Giacomo era diventato ricco della dote della moglie, la principessa, facendosi dare dal figlio la sua parte di spesa, aveva continuato a ordinare a modo suo, e il principe, fedele al proposito di mostrarlesi obbediente, era rimasto zitto. Così pure egli non aveva potuto eseguire nel palazzo le modificazioni da lungo tempo disegnate; morta donna Teresa, prese finalmente le redini della casa, metteva ora ogni cosa sossopra. S’udivano fino in cucina i colpi di piccone dei muratori, il cigolìo delle carrucole con le quali issavano i materiali dalla corte al piano di sopra; e i guatteri, occupati ad affettar patate e a sbatter uova, scambiavano fra loro osservazioni su quei lavori:

«Levano la scala dell’amministrazione per guadagnare spazio…»

«Io non avrei chiuso un pezzo della terrazza.»

«Il padrone però deve dar conto a suo fratello, essendo eredi tutt’e due.»

«Ma il palazzo è del principe! Il contino ha un solo quartiere…»

Il principino adesso non perdeva una parola del discorso.

«Il contino scapperà subito fuori via… Non è fatto per star qui…»

Il lavoro delle salse li faceva tacere tratto tratto. Luciano, con una strizzatina d’occhio, disse dopo un pezzo al compagno:

«Ricomincia, eh?»

«Lascialo fare! Quello è un vero signore!»

E Luciano chinò il capo, in segno d’approvazione ammirativa. Erano tutti pel conte, in cucina, come nelle anticamere, come nelle scuderie; perché il padrone giovane non rassomigliava al maggiore, tanto era dolce di comando e largo di mano.

«Signore davvero, di modi e di pensieri. Non come l’amico…»

«L’amico è volpe vecchia… com’era l’amica…»

«Che dite?» domandò il principino.

«Niente, Eccellenza!» rispose il cuoco; e vòlto ai dipendenti: «Lavorate!» ingiunse, «senza tante ciarle…»

«Ah, non vuoi dirmelo?»

«Ma che cosa, Eccellenza, se parlano così, a vanvera?»

«Ah, non vuoi dirmelo?»

A un tratto, udendo la carrozza che entrava nel cortile, Consalvo scappò a vedere.

Tornavano finalmente le zie Lucrezia e Matilde andate alla badìa di San Placido. Il ragazzo, dimenticati la cucina e il cuoco, corse a raggiungerle di sopra, nella camera della madre, per vedere se gli portavano nulla.

La contessa Matilde gli diede infatti un cartoccio di dolci; ma la zia Lucrezia neppure gli badò, con tanta animazione teneva un discorso alla principessa:

«Piangeva, capisci!… Abbiamo voluto parlare con la Badessa, che ci ha confermato ogni cosa; è vero, Matilde?… Che modo è questo!… Le messe per nostra madre…»

«Sst…»

La principessa fece un segno alla cognata di tacere, per riguardo del ragazzo.

«Mamma, oggi non si mangia più?…» domandò costui.

«Se tuo padre non è ancora venuto!… Va’, va’ a vedere se arriva.»

Il principino comprese che lo mandavano via. A sei anni, era curioso più di don Blasco. I maneggi dello zio monaco, il continuo complottare che si faceva in quella casa, avevano destato di buon’ora la sua attenzione: dopo la morte della nonna, s’accorgeva, dal contegno dei parenti, dai discorsi dei servi, che l’avevano con suo padre, chi per una ragione e chi per un’altra, ma che nessuno ardiva prendersela direttamente con lui. Egli comprendeva tante altre cose: che la zia Ferdinanda non poteva soffrire la zia Matilde; che tra questa e suo marito c’erano dissapori: comprendeva e taceva, fingendo di non accorgersi di nulla, per non incorrere nella collera di nessuno. Infatti, lo zio don Blasco dava solenni scappellotti, la zia Lucrezia giocava anche lei a pizzicargli il braccio, specialmente quando egli andava a rovistarle la camera; ma specialmente suo padre, sempre burbero, gliene dava, alle volte, di quelle che radevano il pelo. Pertanto egli non se la diceva molto con lui, mentre invece non poteva stare lontano dalla mamma. Donna Ferdinanda, veramente, gli usava molte preferenze; ma nessuno come la principessa scusava i difetti del monello. Rabbrividendo, cadendo in convulsione se qualcuno le si metteva troppo dappresso, ella vinceva la manìa dell’isolamento soltanto per amore dei figli, si stringeva al petto e baciava furiosamente il suo Consalvo anche quanto non era troppo netto, e con tanto maggior impeto quando più si difendeva da ogni altro contatto. Da un pezzo, nata la sorellina Teresa, le carezze non erano tutte per lui; nondimeno, solo la principessa riusciva ad ottenere qualche cosa da Consalvo con le buone, per amore.

«Va’, va’ a vedere se il babbo è tornato…»

Il principe Giacomo rientrava in quel momento. Aveva una ciera più aggrottata del solito, e neppure salutò, entrando; Lucrezia ammutolì, alla sua vista. Egli domandò se il duca era rincasato, e udendo che no, diede ordine che servissero in tavola appena giunto lo zio. Poi se ne andò a chiudersi nel suo scrittoio col signor Marco. Consalvo restò un poco senza saper che fare, esitando tra il ritorno in cucina e una visita ai manovali. Invece, visto che la zia Lucrezia riprendeva a parlare con la mamma, salì nella camera di lei. Gli aveva proibito di entrarci perché adesso studiava il disegno d’acquarello e non voleva toccate le sue cose, specialmente pel pericolo che scoprissero le lettere di Benedetto Giulente; invece, i pezzi di colore, i piattelli da stemperare, i pennelli, la gomma, facevano gola al ragazzo. E nessuna raccomandazione o minaccia serviva a Lucrezia; se reclamava, le toccavano soprammercato i rimproveri del fratello diventato intrattabile dopo la lettura del testamento; talché il monello, quando carpiva l’occasione, faceva man bassa in camera della zia. Salito dunque lassù, a quell’ora che era sicuro di non essere sorpreso, il principino cominciò a rovistare sul tavolino, in mezzo ai disegni, nella cartiera, nel comodino. Dov’erano nascoste le cose del disegno? Forse nelle cassette più alte di quell’armadio, dov’egli non arrivava. Intanto, dal cortile, s’udì la campana che annunziava l’arrivo del duca. Egli continuò a guardarsi intorno, a cercare febbrilmente sotto il letto, sotto l’armadio, nella specchiera. Questa era una piccola tavola ricoperta di tela ricamata: sollevatone un lembo, apparve la cassetta. Lì dentro, in mezzo ai vecchi pettini, a scatole vuote di pasta di mandorle, c’era un fascio di carte annodate con un nastro rosso. Consalvo disfece il nodo e sciorinò le lettere. Improvvisamente Lucrezia apparve sull’uscio.

«Ah!…» gridò, e slanciarsi sul nipote ed allungargli un ceffone fu tutt’uno.

 

Il ragazzo cacciò uno strillo così acuto, come se lo stessero scannando.

«T’ho detto mille volte di non toccare le cose mie! Non è possibile serbare più nulla! Sono ridotta come se fossi in piazza…»

Accorse Vanna, la cameriera, agli urli disperati, ma aveva appena cominciato: «Signorina… lo lasci andare…» che apparve il principe.

«E per questo alzi le mani sul bambino?»

«Se non posso essere ubbidita!… Se non sono padrona di serbare uno spillo!…»

Egli sollevò Consalvo da terra, lo prese per mano e disse, lentamente, guardandola bene in viso:

«Un’altra volta, se t’arrischi di toccare mio figlio, ti piglio a schiaffi; hai capito?»

Ella rimase un momento come stordita. Visto uscire il fratello, corse a un tratto alla porta, la chiuse sbattendola violentemente e non rispose più a nessuno dei servi che venivano a chiamarla pel desinare. Dové salire il duca a scongiurarla di aprirgli; alle raccomandazioni, alle ammonizioni dello zio, finalmente proruppe:

«E che pazienza! Sono due mesi che mi tratta così!… Perché l’ha con me? Pel testamento di nostra madre? Fa’ così per giocar di prima? Ha dunque ragione lo zio don Blasco?… Ha sentito, ha sentito Vostra Eccellenza, che ha fatto adesso?»

«Che ha fatto?»

«Non vuol riconoscere il legato alla badìa di San Placido!… Abbiamo trovato Angiolina che piangeva e la Badessa che gettava fuoco e fiamme!… Vuol far lui tutte le carte, e ci tratta poi così, d’alto in basso, per avvilirci tutti quanti…»

«Piano!… Basta, per ora…» il duca tornava a raccomandarsi, per amor della pace. «Basta!… Vieni a desinare, per ora… Ti prometto che poi gli parlerò io…»

Raimondo non era ancora rientrato quando tutta la famiglia, con l’assistenza di don Mariano, prese posto a tavola. Lucrezia aveva gli occhi ancora rossi, teneva il capo chino, non diceva una parola; ma il principe, fattosi improvvisamente sereno in vista, rivolgeva cortesie allo zio duca. Tutti i giorni così: dopo lunghe ore di mutria, di silenzi, di voltate di spalle al sopravvenire dei fratelli e delle sorelle e più della cognata Matilde, egli smetteva a tavola la ciera accigliata, per corteggiar lo zio. Non era la prima volta che il desinare cominciava senza Raimondo, e al malumore di Lucrezia faceva riscontro, quel giorno, un pensiero molesto sulla fronte di Matilde.

Non le facevano festa, in quella casa. Il principe, donna Ferdinanda, don Blasco, un po’ anche la cugina Graziella, dovevano trovare in lei colpe imperdonabili, se la punzecchiavano assiduamente, se la trattavano senza riguardi; ma ella perdonava le mancanze di riguardo e gli sgarbi fatti a lei; non soffriva quelli che toccavano a suo marito. Forse era questa la sua grande colpa: l’amore che portava a Raimondo!… Lo amava fin da quando lo aveva visto, da prima ancora; fin da quando, fidanzata per lettera a quel conte di Lumera del quale suo padre, superbo d’imparentarsi coi Viceré, le faceva lodi senza fine, ella aveva lavorato con la fantasia a rappresentarlo bello, nobile, generoso, cavalleresco come un eroe del Tasso o dell’Ariosto. E la realtà aveva superato le sue stesse immaginazioni; tanto era fine, lo sposo suo, e leggiadro, ed elegante, e splendido; ed ella che non aveva conosciuto da vicino altri uomini, che s’era nutrita unicamente di sogni, di poesia, di fantasia alta e pura, gli aveva dato tutta l’anima, per sempre; lo aveva amato ancora nei suoi cari e idolatrato nella figlia nàtale da lui. Ella non aveva altra idea della vita che quella espressa dalla vita sua propria, semplice e piana, tutta trascorsa in mezzo alla sorellina Carlotta, alla mamma loro, soave ed amara ricordanza, ed al padre, uomo di passioni estreme, amico o nemico fino alla morte degli altri uomini, ma cieco e folle d’amore per le sue figlie… Mentre ella adesso si voltava ogni tratto a guardar l’uscio della sala con l’ansiosa aspettativa dell’arrivo di Raimondo, la scena che aveva dinanzi le rammentava, con un effetto di vivo contrasto, un’altra indelebilmente fitta nella sua memoria. La sua memoria le rappresentava il desco familiare, nella grande stanza da pranzo della casa paterna, a Milazzo: la mamma, la sorella, ella stessa intenta ai racconti del padre, sorridenti con lui, con lui tristi o dolenti; il padre tutto loro, coi pensieri e con le opere; e un costante e quasi superstizioso rispetto per le antiche abitudini, e una pace patriarcale, un amore reciproco, una confidenza assoluta. Se ella si guardava ora intorno, che vedeva? La principessa timida e paurosa dinanzi al marito, il ragazzo tremante a un’occhiata del padre, ma superbo dell’umiliazione inflitta alla zia; Lucrezia e il fratello ancora freddi e sospettosi l’uno verso l’altra; il principe ostentante il buon umore col duca dopo una giornata d’accigliato silenzio… Ella neppure sospettava le passioni che dividevano quella famiglia, il giorno che vi era entrata come in un’altra famiglia sua propria: tanto più grande era stato il suo stupore, il suo dolore, nel vedere di che sordo astio la ripagavano. Giudicavano, certo, che fosse indegna di Raimondo perché a lui inferiore: e nessuno quanto lei stessa lo poneva tanto alto; ma non le aveva giovato sentirsi e farsi umile dinanzi a lui e ad essi: l’astio non s’era placato. Allora ella aveva cominciato a comprendere le particolari passioni che, oltre all’orgoglio, animavano ciascuno di quegli Uzeda duri e violenti… La madre di Raimondo, per idolatria del figlio era gelosa di lei: riuscita ad ammogliarlo, ad assicurargli la dote, aveva umiliato la nuora, facendole sentire fin dal primo giorno la sua mano di ferro perché, più d’ogni altro, ella stessa sommessa dinanzi al beniamino; ma la sommessione idolatra, il cieco affetto della sposa, togliendole ogni pretesto d’incrudelire su lei, mettendo nuova esca al fuoco della sorda gelosia materna, l’aveva resa implacabile. Il fratello maggiore, non perdonando a Raimondo i suoi privilegi, non potendo rassegnarsi alla concorrenza che la famiglia di lui faceva alla propria, rovesciava il suo rancore sulla cognata. Tutti gli altri erano stati senza pietà per l’intrusa, o in odio alla principessa che l’aveva voluta in quella casa o in odio a Raimondo che la madre proteggeva. Così ella s’era vista bersaglio di quei parenti ai quali era venuta con animo confidente e cuore affezionato; e lo scoprire che il loro astio era tanto acre contro di lei quanto contro Raimondo, invece di attenuare aveva inacerbito la sua pena; poiché perduta d’amore pel marito, ella soffriva e gioiva in lui e per lui… In quello stesso momento che il principe pareva non veder la cognata o, se volgevasi dalla sua parte, smessa a un tratto la ciera gioconda, le mostrava un viso contegnosamente chiuso, peggio che se fosse una estranea, ella non soffriva tanto di quell’ostentata freddezza, quanto della trascuranza da tutti dimostrata verso suo marito. Il desinare progrediva come se egli non dovesse venire più, nessuno chiedeva di lui. Lucrezia teneva ancora il capo chino sul desco, la principessa badava a suo figlio, il principe parlava dello stato delle campagne, dei prezzi delle derrate, dei pericoli del colera; il duca discuteva della guerra d’Oriente; e solamente un estraneo, don Mariano, diceva tratto tratto:

«E Raimondo?… Non si vede più!… Che gli è successo?»

Allora, come per virtù dell’eco, quella domanda si ripercoteva nel pensiero di lei: «Non si vede più!… Che gli è successo?…» Perché mai tardava tanto? Perché la lasciava sola tra quegli estranei indifferenti od ostili?

«I russi resistono ancora… un osso duro da rodere… Napoleone ne seppe qualcosa…»

Di nuovo assorta in pensieri più gravi e molesti, ella udiva brani di frasi, parole di cui non afferrava il senso. Da quanto tempo la lasciava sola, Raimondo! Da quanto, da quanto!… Ella rammentava assiduamente la prima pena che le aveva inflitta, tanto tempo addietro. Buono con lei nei primi tempi del matrimonio, durante il viaggio di nozze ed il soggiorno di Catania, appena giunto a Milazzo dove erano andati per affari, per vedere il padre e la sorella di lei, egli aveva dichiarato di non aver preso moglie per vivere in quella bicocca, per incappare nella tutela del suocero dopo essere uscito da quella della madre. Certo, ella non credeva che la vita nella sua cittadella natale potesse allettarlo molto; certo, lo avrebbe seguito dovunque gli sarebbe piaciuto condurla; nondimeno quel brusco giudizio intorno a cose e persone care al cuor suo le aveva procurato un senso d’angustia indimenticabile. Egli voleva lasciare per sempre la Sicilia, andarsene a vivere a Firenze; né la contraria volontà della madre gli era d’ostacolo; alla moglie, che per non discostarsi troppo dai suoi gliela rammentava esortandolo ad obbedirla, rispondeva bruscamente: «Lasciami fare a modo mio.» Ed ella, sì, aveva riconosciuto le sue ragioni. La Sicilia, la Toscana, qualunque parte del mondo dove sarebbero stati insieme felici, non doveva esser tutt’uno per lei? Il dispotico divieto della suocera poteva avere maggior peso per lei del desiderio del marito? E quel desiderio non era forse legittimo; il suo Raimondo non era chiamato a figurare in mezzo alla società più eletta di una grande città? Giovani e ricchi, non sarebbero stati dovunque segno dell’invidia di tutti?… Ed ella non aveva perseverato nei tentativi di resistenza anche per un’altra ragione, più grave. Raimondo, del quale perdonava, anzi voleva ignorare i modi un po’ bruschi, l’insofferenza della contraddizione, tutti i piccoli difetti di un figliuolo troppo vezzeggiato, si mostrava qual era anche col suocero. Il carattere di costui essendo pure molto forte, un dissenso poteva sorgere da un momento all’altro. Sulle prime, il barone aveva fatto una vera festa al genero, trattandolo quasi come la principessa, sedotto anche lui dalla grazia fine del giovane, inorgoglito dalla fortuna di essersi imparentato coi Francalanza; ma Raimondo aveva risposto a tante prevenzioni zelanti, a tante cure affettuose mostrandosi malcontento di tutto, in quella casa, ripeteva ogni quarto d’ora: «Come si fa a vivere qui?…» Il barone aveva da lui la procura per amministrare le proprietà date alla figlia, e in questa amministrazione intendeva seguire i criteri e i sistemi antichi, dei quali sapeva la bontà; Raimondo invece, per occupar gli ozi di Milazzo, quando non passava le intere giornate giocando al casino con gli scapati presto conosciuti, si faceva render conto dal suocero dei suoi provvedimenti, per biasimarli, per suggerir quelli che, a suo giudizio, bisognava adottare. In questa materia, egli dimostrava un’assoluta ignoranza degli affari, una stravaganza di concetti molto simile a quella del fratello Ferdinando: il barone ne rideva, egli se l’aveva a male. Le parti s’invertivano quando il barone gli chiedeva conto dell’impiego dei capitali dotali: allora egli biasimava certe operazioni bislacche del genero, e questi dichiarava al suocero che non ci capiva nulla. Spesso, in quei dibattiti, alle uscite vivaci di Raimondo il barone faceva un visibile sforzo per contenersi, per non dargli sulla voce; allora Matilde interveniva, mutava soggetto al discorso, componendo il lieve screzio coi sorrisi prodigati egualmente alle due persone che più amava al mondo. Il suo grande dolore fu perciò nell’accorgersi che, se voleva vederle in pace, le conveniva evitare che stessero a lungo insieme. Decisa così a secondare il desiderio del marito, ella lo aveva seguito a Firenze, ma quest’ultima risoluzione di Raimondo era stata causa della più viva opposizione del barone che voleva vicina la figlia e, giudicando troppo costosa la stabile dimora in una grande città, consigliava piuttosto brevi viaggi. Raimondo gli aveva risposto seccamente che quel consiglio era stupido, perché i viaggi appunto costano un occhio del capo; e lasciando in asso il suocero aveva dichiarato alla moglie, con brutte parole, troppo dure, ingiuste anche, di non voler più soffrire l’ingerenza di lui negli affari propri. Allora, per vincere l’opposizione del padre, ella aveva dovuto ricorrere all’espediente di cui s’era avvalsa tante volte, bambina: dirgli che il disegno di vivere un pezzo in Toscana era caro a lei stessa e pregarlo di farla contenta!…

«Quattrini e vite sprecate!… La guerra a tanta distanza…»

Mentre il duca continuava a sviscerare la questione d’Oriente ed a proporre combinazioni diplomatiche, tutti si volsero verso l’uscio d’entrata. La contessa sussultò, sperando che fosse suo marito; s’avanzava invece cerimoniosamente don Cono Canalà: «Sia pro a ciascuno!… Ma non veggio il contino?…» Così, così a Firenze, in una città dove, non che un parente, non aveva da principio neppure una conoscenza, ella era rimasta lunghissime ore, tanti e tanti giorni ad aspettarlo invano. Lì aveva pianto le sue prime lacrime, quando s’era vista trascurata; lì s’era nascosta per piangere, giacché egli o la derideva per quella «stupida» affezione, o dichiarava di non voler essere «seccato»… Avevano un modo radicalmente diverso d’intendere la vita: mentre ella metteva innanzi tutto l’affetto di suo marito e le gioie della famiglia, e non desiderava se non prolungare al fianco di Raimondo, sia pure in altri luoghi, l’ineffabile felicità domestica provata da fanciulla; il giovane viziato dalle preferenze della madre e finalmente uscito dalla sua ferrea tutela, aspirava unicamente ai liberi piaceri mondani. E per questo, dicendo a se stessa che egli aveva il diritto di divertirsi, che non faceva poi nulla di male, che i gusti delle persone sono naturalmente diversi, ella aveva represso il proprio dolore, si era persuasa del proprio torto. Quasi premio di questa sua rassegnazione, aveva finalmente provato le ineffabili gioie della maternità, e allora, come per incanto i tempi felici della luna di miele parve tornassero, tra perché Raimondo divenne veramente migliore, tra perché ella stessa, assorta in soavi pensieri, in cure minute, pose meno mente alla vita di lui. Al padre, che la raggiunse in quell’occasione, ella poté mostrare un viso raggiante di gioia; felice con lei, il barone dimenticò interamente le piccole liti avute col genero, tornò a volergli bene come ai primi tempi… Tutti aspettavano un maschio, tranne lei stessa che, se avesse osato contrastare i desideri altrui e far differenze tra i figli, avrebbe preferita una bambina. Una bambina nacque infatti, e quando si trattò di battezzarla, quantunque ella e il padre avessero desiderato chiamarla come la loro cara perduta, riconobbero tuttavia la convenienza di darle il nome della principessa. Rammentava forse più la madre felice i trattamenti sgraziati della suocera e della parentela? Quell’angioletto venuto a ristringere il nodo che la univa a Raimondo, a dissipare le nubi che minacciavano il suo bel cielo, non parlava unicamente di pace e d’amore?… Ahimè! Più presto che non credesse ella s’era accorta del proprio inganno. Già da quando erano venuti a Firenze, la suocera non le aveva più scritto, né risposto alle sue lettere, né accennato a lei nelle lettere che mandava al figliuolo. Il silenzio continuò durante la gravidanza, e dopo il parto comprese anche la bambina. Quando Teresina fu svezzata, Raimondo deliberò di fare una corsa in Sicilia; e da quel viaggio ella ripromettevasi la fine dell’incomprensibile rancore della principessa; invece, ella ricominciò a piangere allora… Donna Teresa Uzeda, non potendo prendersela con Raimondo per il trasferimento nella remota Toscana, ne aveva rovesciato la colpa sulla nuora; la sua gelosia e il suo odio si erano raddoppiati, le facevano una colpa perfino della nascita della bambina!… Come dimostrare a quella spietata il suo torto? Come persuaderla che suo figlio, contro il piacere di tutti, aveva voluto a forza fare quel che si era proposto? Ingenuamente, il barone non aveva detto che Raimondo era andato a Firenze per far piacere a Matilde?… Ella aveva così apprestato, senza saperlo, una nuova arma alla suocera; per ottenere l’accordo fra il marito ed il padre, aveva scatenato quella furia contro se stessa…

 

«La zia di Vostra Eccellenza!»

Annunziata dal maestro di casa, mentre il desinare stava per finire, entrava adesso donna Ferdinanda. Tranne il duca, tutti si levarono; la contessa con gli altri; ma la zitellona salutò tutti fuorché quest’ultima. Pochi minuti dopo sopravvenne don Blasco che per tutto saluto disse: «Ancora a tavola?» e non parve neppure accorgersi di Matilde… Che era mai, pensava ella, la ostentata trascuranza di costoro, a paragone della guerra mossale, anni addietro, dalla principessa? Non era bastato farsi da parte, non esprimere mai volontà, né desideri, né opinioni: l’odio aveva trovato sempre ragioni di sfogarsi. Esso riversavasi ancora contro l’innocente bambina che aveva il doppio torto d’appartenere al sesso disprezzato e d’esser nata da quella madre; e poiché, rassegnata personalmente a quei trattamenti, la madre sanguinava agli sgarbi fatti alla sua creatura, la principessa s’era messa a perseguitare con speciale accanimento la nipotina. Raimondo pareva non accorgersi di nulla, l’abbandonava più a lungo che a Firenze, non credendo di lasciarla sola poiché ella restava «in famiglia»; e il tormento di quella vita era divenuto in breve così acuto, che ella aveva sospirato il momento di tornarsene alla solitudine almeno tranquilla della sua casa di Firenze…

«Dov’è quell’altro?…» domandò di botto don Blasco, sbuffante alle elucubrazioni politiche del fratello duca.

«Quell’altro» doveva essere Raimondo; tutti lo compresero, rispondendo che non s’era visto, che forse era rimasto a desinare da qualche amico.

«Avrebbe potuto avvertire…» osservò il principe.

E quantunque quell’osservazione fatta con tono severo, senza riguardo per lei che era sua moglie, ferisse Matilde, un’altra voce ora le diceva: «È vero! Ha ragione!…» Ella stessa, tornata a Firenze, in quell’asilo che le era parso di pace e di felicità, non aveva forse pensato così, quando aspettando lungamente, di giorno e di notte, il ritorno di Raimondo che la lasciava ormai quasi sempre sola, s’era sentita struggere d’ambascia e di paura, non sapendo che cosa gli fosse accaduto, temendo sempre, con l’inferma immaginazione, pericoli e disgrazie? Suo marito, invece, non voleva renderle conto della propria vita, quasi fosse ancora scapolo, quasi ella non avesse nessun diritto su lui, quasi la loro bambina non esistesse! Quella figlia che doveva ancora più stringerli insieme, che per lo meno doveva essere, nel dolore, il gran rifugio della madre, non solo pareva non dir nulla al cuore di Raimondo, ma non bastava neppure a confortare lei stessa, poiché ella non poteva più scusare come nei primi tempi la condotta sempre più sfrenata del marito, poiché non ignorava più che egli la trascurava per altre donne, e poiché questa scoperta le faceva a un tratto sentire il coltello della gelosia… Ancora una volta, le passate sofferenze le erano parse nulla, paragonate a queste altre. Ella lo amava più che mai d’amore, per gli stessi difetti che gli aveva perdonati, per tutto quel che le costava; e le nuove, più brusche, più aperte dichiarazioni con le quali egli respingeva le preghiere di lei e derideva le sue lacrime e le faceva quasi una colpa dell’amor suo, la stringevano a lui sempre più. No, sua figlia non le bastava, la creaturina non poteva consolarla, nessuno al mondo poteva consolarla, ella doveva perfino nascondere le proprie torture al padre, scrivergli che era contenta e felice, perché egli non venisse a chieder conto a Raimondo di quella condotta, perché tra quei due uomini non scoppiasse la guerra!… E ancora una volta s’era messa a sperare nel ritorno in Sicilia; la terribile casa degli Uzeda le parve ancora una volta un’oasi, non avendovi almeno conosciuto il sospetto roditore come un verme. Quando da Catania scrissero a Raimondo di venir presto a casa, quando la stessa madre moribonda lo chiamò, ella fece di tutto per indurlo a partire ma vedendolo sordo alla voce della morente, sordo alle stesse ragioni dell’interesse, restare a Firenze, l’angoscia di lei s’era esacerbata, tanto aveva dovuto credere potenti le ragioni, i legami che lo trattenevano… Giusto in quei giorni le sue viscere avevano avuto un nuovo fremito; ella era madre un’altra volta – fredda, cattiva madre, se non tripudiava a quella scoperta; ma come avrebbe potuto gioirne, quando il padre della sua creatura le cagionava tanta tristezza; quando, all’annunzio della nuova paternità, egli restava indifferente e quasi fastidito come per una nuova molestia?… Repentinamente, giunto il dispaccio che annunziava la morte della principessa, erano partiti, ed ella aveva tratto liberamente il respiro, chiedendo perdono al Signore della gioia che provava per causa d’una morte; ma l’implacata avversione dei parenti l’affliggeva ancora una volta come prova della insospettata malvagità umana; e adesso che Raimondo, senza rispetto per la memoria della madre, faceva ciarlare tutta la città con la sua vita sbrigliata, ella domandava tra sé, con lungo sconforto: «Quando, dove avrò pace?…»